In Filigrana

di Giuseppe G. Santorsola

Fondi comuni: 40 anni ben vissuti, con qualche area critica

Istituiti nel 1983, i fondi comuni si sono sviluppati fino a raggiungere, oggi, un patrimonio gestito pari al 120 per cento del Pil. Il bilancio è positivo: nel complesso, l’industria dei fondi ha contribuito all’efficienza e alla stabilità dei mercati dove opera

Giuseppe Guglielmo Santorsola
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Il 23/3/1983 veniva promulgata la Legge che istituiva i fondi comuni di investimento mobiliari aperti. Si concludeva un lungo iter parlamentare che aveva avuto inizio nel 1967, con la presentazione della proposta di legge da parte del senatore Ubaldo De Ponti. Un cammino spesso interrotto soprattutto perché il sistema bancario non condivideva l’ipotesi dell’introduzione di uno strumento finanziario che appariva competitivo rispetto alla gamma dei depositi bancari che intermediavano la quota prevalente del risparmio nazionale.

Anche il sistema industriale non apprezzava il sostegno degli investitori istituzionali, in un contesto di capitalismo familiare e di finanza banco-centrica che non considerava ancora il valore di regole di buona governance. 

Peraltro, già negli anni ’70 era stata autorizzata (in un contesto comunitario ancora limitato nella sua armonizzazione) la commercializzazione di alcuni fondi comuni aperti e chiusi promossi da intermediari italiani (banche assicurazioni e un intermediario non bancario), ma localizzati in Lussemburgo e regolati dalla normativa locale. Sono ancora denominati convenzionalmente come “fondi lussemburghesi storici” e ne rimangono operativi – seppur profondamente trasformati – alcuni che restano assimilati, nella normativa e nella prassi commerciale, ai fondi italiani.

È curioso rilevare oggi che questi strumenti, allora, potevano commercializzare in Italia quote limitate del loro patrimonio, dovendo rispettare i numerosi vincoli imposti, dal 1974, per l’esportazione di capitali e per l’investimento all’estero da parte dei risparmiatori italiani.

La esterovestizione comportava quindi una innaturale distorsione della struttura tipica dei fondi aperti, che non potevano gestire liberamente la sottoscrizione delle quote, ferma restando la possibilità dei clienti di chiederne il riscatto. Più agevole risultava la gestione dei fondi chiusi, per i quali la gestione della domanda è condizionata dalla dimensione autorizzata del capitale. I soggetti italiani attivi nel segmento erano in particolare Fideuram, Banco di Roma, Ras e Comit. In totale, sette fondi.

La regolamentazione del 1983 in Italia determina uno sviluppo quasi incontrollato del mercato tra il 1984 (anno di effettiva introduzione degli strumenti sul mercato) e il maggio 1986. La raccolta raggiunse quasi il quadruplo di quella stimata, i prodotti su cui ripartire la domanda erano pochi e il 90% della raccolta doveva essere investito nel mercato italiano caratterizzato da poche società quotate, alcune delle quali con limitato book value. Esplose una bolla speculativa che minò i rendimenti degli investitori, ma anche la corretta percezione dell’investimento da parte del mercato. La svolta nella disciplina degli investimenti all’estero adottata nel 1989 regolarizzò la gestione e rigenerò il mercato.

Una crisi minore, ma significativa per la miglior individuazione delle caratteristiche dei prodotti, intervenne nel 1997, quando si interruppe la crescita dei mercati asiatici quando le società di gestione avevano da poco introdotto fondi specializzati al riguardo; anche in questo caso, si inverti la dinamica fra sottoscrizioni e riscatti senza creare irregolarità o liquidazioni. Paradossalmente, consentì a molti investitori di investire nel comparto a prezzi più vicini al fair value, prima dell’espansione di alcune di quelle economie.

