SISTEMA INTERNAZIONALE
Fondo monetario e Banca Mondiale: riforma o declino

Le voci che criticano le grandi istituzioni che da 80 anni regolano l'ordine finanziario globale sono in aumento. Ecco con quali argomenti. E quali sono le reazioni finora

Paola Pilati

Per le grandi istituzioni dell’ordine economico mondiale tenute a battesimo da Bretton Woods sembra essere venuto il momento della resa dei conti con la nuova realtà multipolare che si è venuta consolidando negli ultimi anni. In 80 anni di attività, Fondo monetario e Banca Mondiale hanno dispensato aiuti e moniti per tutelare la stabilità finanziaria internazionale e sono stati gli interlocutori fondamentali per molti paesi in via di sviluppo. Oggi la loro efficacia e autorevolezza, ma soprattutto la loro capacità di assolvere la propria missione, sembrano appannate.

Proprio dal fronte dei paesi in via di sviluppo arrivano le critiche più aspre. FMI e WB sono accusati di riservare da sempre un peso eccessivo ai paesi occidentali; del fatto che i nuovi equilibri di potere che si sono delineati non vengono rispecchiati né nella governance di quelle istituzioni, né nella sua policy. Peggio, del fatto che la sua struttura di comando venga piegata agli interessi geopolitici dei due poli egemonici, Usa ed Europa.

Come ricordano in un loro recente articolo su Project-syndacate.org Paulo Noguera Batista jr e Robert H. Wade (il primo ex-executive director dell’FMI, il secondo professore di Economia politica alla London School of Economics), l’Unione europea, che con i suoi 27 paesi esprime solo il 15% per Pil mondiale, possiede il 30% dei diritti di voto, che diventa il 33% se si aggiunge la Gran Bretagna; occupa 7-9 posti sui 24 del board; si è sempre aggiudicata il ruolo di managing director e pure quello del suo primo vice.

La Cina, pur avendo un peso stimato in termini di Pil mondiale del 19% nel 2024, ha diritti di voto per il 6,4%. E la quota dei diritti di voto è anche quella che guida da un lato quanto si deve contribuire al Fondo, dall’altro quanto si può chiedere in termini di aiuti.

Tutti vari round di revisione del peso delle quote mirato a dare più spazio ai paesi in via di sviluppo non hanno limato di un millimetro il peso egemonico dell’Occidente, accusano Noguera Batista e Wade, a parte la concessione di un terzo posto di executive director per i paesi dell’Africa Sub-Sahariana. Lo dimostra il fatto che il Lussemburgo pesa di più delle Filippine, dell’Egitto, o della Colombia e che Argentina, Sudafrica e Nigeria pesano meno dell’Irlanda, come Brasile e Indonesia valgono meno dell’Olanda.

Ma è un altro aspetto dell’attività del Fondo che richiede una riforma, quello dei “surcharge”, il sovrapprezzo che viene richiesto ai paesi – quelli del Sud del mondo – che hanno bisogno di prestiti particolarmente ingenti e a lungo termine: i tassi praticati superano spesso quelli di mercato e costituiscono per quei paesi, finanziariamente deboli, una vera palla al piede.

A farne una questione di giustizia economica, ma anche di credibilità della stesso Fondo, è stato un vibrante articolo di Joseph Stiglitz, professore alla Columbia University e premio Nobel. Ben 22 paesi, spesso flagellati dai conflitti e dai disastri naturali, ha osservato, devono pagare al Fondo un sovrapprezzo complessivo di 2 miliardi di dollari ogni anno sotto forma di surcharge, per i prossimi 5 anni. Inoltre, poiché il Fondo ha il diritto di essere ripagato prima di altri creditori, questo limita l’accesso di quel paese al mercato dei capitali.

Le critiche su quest’ultimo tema hanno avuto effetto, visto che proprio a metà ottobre il Fondo monetario ha annunciato che il suo Executive board aveva deciso di riformare i surcharge, il che dovrebbe ridurre il costo dei prestiti del 36%, con una serie di provvedimenti che diventano operativi dal primo di novembre.

Non basta, ha censurato il Cepr (Center for Economic and Policy research): “i paesi …. adesso pagheranno l’equivalente di 2,75 punti percentuali in più di interesse sui prestiti, dai 3 punti percentuali di prima. La riforma si può considerare marginale”, hanno concluso l’economista Michael Galant, facendo pensare che la montagna ha partorito un topolino.

Ma la riforma di fondo necessaria e su cui puntano i paesi in via di sviluppo è quella che dovrebbe portare ad una nuova formula per l’attribuzione delle quote, per riequilibrare il peso delle diverse aree del mondo che sia più rappresentativo della realtà.

In quale clima politico cadono queste istanze? Lo si vedrà in tempi brevi, dato che le occasioni di appuntamento per misurare la volontà riformatrice non mancano: dopo i meeting di banca Mondiale e Fondo monetario che si sono appena svolti in ottobre a Washington, arriverà il G20 e la COP 29 a novembre, seguiti a dicembre dal round di rifinanziamento dell’Ida, l’International Development Association, l’organismo della Banca Mondiale per il sostegno dei paesi poveri, in nome del quale si sono mossi autorevoli economisti, dallo stesso Stiglitz a Daron Acemoglu, per chiedere che i suoi mezzi siano aumentati del 20 per cento.

La roadmap sulla carta si presenta lineare e potrebbe raggiungere i risultati virtuosi che gli economisti si augurano in breve tempo. Ma come Kristalina Georgieva, managing director del Fondo, ha appena detto: «These are anxious times». Troppo cose all’orizzonte potrebbero cambiare e cambiare il verso della cooperazione economica internazionale, corrodendo irreparabilmente le basi che oggi tengono in piedi FMI e WB.

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