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Finanza, big data e vantaggi concorrenziali

La formazione di grandi giacimenti di dati nel corso dell’attività degli operatori del mercato finanziario, e la possibilità offerta dalla tecnologia di analizzarli ed estrarne conoscenza reimpiegata nello stesso o in altri mercati, pone l’esigenza d’individuarne i limiti e la disciplina, sia rispetto alle norme in tema di proprietà intellettuale, sia per i riflessi sulle regole della concorrenza; senza trascurare gli ulteriori problemi posti dai riflessi dell’utilizzazione dei big data dei mercati finanziari sul diritto alla riservatezza e sulla libertà d’informazione.

Giuseppe Carraro

La formazione di grandi giacimenti di dati da parte dei diversi operatori del mercato finanziario – tesaurizzata nel corso delle rispettive attività -, con la possibilità offerta dalla tecnologia di analizzarli ed estrarne conoscenza reimpiegandola nello stesso mercato finanziario o in altri mercati a questo secondari, pone l’esigenza d’individuarne limiti e disciplina. Approssimativamente, se ne può fissare la nozione includendovi tutti gli aggregati d’informazioni che si accumulano attraverso la (legittima) raccolta, l’impiego e l’elaborazione di dati detenuti da parte dei singoli operatori.

Sotto lo specifico angolo visuale dei mercati finanziari, appare interessante soprattutto delineare e delimitare i differenti ma contigui terreni sui quali la presenza del fenomeno si riflette e può assumere, a vari effetti, rilevanza giuridica.

Sempre in limine, non sembra inutile rammentare come da taluno si sia recentemente osservato che nel mercato contemporaneo – e, vien fatto di dire, a tanto maggior ragione nel mercato finanziario – alla «mano invisibile» di Adam Smith sempre di più si vada sostituendo, oggigiorno, un algoritmo: «increasingly replaced by big data and analytics» (L. Calzolari, The International and EU Antitrust Enforcement in the Age of Big Data, in Dir. comm. int., 2017, 856). Gli attori del mercato infatti – e dei mercati finanziari in special modo: ma non soltanto di questi – si affidano ora alle intelligenze artificiali e regolano le rispettive condotte attraverso algoritmi: decisioni e negoziazioni vengono così operate da macchine.

Il diritto non può non occuparsi del fenomeno: il quale è certo fenomeno (anche) giuridico, nella misura in cui si sostanzia in fatti che incidono su interessi pratici e sono per ciò suscettibili di valutazione assiologica, dal punto di vista delle conseguenze che l’ordinamento vi riconnette. Sul piano però dei comportamenti giuridicamente rilevanti, l’osservazione ormai trascorre dalle vecchie categorie dogmatiche della volontà negoziale a comportamenti che sempre meno appaiono “programmatici” e sempre più “attuosi” (A. Falzea, L’atto negoziale nel sistema dei comportamenti giuridici, in Riv. dir. civ., 1996, I, 28 ss.).

Ci si deve allora chiedere se non si sia piuttosto di fronte a sequenze di atti reali, immediatamente realizzativi degli interessi rispettivi di trading venues, intermediari, investitori, emittenti: interessi rispetto ai quali il diritto, che pur ha creato la cornice normativa che lo svolgimento di quei comportamenti permette, sembra poi sempre più chiamato ad intervenire per disciplinare ex post facto assetto finale e conseguenze, quasi alla stregua di «valutazioni legali tipiche» (categoria concettuale esplorata negli anni ’70 da M. Segni, Autonomia privata e valutazione legale tipica, Padova, 1972, e più tardi ripresa anche da G. Oppo, voce Titoli di credito, I): In generale, in Enc. giur. Treccani, vol. XXXI, Roma, 1994, § 14; Id., Astrazione cartolare e linee generali della disciplina dei titoli di credito, in Studium iuris, 1997, 1025).

Sull’assetto degli interessi pesa dunque la presenza determinante e forse ingombrante dei big data, e si riflette su talune Rechtsfolgen generate dai comportamenti dei diversi attori dei mercati finanziari, sotto molteplici risvolti, al di là del piano strettamente contrattuale – il quale, del resto, non costituisce nemmeno l’oggetto specifico di queste brevi riflessioni.

Un primo risvolto attiene al modo in cui funzionamento e disciplina dei mercati finanziari interferiscono con la disciplina della proprietà intellettuale, in relazione ai big data stessi.

