Nel nuovo Testo Unico si ridisegna il novero dei soggetti operanti nel mercato e le condizioni di accesso a quest’ultimo, intervenendo poi sulla rispettiva operatività. Questo per incentivare operatori di “club deal”, holding di investimento, promotori di coinvestimenti, etc., che operavano sinora ai margini della disciplina del settore
Il recente schema di decreto legislativo recante – sembra – una parte della riforma organica del TUF, segna un punto di svolta per il settore della gestione collettiva del risparmio in Italia.
Con un intervento normativo di ampio respiro, il legislatore nazionale si è posto l’ambizioso obiettivo di riordinare e potenziare un comparto strategico per l’economia nazionale, introducendo una serie di innovazioni destinate a incidere profondamente sull’operatività dei gestori, sulla struttura dei veicoli di investimento e sulla competitività del mercato italiano, con un occhio di riguardo per i settori del private equity e del venture capital che, nella relazione illustrativa, sono «riconosciuti come settori in grado di garantire lo sviluppo e poi la crescita delle aziende, favorendo processi fondamentali di innovazione e contribuendo all’aumento dell’occupazione».
Le modifiche adottate dal legislatore – per ora solo proponente – non si limitano a un mero maquillage normativo, ma ridisegnano il novero dei soggetti operanti nel mercato e le condizioni di accesso a quest’ultimo, intervenendo poi sulla rispettiva operatività.
Viene superata la frammentazione terminologica precedente che faceva riferimento a singole figure di gestori quali Sgr, Sicav e Sicaf (queste ultime quando configurate come società di investimento in «gestione interna»), in favore della categoria trasversale dei «gestori autorizzati», cui oggi si propone di affiancare la nuova figura dei “gestori sottosoglia registrati”.
Viene, in sostanza, abbandonato il sistema dell’autorizzazione unica in favore di un modello – di particolare successo all’estero – che distingue tra i gestori autorizzati integralmente (ai sensi della AIFMD) e gestori sottosoglia registrati, eliminando per questi ultimi l’incisivo – e, invero, sproporzionato – regime di autorizzazione e vigilanza previgente.
In effetti, nel recepire nel 2014 la AIFMD (Alternative Investment Fund Managers Directive, cioè la Direttiva sui gestori di fondi di investimento alternativi), il legislatore nazionale operò una scelta peculiare e divergente rispetto a quanto fatto da molti altri Stati Membri. Poiché consentiva l’adozione di “norme più rigorose”, il legislatore scelse nello scorso decennio di non attuare il regime di mera registrazione di cui all’art. 3 AIFMD, optando per un regime autorizzativo unico per tutti i gestori, con minimi alleggerimenti nei requisiti e con una operatività confinata alla gestione dei soli FIA riservati al pari dei gestori registrati. Essi differivano rispetto ai gestori registrati solo per l’accesso alla procedura di passaporto che, per enti di quelle dimensioni, risultava tendenzialmente di scarso interesse.
Questa scelta ha generato negli anni un notevole svantaggio competitivo per l’Italia a causa degli evidenti oneri amministrativi e di vigilanza imposti a operatori di minori dimensioni (tra cui particolarmente gli operatori attivi nel private equity e nel venture capital) e che ha portato questi ultimi preferire schemi operativi – come i club deal, le holding di partecipazione, e i c.d. “coinvestimenti” – che sfuggivano (e continueranno a sfuggire) dall’ambito della riserva di attività.
Svantaggio competitivo che non è stato colmato dall’introduzione nel 2014 della SICAF come nuova forma di OICR societario (verso cui hanno mostrato interesse, al più, solo gestori specializzati nel settore immobiliare) o dalla creazione della SIS (che il legislatore odierno propone di abrogare per un evidente e continuato inutilizzo del modello).
In effetti, negli ultimi anni si è rilevata una certa tendenza alla creazione di nuovi veicoli e forme giuridiche di OICR e gestori nel tentativo di stimolare un mercato che è, tuttavia, rimasto insensibile.
Infatti, la Relazione Illustrativa del Governo sottolinea che, pur rappresentando quasi la metà dei GEFIA autorizzati in Italia, i gestori sottosoglia hanno gestito masse molto contenute (attivo medio di circa 70 milioni di euro), ben al di sotto delle soglie massime (500 milioni), con un rischio sistemico limitato.
Il problema, dunque, non era la disponibilità di forme di OICR (in particolare di OICR societari), quanto un meccanismo di accesso al mercato e un impianto di vigilanza sovradimensionato rispetto alle dimensioni dei gestori, ai rischi gestiti, ai costi operativi e al mercato di riferimento (limitato, peraltro, per espressa previsione normativa).
