Il Principe

di Leonardo Morlino

Giudici e politica in Italia

Il rapporto tra giudici e politica ha attraversato, nel corso della Prima repubblica, diverse fasi. Ora, per la prima volta, la politica ha l'occasione di rafforzare il suo controllo sull'attività di indagine dei giudici. Con quale costo per la democrazia?

Leonardo Morlino
MORLINO

Per le democrazie contemporanee europee è un errore pensare alla famosa tripartizione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario, seguendo Montesquieu e le dottrine costituzionali liberali dei decenni successivi. Principalmente, ragioni di funzionalità e stabilità hanno portato a un assetto binario, ovvero un esecutivo che controlla il legislativo e un giudiziario.

Questi sono i due pilastri istituzionali delle democrazie, con il secondo potere che deve essere indipendente ed essere in grado di controllare il primo, secondo quanto previsto dalle leggi. In questa diade si inseriscono i media – tutti i media, dalla stampa alla radio e televisione, ai diversi social networks – che influenzano i rapporti tra quei due poteri, oltre a svolgere essi stessi indipendentemente una funzione di controllo della politica.

Studiando le transizioni alla democrazia dei decenni passati, numerose ricerche hanno mostrato come il raggiungimento effettivo dell’indipendenza dei giudici sia la prima condizione essenziale per avere una democrazia compiuta.

Quando, poi, si analizzano le crisi democratiche, si constata subito come il condizionamento o anche il controllo dei giudici – a cominciare dai livelli più alti – da parte del/i leader politici sia il primo passo che quel/i leader cercano di compiere per stabilizzare il loro potere.

Qual è la situazione italiana attuale? Che partita si sta giocando da anni tra giudici e politici?

Per capirlo meglio dobbiamo fare un passo indietro nel tempo, per poi giungere alla situazione attuale. Il consolidamento democratico in Italia è caratterizzato, da una parte, da una magistratura che veniva dagli anni del Fascismo e, dall’altra, da accordi tra i diversi gruppi di interesse (dagli imprenditori a gran parte dei sindacati) e la Democrazia Cristiana al governo. Così, ad esempio, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso i giudici, reclutati durante il Fascismo, perseguivano reati contro l’ordine costituito, che spesso riguardavano gli ex-partigiani di sinistra, mentre le indagini erano prevalentemente fatte dalla Polizia, alle dipendenze – come ora – del Ministero dell’Interno.

Un netto ricambio generazionale, con i famosi pretori d’assalto, avviene versi i primi anni Settanta. Fra i nuovi magistrati, specie i pm, vi son anche giovani ex-sessantottini che vedevano l’essere nella magistratura come un modo di cambiare il sistema dall’interno, attraverso vie legali. Ma è la riforma del Codice di procedura penale alla fine degli anni Ottanta che dà ai pm la responsabilità e l’iniziativa delle indagini in un contesto in cui il finanziamento illecito dei partiti, anche grazie a un ampio settore pubblico, era la regola non detta. Il processo noto come Mani Pulite, insieme alla caduta del muro di Berlino, porta al successivo terremoto politico e alla fine della cosiddetta Prima Repubblica. Di quegli anni rimane proprio in sospeso il rapporto tra politica e magistratura inquirente (non giudicante).

Dai primi anni Novanta in poi, con Berlusconi e altri leader politici di tutti gli schieramenti, si tenta di ristabilire un equilibrio che dia maggiore controllo ai leader politici sulle indagini dei magistrati inquirenti. Da qui nasce un braccio di ferro, protratto per decenni, che ha avuto diverse fasi e alla fine portato a una situazione di stallo.

Oggi, per la prima volta dopo anni, le recenti elezioni hanno dato una maggioranza compatta su questo tema, e la politica – i leader politici – vede la possibilità di riequilibrare la partita attraverso una forte posizione garantista, che apparentemente riguarda tutti i cittadini, ed è dunque pienamente legittima. Oltretutto questa partita per fare riprendere ai politici maggiore potere ed evitare di essere in continuazione sotto la minaccia di inchieste giudiziarie, viene condotta – ironia del caso – da un magistrato (in pensione). L’arresto proprio in questi giorni di un boss mafioso è un altro prodotto del caso, che rilancia ovviamente la partita facendo vedere come, con i mezzi a disposizione, i magistrati inquirenti possano ottenere risultati notevoli nella lotta alla criminalità, ma anche come criminalità organizzata e corruzione diffusa siano condizioni strutturali oggettive, che necessariamente danno un ruolo preminente ai giudici (inquirenti, innanzi tutto).

Come andrà a finire la partita non lo sappiamo. Ma se c’è un’occasione di rafforzare la politica attraverso un maggiore controllo sulle attività di indagine, questo sembra un’opportunità che la politica non aveva da anni. Sarebbe, però, sbagliato far prevalere quel senso di rivalsa che i politici non possono confessare apertamente. Questa è anche l’occasione per proseguire nelle soluzioni di compromesso, iniziate dalla riforma Cartabia, e capire che per quanto i politici si possano sentire minacciati dai pm, questa è una partita che in una democrazia stabile e sana non può essere vinta da loro a scapito di una magistratura indipendente – anche quella inquirente – che rimane la garanzia più forte per una democrazia.