Se è vero infatti che la disciplina delineata agli artt. 3 ss. e 13 del reg. UE/2014/600 (MiFIR) impone ora uno statuto di trasparenza, obbligando gestori del mercato finanziario e imprese di investimento che gestiscono trading venues a divulgare e rendere accessibili talune informazioni (i) a condizioni commerciali ragionevoli e (ii) con modalità non discriminatorie, è vero pure che, per implicito, la residua massa di queste informazioni – in quanto sottratta o, se si vuole, esonerata dalla market transparency – resta assoggettata alla discrezionale disponibilità del gestore. In tal modo, essa si presta a circolare esclusivamente per via negoziale ed, eventualmente, anche a beneficiare di protezione sub specie di segreto industriale (art. 98 c.p.i.: cfr. M. Bertani, Big Data, proprietà intellettuale e mercati finanziari, in AIDA, 2017, 542 ss.): ciò dà (o può dar) luogo palesemente a forme di divulgazione selettiva ed asimmetrica di metadati su ordini, prezzi, propensioni dei clienti, ecc.

In nessuno dei due casi inoltre – che si tratti di informazioni imposte dallo statuto di trasparenza MiFIR ovvero di disclosure contrattuale – viene meno un secondo profilo rilevante agli effetti della proprietà intellettuale. I big data raccolti da gestori del mercato finanziario e delle sedi di negoziazione, oppure da intermediari finanziari, possono rappresentare infatti, e normalmente rappresentano, banche di dati: se non nel senso creativo dell’art. 1, c. 2, l. aut., giacché forse la scelta del materiale o la sua disposizione (quando pure non sono direttamente imposte dallo statuto di trasparenza e dalle altre norme dell’ordinamento settoriale) possono prospettarsi come banali – ma banali già non sarebbero più qualora, ad es., fossero basati su algoritmi di una certa complessità (non va dimenticato che Corte giust. UE 1° marzo 2012, C604/10, Football Dataco, non esige un gradiente particolarmente elevato di originalità, e ne esclude la presenza solo qualora «regole o vincoli non lascino margine per la libertà creativa», com’è appunto il caso per i dati oggetto di disclosure obbligatoria) –, certamente nel senso del diritto sui generis istituito dall’art. 102-bis l. aut., poiché investimento, attività e know-how significativi si rendono sempre necessari ai fini della costituzione e della gestione di aggregati di questo tipo. Ne consegue che estrazione e reimpiego di parti sostanziali dovrebbero esserne di per sé vietate ai terzi.

Le imprese operatrici dei mercati finanziari, dunque, finiscono per operare anche come imprese monopolistiche di produzione e distribuzione d’informazioni: segnatamente, di dati su scambi di strumenti finanziari, big data grezzi e, soprattutto, della conoscenza che ne viene estratta o che ne è ritraibile. Questo pone innegabilmente l’impresa in posizione naturale di vantaggio competitivo monopolistico: detenere big data significa essere potenzialmente in grado di pregiudicare o almeno influenzare distribuzione di ricchezza, libertà di informazione, privacy degli individui.

Quest’ultima considerazione conduce direttamente al cuore del secondo aspetto: quello appunto della rilevanza a fini anticoncorrenziali del possesso e disponibilità dei big data sul mercato finanziario.

Due sono i quesiti di fondo che in questo scenario si prospettano, corrispondenti ad altrettanti temi di fondo del diritto antitrust.

(a) Sotto un primo profilo, lo scambio di big data finanziari, specialmente di quelli non contemplati dallo statuto di trasparenza MiFIR, potrebbe in sé rilevare come condivisione di informazioni idonea a sostanziare una pratica concordata; e ciò specialmente in un mercato – come quello degli strumenti finanziari in trading venues – che già possiede un elevato grado di concentrazione (così come del resto tutti i mercati digitali: cfr. A. Ottolia, Big data e innovazione computazionale, Torino, 2017, 304; L. Calzolari, op. cit., 874).

Ma ancor più certo, per quanto paradossale possa a tutta prima sembrare, è il rilievo antitrust degli algoritmi di fissazione dei prezzi; qui invero, anche in assenza di un esplicito intento fraudolento anticoncorrenziale, lo strumento tecnologico dà luogo a un’automatica collusione, ad un parallelismo di condotte che è connaturato all’impiego (questo sì, appunto, consapevole) d’identici algoritmi ed accompagnato da un flusso informativo. Ora, il divieto di pratiche concordate reprime in sé qualsiasi comportamento concludente in quanto atto reale: poco importa se effetto d’incontro esplicito di volontà o non piuttosto dell’operare automatico correlato alla condivisione di big data, sia essa conseguenza dello statuto di trasparenza, o sia effetto di atti di disposizione su dati non accessibili al pubblico.