L’impianto generale della riforma “organica” si sviluppa su due linee: la razionalizzazione dell’esistente introducendo definizioni (non sempre) più precise o categorie più ampie e l’introduzione di strumenti pensati, almeno nelle intenzioni, per soddisfare l’esigenza di segmenti di mercato sottosviluppati, come è il mercato del capitale di rischio.
Ciononostante, il legislatore sembra ripetere l’errore metodologico già compiuto negli anni passati laddove sceglie di introdurre comunque una nuova forma di OICR societario in sostituzione della SIS.
Si decide, infatti, di introdurre la «società di partenariato», OICR societario in forma di società in accomandita per azioni destinato specificamente agli operatori dei settori – non proprio definiti con precisione – del private equity e del venture capital.
Con la nuova lett. i-quater.6) dell’art. 1, comma 1, TUF il legislatore definisce l’attività di «private equity e venture capital» come quella attività di «investimento in imprese non quotate nei mercati regolamentati, attraverso strumenti di capitale, di debito, o altre forme similari, incluso l’investimento ulteriore nelle predette imprese successivamente all’eventuale ammissione delle stesse alla quotazione».
Definizione che certamente coglie la sostanza dell’attività di private equity (e meno quella di venture capital), ma che non offre sotto il profilo giuridico alcun elemento che consenta di distinguerla oggettivamente da altre forme di investimento nel capitale di rischio delle imprese.
Essenzialmente, questa nuova definizione valorizza nel private equity e nel venture capital la dimensione negativa, configurando le attività sostanzialmente come meri “investimenti in società non quotate”. Non rileva in alcun modo quella “ingerenza operativa” e quell’apporto di professionalità e di relazioni che l’investitore porta nell’impresa non quotata target e che rende l’investimento di private equity (e ancor più l’investimento di venture capital) come un investimento compiuto per la crescita dell’organizzazione produttiva e aziendale che trascende il mero apporto nelle imprese di risorse da imputare a capitale.
Con l’introduzione del nuovo Capo I-ter TUF, il legislatore propone di creare un quadro normativo alleggerito, pensato per favorire l’accesso al mercato di nuovi operatori e per ridurre gli oneri di conformità per quelli di dimensioni contenute, senza rinunciare a strumenti essenziali di tutela e vigilanza.
Il nuovo regime si applica ai GEFIA (gestori di fondi di investimento alternativi) il cui valore totale delle attività in gestione non supera la soglia di 100 milioni di euro, o a 500 milioni di euro sei i FIA gestiti non fanno ricorso alla leva e non consentano il rimborso delle quote per almeno i primi cinque anni. I soggetti che rientrano in questi parametri – SGR, SICAF e «società di partenariato» – non necessitano di una autorizzazione ai sensi dell’art. 32-quater TUF, ma sono tenuti a chiedere l’iscrizione in un registro appositamente istituito dalla Banca d’Italia ai sensi dei nuovi artt. 35-quaterdecies e ss. TUF.
Si prevede nel nuovo comma 3-ter dell’art. 33 TUF che «i GEFIA sotto soglia registrati prestano il servizio di gestione collettiva del risparmio e le attività previste dal comma 1 nei limiti e alle condizioni previsti all’articolo 35-quaterdecies. Essi possono altresì svolgere le [sole] attività connesse e strumentali», con la conseguente esclusione di tutte le altre attività di cui all’art. 33, comma 2, TUF (gestione di portafogli, collocamento delle quote o azioni dei propri FIA, etc.).
L’accesso al regime di registrazione di cui al nuovo art. 35-quaterdecies TUF comporta precise limitazioni operative.
Oltre alle soglie patrimoniali (che discendono direttamente dalle previsioni della AIFMD) e alla limitazione della verifica di idoneità degli esponenti aziendali ai soli requisiti di onorabilità, le SGR registrate potranno gestire esclusivamente fondi chiusi e devono essere esclusivamente riservati a investitori professionali o a quegli investitori che, pur non essendo professionali, o siano parte del personale del gestore oppure il cui portafogli abbia un valore non inferiore a cinque milioni di euro e abbiano eseguito e versato in una unica soluzione almeno cinquecento mila euro. Non è consentita, invece, la gestione di fondi di credito, fondi EuVECA e fondi EuSEF (art. 35-quaterdecies, comma 1, lett. h) e i), TUF nel testo contenuto nello schema di decreto), né l’assunzione del ruolo di gestori esterni di altri OICR societari.
Sostanzialmente, ai gestori registrati è preclusa la gestione di OICR aperti essendo implicitamente riservata ai gestori autorizzati ai sensi della AIFMD o della Direttiva UCITS (in base al tipo di autorizzazione e di OICR).
Allo stesso modo, se ne può dedurre che il legislatore abbia voluto nuovamente modificare – apparentemente in senso restrittivo rispetto alle norme previgenti – l’ambito degli investitori non professionali eccezionalmente ammessi a sottoscrivere quote o azioni di FIA riservati gestiti da gestori autorizzati.
