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Fin dove può spingersi la libertà (negativa) d’impresa?

Quattro soci di una holding di livello nazionale che opera nel settore del cemento. Un conflitto che blocca l'approvazione del bilancio. Il ricorso di una parte per sciogliere la società. La decisione del Tribunale di Perugia. E in che cosa consiste l'abuso di eguaglianza

Michele Salvatore Desario
Michele Desario

1.- La decisione che si annota riguarda le sorti di un’importante holding nazionale operativa nel comparto del cemento e del calcestruzzo, con posizioni di leadership addirittura a livello europeo.

Essa è contraddistinta dalla pariteticità delle partecipazioni dei soci al capitale sociale: quattro soci, ciascuno detentore del 25% del capitale sociale.

I quattro soci si sono poi venuti coagulando in due poli, i quali, a loro volta, nel tempo si sono contrapposti, in un contesto di obiettiva conflittualità; mette conto aggiungere che la detta polarizzazione non è rimasta confinata alla sede assembleare, ma si è riflessa anche nell’ambito dell’organo amministrativo, nel senso che i due poli contrapposti hanno espresso un egual numero di consiglieri.

Tutto quanto precede ha prodotto, in tempi recenti e anche abbastanza ristretti, una non fisiologica situazione di stallo, segnatamente tradottasi (i) nella mancata approvazione del progetto di bilancio annuale della holding stessa, (ii) nella mancata sostituzione degli amministratori scaduti per decorrenza del termine (quindi mantenuti nella carica per prorogatio), (iii) nella mancata nomina degli amministratori delle società controllate e (iv) nelle lungaggini registrate circa la nomina del presidente del collegio sindacale.

Gli appartenenti all’un polo hanno, allora, assunto la veste di ricorrenti e hanno adito il tribunale di Perugia, Sezione specializzata in materia d’impresa, assumendo che le appena citate esemplificazioni di stallo inverassero cause di scioglimento della società, sotto specie di impossibilità di funzionamento e/o continuata inattività dell’assemblea e di impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale.

2.- I Giudici perugini – e non avrebbe potuto essere altrimenti – si soffermano diffusamente su ciascuna delle fattispecie legali appena menzionate, allo scopo di focalizzarne esattamente i contorni e di poter, così, stabilire se sussumere o no entro almeno una di esse le situazioni di stallo poste a base dell’iniziativa giudiziaria.

Nel fare ciò, ovviamente procedono anche a una doviziosa rassegna di precedenti giurisprudenziali relativi alle evocate cause di scioglimento societarie.

Per quanto concerne specificamente la mancata approvazione del progetto di bilancio, il Tribunale adito non può, peraltro,  non segnalare l’irritualità della condotta dei soci esercenti  voto contrario, i quali avevano motivato tale loro scelta col dire che la tavola contabile non meritasse, appunto, approvazione, in quanto riflessiva di una gestione aziendale che gli amministratori avrebbero compiuto senza, nel contempo, porre attenzione all’attività di direzione e coordinamento cui sarebbero stati tenuti nei confronti delle società controllate.

Va detto, allora, che effettivamente, quelle volte in cui si voti contro l’approvazione di un progetto di bilancio, le motivazioni che vengono spese coincidono, secondo l’id quod plerumque accidit, con sufficientemente precise contestazioni di questa o quella posta ricompresa nella tavola contabile in questione; ciò poi dipendendo dalla circostanza che la valorizzazione di questa o quella posta abbia avuto luogo attraverso l’applicazione di criteri estimativi ritenuti erronei, scorretti, eterodossi e contra legem.

Negli annali delle assemblee societarie chiamate ad approvare bilanci non consta – almeno in base all’esperienza dello scrivente – che la bozza di bilancio non venga approvata per mancato esercizio dell’attività di direzione e coordinamento.

La sanzione predisposta ad hoc per il caso specifico (i.e. il mancato esercizio dell’attività di direzione e coordinamento) non è infatti la reiezione del progetto di bilancio presentato in assemblea, ma – se mai – la revoca degli amministratori dalla carica e/o l’esperimento, nei loro confronti, di un’azione di responsabilità.

Sta di fatto, in ogni caso, che il tribunale di Perugia rigetta le domande dei ricorrenti, non reputando concretata alcuna causa di scioglimento societaria.

3.- Ciò che, a opinione dello scrivente, suscita maggior interesse nella decisione qui annotata si pone a un livello, per così dire, di vertice, preliminare e pregiudiziale, quasi filosofico, se non epistemologico, e comunque tale da interferire addirittura con principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale, a loro volta consacrati nella carta costituzionale.

Accade infatti che il Tribunale, evidentemente all’esito di un’accurata analisi del ponderoso materiale documentale riversato in atti, s’avveda della circostanza che i ricorrenti abbiano coltivato la loro iniziativa giudiziaria non tanto perché convinti davvero della sussistenza di talune cause di scioglimento, quanto, piuttosto, perché dall’auspicata e divisata smobilitazione dell’intero gruppo societario facente capo alla holding essi avrebbero potuto ottenere una cospicua liquidità con cui (anche) estinguere una significativa debitoria contratta nel frattempo con terzi finanziatori.

