La violenta tempesta economico-finanziaria che per circa sei anni ha investito il nostro Paese ha provocato l’espulsione dal circuito produttivo (fallimento, procedura concorsuale non fallimentare, liquidazione volontaria) di circa un quinto delle PMI attive nel 2007. A quelle che sono riuscite ad attraversare un periodo così difficile il contesto attuale (graduale miglioramento della congiuntura economica e condizioni finanziarie particolarmente accomodanti) offre l’opportunità per attenuare la fragilità finanziaria evidenziatasi durante gli anni della crisi. Nel prossimo futuro la dialettica competitiva tra canale bancario e mercato dei titoli dipenderà in misura non secondaria anche dalle ricadute delle decisioni assunte dalla Bce il 10 marzo scorso. Novità si scorgono sia sul versante della dotazione patrimoniale, sia per quanto riguarda il profilo dell’indebitamento. Nel complesso, però, la dimensione del problema sembra poco mutata.
Una recente ricerca [Cfr. Sole 24 Ore del 15 febbraio 2016] analizza come è cambiata la dotazione patrimoniale di circa 31mila imprese italiane il cui fatturato supera i €5 milioni. Circa tre quarti delle imprese esaminate hanno accresciuto il loro patrimonio (nell’insieme, +€42,6 mld); le restanti 8.600 hanno invece evidenziato una riduzione di questo stesso aggregato per €21,6 mld. Il patrimonio netto di queste aziende, che rappresentano la struttura portante dell’intero sistema produttivo, risulta quindi nel 2014 complessivamente incrementato di €21 mld. Di questo importo, poco meno della metà (€9,9 mld) è attribuita alle imprese di dimensione maggiore (fatturato superiore a €200 mln).
Il messaggio che viene da questa ricerca appare poco esaltante non solo perché l’incremento è complessivamente limitato (+4% circa) ma anche perché largamente attribuibile alle imprese di “fascia alta”, quelle con una leva finanziaria meno lontana da quanto rilevabile altrove nell’area euro per imprese della stessa dimensione.
Un rafforzamento della struttura finanziaria è in qualche misura avvenuto attraverso una rimodulazione del profilo dell’indebitamento. In un contesto decisamente “bancocentrico”, come è quello prevalente in Italia e nel resto dell’eurozona, ogni novità è inevitabilmente interpretabile come disintermediazione del canale bancario; complementare a questa lettura è quella che vede nelle novità di questi anni un’evoluzione verso un mercato dei finanziamenti alle imprese più articolato, non solo per quanto riguarda il profilo dei soggetti finanziari ma anche per le caratteristiche dei contratti.
La crisi economico-finanziaria sviluppatasi nel 2008-09, con il definirsi di una situazione di tendenziale credit crunch, ha costituito un momento decisivo in questo processo di evoluzione. Pochi dati per documentarlo: l’insieme dei finanziamenti alle imprese, aggregato che combina la consistenza in essere dei prestiti bancari e l’insieme delle obbligazioni corporate in circolazione, è oggi su livelli quasi analoghi a quelli di 8 anni fa, tanto nell’eurozona quanto in Italia; parallelamente, la quota dei titoli di debito societari in questo aggregato è salita di circa 6 punti percentuali, un incremento pari a circa il 50% nel caso dell’eurozona (da 11,2% a 17,5%) e pari quasi al raddoppio nel caso dell’Italia (dal 6,6% a 12,8%).
Nel caso italiano un contributo importante a questa evoluzione viene dal mercato dei minibond. Nei tre anni che separano novembre 2012 (prime due operazioni) da dicembre 2015 risultano perfezionate 179 emissioni (di cui oltre l’80% di importo inferiore a €50 mln), da parte di 145 imprese (di cui 65 PMI) per un importo complessivo di €7,2 mld.