È necessario ricordare che la scelta più strutturata di investire in Fondi Lussemburghesi è cresciuta dagli anni 2000 in poi. All’inizio si sceglieva questo investimento poiché nei paesi esteri si potevano trovare dei vantaggi fiscali e dei regolamenti più accoglienti, sia per il risparmiatore sia per le case di gestione. Dopo il 2011 è venuta a mancare la differenza di tassazione e di trattamento fiscale e quindi anche i vantaggi per gli investitori sono diminuiti.

In termini concreti, nel contesto tributario nazionale, i fondi italiani (e quelli lussemburghesi storici) venivano trattati fiscalmente direttamente calcolando giornalmente plusvalenze e minusvalenze imputandole al valore delle quote, mentre i fondi esteri (compresi i lussemburghesi non italo-vestiti) operavano in regime amministrato con gestione di plus-minusvalenze legata al momento del disinvestimento da parte del risparmiatore.

Questa differenza ha comportato – fino al 2011 – una distorsione nella percezione dei rendimenti e della lettura del valore delle quote soprattutto per coloro che mantenevano a lungo la posizione di sottoscrittori (in disaccordo con la filosofia stessa dello strumento).

Ulteriore momento critico è occorso quando gli intermediari italiani, shareholders di SGR sia italiane che comunitarie (cioè, quasi tutti i principali) hanno, per motivi invero diversi fra loro, ceduto, abbandonato o condiviso la proprietà delle SGR italiane, concentrando l’attenzione sulle case di investimento localizzate nel tempo non solo in Lussemburgo ma anche in Eire, altra localizzazione dotata di condizioni amministrative e tributarie favorevoli.

In alcuni casi, banche italiane hanno ceduto il controllo e/o la partecipazione restando invece distributori, spesso peraltro con un’architettura commerciale aperta anche a mandati ricevuti da molteplici altre società di gestione. Infine, le numerose concentrazioni bancarie degli ultimi 25 anni hanno imposto numerose operazioni di fusione o incorporazione fra le SGR fondate dalle banche oggetto delle operazioni, fenomeno che ha coinvolto in misura ancora più rilevante il destino dei fondi comuni, spesso simili, offerti in precedenza dai singoli canali bancari. Negli anni successivi, questo scenario ha coinvolto anche alcune sim di distribuzione, le cui operazioni di M&A hanno determinato la stessa razionalizzazione del parco prodotti.

Numerosi “prodotti” nati all’inizio fra il 1984 e il 1985 sono ancora presenti sul mercato quale struttura giuridica, ma non come regolamento, ambito di investimento, classificazione per tipologia e denominazione. Le modifiche intervenute, nella maggior parte dei casi, non hanno comportato l’utilizzo del diritto di recesso previsto dalla normativa da parte dei precedenti sottoscrittori.

Osservando globalmente l’universo di questi cambiamenti la gamma degli strumenti ne esce totalmente rivoluzionata. La stessa classificazione adottata da Assogestioni (che originariamente si chiamava Assofondi) è ripartita in 42 categorie. Peraltro, questa soluzione ha ormai oltre 20 anni e non è stata più influenzata (salvo qualche cambio di denominazione) dall’imponente crescita di sotto-classificazioni sviluppatasi negli anni con la diversificazione delle asset class, dalla nascita di nuovi settori economici e dalla progressiva introduzione dei criteri ESG nelle politiche di asset management.

Solo per memoria, e in memoria del passato, l’offerta originaria si caratterizzava in genere per 3 differenti tipologie (l’obbligazionario, il bilanciato e l’azionario) senza specializzazione geografica o settoriale, distinzione fra tipologie di obbligazioni o loro orizzonte temporale. Una strategia del tutto opposta a quella già allora tipica nell’esperienza estera, ed oggi anche di quella italiana, basata sulla frammentazione e il frastagliamento dell’offerta con “silos” di offerta costituiti anche da migliaia di prodotti.