Queste limitazioni sembrano rispondere a una duplice finalità: da un lato, contenere i rischi sistemici che potrebbero derivare da un’operatività meno regolamentata nel mercato del credito; dall’altro, indirizzare questi gestori verso il loro ambito d’elezione, ovvero il supporto al capitale di rischio delle imprese.
L’esclusione, poi, della gestione degli OICR di credito porta a credere che il regime di registrazione sia stato pensato proprio per quegli operatori specializzati nei in settori della c.d. “economia reale” e, dunque, per i soggetti attivi nel private equity e venture capital e gestori di OICR immobiliari.
Certamente di rilievo è anche la proposta di introdurre la «società di partenariato», un nuovo tipo di OICR chiuso societario specificamente concepito – almeno nell’intento – per gli operatori di private equity e venture capital.
La società di partenariato ha forma di società in accomandita per azioni e deve essere costituita con sede legale e direzione generale in Italia.
La scelta di ricorrere alla S.a.p.A. è, all’evidenza, tratta dai modelli gestori delle limited partnerships di stampo anglosassone e dalle société en commandite par actions o spécial di diritto lussemburghese per la gestione di RAIF da parte di GEFIA autorizzati dalla CSSF ovvero per la gestione di veicoli di private equity e venture capital.
Nei predetti ordinamenti, questo modello operativo si caratterizza normalmente per la designazione di un socio accomandatario appositamente costituito e avente forma di società di capitali, senza alcuna risorsa o con risorse insufficienti per far fronte ai propri creditori (e, dunque, agli investitori che dovessero agire per mala gestio) e per una catena partecipativa tendenzialmente opaca.
Come noto, il modello delle accomandite – quand’anche per azioni – comporta per l’accomandatario la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali e all’estero, per ovviare all’apparente svantaggio, si consente la partecipazione in veste di accomandatari (o di unlimited partner) a società di capitali comuni sprovviste di risorse. Si consente, insomma, al “gestore” di esercitare il potere tipico del socio accomandatario, beneficiando delle limitazioni di responsabilità dei soci proprie delle società di capitali comuni.
Il nostro legislatore ha, perciò, ritenuto fosse opportuno riprodurre questo modello nell’ordinamento settoriale italiano (senza, però, intervenire in quella parte di private equity e venture capital che resterà non vigilato). Ciò trascurando che, salvo rare e antiche eccezioni, la S.a.p.A. ha avuto scarso sviluppo in Italia, tra varie ragioni, a causa della gravosità della responsabilità cui è esposto legalmente il socio accomandatario.
Si può credere, in prima approssimazione, che il legislatore introduca un siffatto veicolo per offre agli operatori esteri di private equity o venture capital uno strumento più affine alle prassi internazionali e, dunque, maggiormente comprensibile per questi ultimi, così rendendo il nostro ordinamento più attrattivo.
Il legislatore configura la «società di partenariato» come un FIA riservato societario specializzato: la società ha per oggetto sociale esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio «nelle forme del private equity e del venture capital», ossia in società non quotate o l’incremento di investimenti in società quotate in portafoglio prima della quotazione.
Possono essere azionisti solo investitori professionali e i soggetti individuati con il regolamento ministeriale di cui all’art. 39 TUF (e, dunque, gli investitori non professionali eccezionalmente ammessi dalla legge a investire nei FIA riservati).
Questa società è, almeno nelle intenzioni, destinata a investimenti nel capitale di rischio di imprese commerciali non quotate ad alto potenziale, configurandola in due possibili strutture.
Da un lato, le società di partenariato in «gestione interna autorizzata» ai sensi dell’art. 35-novies.1 e ss. TUF e «sottosoglia registrata» ai sensi dell’art. 35-quaterdecies, comma 3, TUF che – almeno in linea teorica – dovrebbero essere promosse da coloro che assumeranno il ruolo di azionisti accomandatari.
Dall’altro, la «società di partenariato in gestione esterna autorizzata», che non gestisce il proprio patrimonio e che delega, per statuto, la gestione a un gestore esterno autorizzato (che, tuttavia, non necessariamente assume il ruolo di socio accomandatario). In quest’ultima configurazione la società di partenariato ha struttura analoga alle SICAV e SICAF eterogestite (o, come note oggi, «in gestione esterna»).
Non è tuttavia chiara la ragione per cui il legislatore riproduca regime normativo delle SICAV e SICAF «in gestione esterna». Va, poi, detto che il «gestore esterno» delle SICAV e delle SICAF ravvicinava molto le società di investimento al modello dell’accomandita società in accomandita per azioni e nel caso delle «società di partenariato» una simile previsione – contenuta nel nuovo art. 38-bis TUF – appare, invero, superflua.