(b) Sotto il secondo profilo, possesso e disponibilità di big data all’interno di un mercato digitale hanno notevole attitudine a generare una o più posizioni dominanti. Il detentore dei big data, se pur sappiamo bene non essere la posizione dominante in sé illecita, potrebbe in realtà superare i confini dell’abuso sotto due distinti profili.

Da una parte, attraverso abusi di carattere escludente (A. Ottolia, op. cit., 320 ss.). Ed invero i big data potrebbero risultare essenziali in un mercato a valle; ergo, la condotta escludente del detentore tramutarsi in barriera all’ingresso (cfr. ad es. Cass. 31 marzo 2016, n. 6284, in Riv. dir. ind., 2017, II, 239; ed altresì Trib. Milano 4 giugno 2013, in Danno e resp., 2014, 310). Tuttavia anche nel mercato principale il medesimo ordine di comportamenti può costituire barriera all’ingresso, se ed in quanto rispetto a dati non contemplati dallo statuto di trasparenza MiFIR possa avere ad oggetto informazioni speciali, o studi ed elaborazioni non replicabili. V’è così da chiedersi se anche i big data, quantunque coperti da segreto industriale o da tutela autoriale, possano considerarsi di per sé assimilabili ad essential facilities (cfr. Cons. St., sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 548, Bayer CropScience AG, in Foro it., 2014, III, 19, nonché Trib. Milano 4 giugno 2013, precit.).

Per altro verso, l’abuso potrebbe assumere invece carattere discriminante: la big data analytics rende possibile infatti realizzare condotte di discriminazione di prezzi od offerte di vario genere, basate appunto sulla capacità di classificare tipologie di investitori e di prevederne il diverso approccio al mercato.

Resta da far menzione di un terzo ed ultimo risvolto, cui non è possibile accennare che in apicibus: il rapporto tra disciplina della concorrenza e corpus normativo (in primo luogo comunitario: ora riassunto nel GDPR 2016/679) volto alla protezione dei dati (i cui princìpi fondamentali vanno ricondotti agli artt. 8 Carta di Nizza e, rispettivamente, 8 CEDU). E a riguardo, si suole frequentemente affermare che le norme sulla protezione della privacy non possono venire utilizzate come strumento di politica antitrust.

Meno s’è parlato di un distinto seppur contiguo tema, che rispetto ai big data può rivelarsi d’importanza maggiore proprio in relazione con lo “statuto” di trasparenza finanziaria: là dove, come appunto già s’è ricordato, il regolamento MiFIR impone uno speciale regime di disclosure ai gestori delle sedi di negoziazione.

La recente sentenza Manni (Corte giust. 1° marzo 2017, C-398/15, in Nuova giur. civ., 2017, 1023, spec. §§ 48 ss.) ha riportato l’attenzione sul fatto che ogniqualvolta la legge impone un obbligo di pubblicazione – o, se si vuole, di pubblicità di un’informazione rilevante nella vita economica e nel traffico giuridico – finalizzato a consentire l’acquisizione pura e semplice di conoscenza, esiste sempre un correlativo diritto del pubblico indistinto ad accedere all’informazione stessa: diritto che a sua volta rappresenta un corollario della libertà di informazione, risvolto passivo della libertà d’espressione (predicata dagli artt. 10 CEDU e 11 Carta di Nizza: v. in proposito anche, da ult., Corte eur. dir. Uomo, 16 giugno 2015, Delfi A.S. c. Estonia, in Recueil des arrêts et décisions, 2015). Chiunque scelga di prender parte agli scambi della vita economica, d’altro canto (cfr. § 59, sent. Manni precit.), conosce e accetta sempre implicitamente il rischio che i propri dati siano fatti oggetto di ulteriore conoscenza o vengano rielaborati come metadati.

Di questo appare ben consapevole anche il ricordato GDPR 2016/679, là dove (art. 17, co. 3, lett, b) esclude un diritto all’oblio rispetto ai dati il cui trattamento è necessario «per l’adempimento di un obbligo legale […] previsto dal diritto dell’Unione»: e dunque, anche rispetto ai dati di cui il regolamento MiFIR prescrive la messa a disposizione della generalità del pubblico.