In altra occasione potremmo valutarne l’efficacia nell’ottica del risparmiatore, considerando anche l’impatto delle politiche di best in class collegate alle soluzioni di product governance e mappatura della clientela (i target markets), soluzioni rivoluzionarie rispetto alla struttura originaria precedentemente descritta.

È opportuno sottolineare anche un aspetto che riguarda le SGR in quanto a stabilità della propria struttura e alla continuità operativa dei propri fondi comuni. Astraendo dal caso di quelle che hanno gestito fondi immobiliari (esclusi da questa analisi), nessuna SGR ha subito procedure concorsuali e nessun fondo è stato messo in liquidazione per irregolarità di qualsiasi natura anche quando la capogruppo o l’azionariato sono stati in difficoltà.

Resta il problema ormai strutturale dei costi a carico dei sottoscrittori che, nelle analisi comparative internazionali, risultano sistematicamente superiori, determinando nel tempo riscatti e passaggi da una soluzione all’altra, che hanno favorito la crescita degli estero-vestiti e dei fondi armonizzati.

Non approfondisco in questa sede il percorso di modifica proposto dalla Retail Investment Service, finalizzata a separare i costi del prodotto gestito (gestione, performance e switch) dai costi di distribuzione (sottoscrizione/riscatto o acquisto/vendita e management fees), con le conseguenti diverse soluzioni rispetto alla tradizionale retrocessione dalle SGR alle SIM e alle banche di percentuali dominanti delle spese sostenute dall’investitore (in media superiori al 60%).

Sotto il profilo dei rendimenti si individua un altro punto di debolezza che pone in difficoltà numerosi fondi di investimento i cui rendimenti risultano insoddisfacenti in assoluto e rispetto ai benchmark. Nel corso del 2023, la raccolta netta è stata prevalentemente negativa (- 50mld€) e i flussi di risparmio si sono indirizzati verso il risparmio amministrato a discapito di quelli in carico al risparmio gestito; il patrimonio gestito è cresciuto “solo” di 5mld€, nonostante le positive variazioni del prezzo dei sottostanti.

A fronte di queste aree critiche più o meno agevolmente risolubili, si rilevano alcuni dati e fattori di successo:

  • il patrimonio gestito (dati Assogestioni) è pari a circa il 120% del PIL (2400mld€);
  • la nuova normativa (Legge 21 del 5/3/24 derivante dal DDL Capitali) apre nuove sfide per il risparmio gestito;
  • numerosi fondi comuni (italiani, comunitari ed esteri per un totale di 300 società di gestione aderenti) hanno quote nel complesso importanti del capitale di società quotate, costituendo nel complesso minoranze qualificate e riferimenti significativi per l’efficientamento della governance;
  • è più agevole oggi far emergere con più trasparenza quale è il value for money del prodotto; questo si evidenzia quando chi acquista dispone parametri efficienti e comprensibili per identificare le qualità e le prestazioni di un prodotto.

Ferma restando l’irrinunciabile impossibilità di assicurare rendimenti (che non è compito della finanza), l’industria dei fondi comuni ha contribuito all’efficienza e alla stabilità dei mercati dove essa opera. Resta ancora da rafforzare il segmento di più lungo periodo affidato agli strumenti previdenziali, ma questo è condizionato da problematiche non riconducibili solo al comparto dei fondi comuni.

A latere si sono sviluppati (con normative differenti) numerose altre formule riconducibili al concetto di “fondo comune”: i fondi di private equity, i fondi immobiliari, gli ELTIF, gli ETF/ETC/ETN, i FIA alternativi. Questa è peraltro materia di altra normativa che non celebra in questo anno il proprio importante anniversario dell’operatività (1984).

Il 2024 è pertanto un anniversario da “celebrare” con la dovuta attenzione verso il futuro affinché la fase di maturità dopo i quaranta anni colga gli spunti critici evidenziati finora per consolidare la posizione di questo strumento nei …… secondi quaranta anni.

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