Ciò suggerisce ulteriormente l’inopportunità di alterare il modello della società in accomandita per azioni nell’ambito della disciplina della «società di partenariato» in «gestione esterna» e ci si sarebbe dovuti, al più, limitare a coordinare la disciplina societaria comune con i principi fondamentali della gestione collettiva del risparmio.
Si potevano, infatti, mantenere ferme le previsioni dell’art. 2455 e 2457 c.c. (che impongono la nomina statutaria dei soci accomandatari e disciplinano la revoca) aggiungendo norme di mero coordinamento che specificassero le procedure e condizioni per la sostituzione del gestore-accomandatario.
Certo, questo avrebbe comportato un obbligo implicito per il gestore-accomandatario di sottoscrivere azioni della società di partenariato e di investire con i propri accomandanti, ma questo rischio si sarebbe potuto limitare con accorgimenti normativi certamente più contenuti. Ciò anche guardando alle prassi degli operatori di private equity e del venture capital, in cui i promotori tendono ad accompagnare gli investitori con un proprio investimento.
Allo stesso modo, si sarebbe dovuta lasciare una maggiore flessibilità nella determinazione degli organi di controllo, lasciando ferma la possibilità per gli azionisti di scegliere tra il sistema tradizionale e il sistema dualistico.
Inoltre, l’art. 35-novies.1 TUF si limita a imporre il possesso dei requisiti di idoneità di cui all’art. 13 TUF per i «soggetti che svolgono funzioni di amministrazione e controllo» e per i partecipanti qualificati il possesso dei requisiti di cui all’art. 14 TUF. Non si è tenuto conto del fatto che nelle S.a.p.A. i soci accomandatari rappresentano tanto chi «svolge funzioni di amministrazione», quanto i «titolari di partecipazioni qualificate».
Peraltro, è proprio sull’individuazione dei «titolari di partecipazioni qualificate» che si sarebbe dovuto intervenire. La capacità di esprimere un controllo o l’influenza notevole non si esprime nella S.a.p.A. nel potere di nominare tutti o la maggioranza degli amministratori, quanto nella possibilità di revocarli con la «maggioranza prescritta per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria delle società per azioni». Era, dunque, necessaria una norma di coordinamento tra l’art. 14 TUF (che, in effetti, continua a contempla norme relative alle sole SICAV e SICAF) e le forme del controllo sulla S.a.p.A. di cui all’art. 2456 c.c.
Nulla, inoltre, si dice in punto di regime di responsabilità dei soci accomandatari quali titolari di diritto delle «funzioni di amministrazione». L’art. 38-bis TUF si limita a evidenziare che «il gestore esterno può essere anche socio della società di partenariato», non comprendendosi se possa (o debba) essere anche qualificato nello statuto come socio accomandatario.
Non si comprende più ampiamente il motivo per cui il legislatore non abbia ripensato la disciplina degli OICR societari (settore peraltro funestato da un costante – e non ingiustificato – scarso interesse del mercato). Si sarebbe potuto (e dovuto) razionalizzare la disciplina utilizzando in modo più sapiente il modello della S.a.p.A. per ripensare integralmente la sistematica degli OICR societari.
L’evidenza che la “popolazione” degli OICR societari esistenti è addirittura inferiore alla quantità di modelli messi a disposizione dal TUF avrebbe, infatti, dovuto indurre il legislatore a scrivere le norme in parola con maggior cautela.
In sostanza, l’introduzione della «società di patenariato» rischia di avvenire in modo artificiale come l’introduzione della SICAV negli anni ‘90.
Al di là delle critiche di ordine sistematico va, tuttavia, sottolineato come l’invenzione della «società di partenariato», unitamente al nuovo regime di registrazione, possa essere utilizzato come un valido strumento di emersione degli operatori del private equity e del venture capital che ricorrono a schemi operativi non vigilati.
Si vuole evidentemente incentivare chi oggi ricorre a schemi operativi non soggetti alla riserva di attività quali operatori di “club deal”, holding di investimento, promotori di coinvestimenti, etc. Operatori che, seppur in modo pienamente e indubitabilmente legittimo, operavano sinora ai margini della disciplina settoriale.
Da un lato, il legislatore mantiene una minima area di vigilanza (esclusivamente censitaria e informativa) e offre agli operatori interessati vantaggio operativo e “reputazionale” (e, dunque, un vantaggio competitivo), così da risaltare rispetto ai propri concorrenti.
È, tuttavia, lecito ritenere che la regolazione dei settori del private equity e del venture capital sia ancora incompleta nonostante la “riforma organica”.
Al riconoscimento degli operatori di private equity e venture capital sarebbe dovuto seguire una regolazione (e, dunque, il mero riconoscimento) di quegli schemi operativi che si sono sviluppati nell’ultimo decennio e che sono stati largamente utilizzati nel settore allo scopo di prevenire più efficacemente i potenziali abusi.