Nel solo 2015 risultano completate 78 emissioni da parte di 54 imprese, delle quali 26 PMI; 48 le società che hanno debuttato come emittenti. L’ammontare complessivo delle emissioni si è aggirato intorno a €1,5 mld, quindi meno di un decimo delle emissioni delle società non finanziarie e il 3% circa delle emissioni delle imprese non bancarie (finanziarie e non finanziarie). Questi ultimi dati indicano che sul piano dei volumi siamo ancora nei limiti di un’esperienza molto limitata; molte circostanze (tanto dal lato della domanda quanto da quello dell’offerta) fanno però ritenere che il circuito dei minibond possa (gradualmente) diventare un importante fattore di trasformazione del circuito non bancario di finanziamento delle imprese.
Il prevalere nel prossimo futuro del canale bancario o, alternativamente, di quello della raccolta in titoli dipenderà in misura non secondaria anche dalle ricadute di alcune decisioni assunte dalla Bce il 10 marzo scorso. Ovviamente il riferimento è da un lato all’avvio di una nuova serie di operazioni a più lungo termine (TLTRO II, Targeted Longer Term Refinancing Operations), dall’altro lato alla decisione di includere tra le attività ammissibili per gli acquisti regolari (ampliati fino a €80 mld) anche le obbligazioni denominate in euro emesse da società non bancarie situate nell’eurozona, con un rating almeno investment grade. Nella forma di finanziamenti con scadenza a quattro anni, il TLTRO II farà affluire risorse agli istituti di credito che erogheranno nuovo credito a imprese e famiglie, in quest’ultimo caso con la conferma dell’esclusione dei mutui fondiari; l’operazione partirà nel giugno prossimo e si articolerà in quattro appuntamenti trimestrali. Il TLTRO II si presenta decisamente generoso nelle condizioni e ampio nei volumi (nell’ipotesi massima si potrebbero raggiungere i €300 mld nel caso dell’Italia e sfiorare i €1.700 mld per l’intera eurozona).
Le precedenti edizioni di questo tipo di interventi hanno prodotto risultati contenuti. Anche questa volta i dubbi non mancano. Le operazioni TLTRO sono una risposta efficace a problemi di liquidità del circuito bancario, come fu evidente nel caso della LTRO del 2011-12. La loro efficacia risulta decisamente appannata, invece, quando l’ostacolo all’espansione del credito è individuabile nella limitata disponibilità di patrimonio delle banche e/o nelle incertezze della congiuntura economica e/o nella elevata rischiosità della domanda (attualmente soprattutto dal lato delle imprese). Comunque, come nel caso della precedente edizione (TLTRO I varata a metà 2014), non dovrebbe mancare un impatto al ribasso sulla struttura dei tassi d’interesse attivi.
Non esistono precedenti per formulare ipotesi accurate sulle possibili ricadute delle operazioni di acquisto dei titoli corporate. Secondo un censimento attribuito alla banca d’investimento Merrill Lynch, nell’eurozona ci sarebbero in circolazione circa €550 mld di bond aziendali con le caratteristiche indicate dalla Bce, dei quali €209 emessi da società francesi, €122 mld da società tedesche, €69 mld da società italiane e €57 da società spagnole. Gli eventuali acquisti della Bce farebbero scendere i rendimenti dei titoli in circolazione e quindi anche quelli richiesti per il collocamento delle nuove emissioni. Il circuito riconquisterebbe così parte della competitività che la precedente TLTRO ha trasferito nell’ultimo anno e mezzo al canale bancario. Probabilmente deriveranno ricadute anche per i mercati dei titoli corporate non suscettibili di acquisti da parte della Bce (rating inferiore a investment grade) perché verso di essi si indirizzeranno gli investitori alla ricerca di rendimenti più significativi.
Nell’insieme è difficile pronosticare se, in che paesi e quale dei circuiti di finanziamento delle imprese riuscirà a strappare un vantaggio competitivo. L’auspicio è che questo intervento della Bce non si risolva comunque in un “gioco a somma zero”.