In altri termini, i Giudici, una volta resi edotti dell’esistenza della rimarchevole debitoria contratta dai ricorrenti nei confronti di soggetti terzi, mettono a sistema, a mo’ di tessere di uno stesso mosaico, tutti i contegni da loro serbati nel contesto societario e in un, tutto sommato, ristretto arco temporale: (i) dal voto contrario all’approvazione della bozza di bilancio (ii) al mancato avvicendamento degli amministratori in scadenza e (iii) al tanto tempo occorso per individuare la figura del presidente del collegio sindacale.

Sono tutti momenti esecutivi di una medesima strategia, volta, come detto, allo smantellamento del gruppo e, per esso, all’incameramento di una notevolissima liquidità; del resto, lo smantellamento non equivarrebbe – nella prospettazione dei ricorrenti –  a distruzione di valore, ma all’esatto contrario, come  dimostrato dal pervenimento alla holding, non casualmente anteriore soltanto di qualche giorno al deposito del ricorso introduttivo del giudizio, di una lucrosa offerta economica da parte di un fondo d’investimento, per il rilievo dell’intero gruppo societario.

Il Tribunale intercetta acutamente questa strategia congegnata dai ricorrenti e non l’asseconda, respingendo l’iniziativa giudiziaria.

Ed è proprio qui che s’assiste, a parere dello scrivente e sia pure per implicito, alla saldatura con i principi costituzionali sopra richiamati.

Non v’è dubbio che i ricorrenti possano procedere a un esercizio negativo della libertà d’impresa, volendo non più proseguire nello svolgimento dell’attività caratteristica del gruppo societario e, così, abbracciando una logica dismissiva, ma ciò che per certo è loro interdetto è il coartare e piegare forzosamente allo stesso intendimento anche gli altri compartecipi alla gestione dell’impresa collettiva, i quali, al contrario, sono determinati a proseguire ed insistere nella conduzione del going concern.

La libertà consiste nel poter fare ciò che si vuole, ma sempre nel rispetto dell’eguale prerogativa altrui.

D’altro canto, non sussiste il rischio che la soluzione additata dai Giudici possa risultare ingiustamente asfittica per i ricorrenti; essi possono evitare di rimanere – come suol dirsi – prigionieri della holding (e del gruppo), ponendo in vendita al miglior offerente la propria partecipazione, riscuotendone il prezzo e servendosi di quest’ultimo per estinguere la debitoria pendente.

Ciò che è loro inibito è unicamente il voler tentare di realizzare un prezzo migliore, vendendo direttamente il tutto, anziché la loro parte; la qual cosa si spiega, poi, con la considerazione che, così, s’avrebbe un esercizio abusivo della libertà (negativa) d’impresa, a detrimento dell’eguale libertà (sia pure positiva) d’impresa spettante agli altri consoci.

4.- Mette conto, infine, riferire di un’ulteriore e significativa implicazione della decisione qui annotata.

Nella valutazione dei Giudici perugini, il voto contrario espresso dai ricorrenti in occasione dell’assemblea chiamata ad approvare il bilancio d’esercizio della holding non è stato sorretto dalla tutela dell’interesse sociale, ma è parso funzionale a presidiare un interesse diverso, particolare ed extrasociale, costituito, come visto, dalla creazione dell’apparenza di uno stallo decisionale, a sua volta propedeutico ad avviare la smobilitazione del gruppo societario in funzione del conseguimento di un consistente ritorno economico.

In una parola, tale voto contrario sembrerebbe essere stato viziato da quello che gli studiosi chiamano il c.d. abuso d’eguaglianza: un vizio che, analogamente con le affini (ma diverse) figure dell’abuso di maggioranza e dell’abuso di minoranza, si connota per la circostanza che l’interesse coltivato non è più quello sociale, bensì, appunto, un differente interesse particolare, il quale confligge con quello sociale, determinandone addirittura il sacrificio.

Ebbene, in uno scenario futuribile, vi è da chiedersi quali rimedi possano essere utilmente azionati, allorché nell’assemblea della holding di nuovo chiamata ad approvare il bilancio d’esercizio i soci ricorrenti perseverino nell’espressione di un voto contrario, poi motivato in modo palesemente eterodosso, ossia non fondato sulla contestazione di specifiche poste e valorizzazioni contenute nella tavola contabile.

Questo voto pervicacemente contrario sarebbe certamente viziato e, in un ipotetico contenzioso, il Giudice competente  potrebbe agevolmente accertarne e dichiararne l’illegittimità, salvo doversi tornare sempre  all’appuntamento assembleare per l’ineludibile adempimento annuale dell’approvazione del bilancio, col connesso rischio della reiterazione di un voto ancora una volta sfavorevole, così da ritrovarsi impaniati in un loop sterile e frustrante.

Diverso, allora, sarebbe se invece il Giudice non si limitasse soltanto all’accertamento e alla declaratoria del citato vizio, ma coraggiosamente procedesse oltre, espungendo dal quorum deliberativo i voti strumentalmente e reiteratamente sfavorevoli, in modo da tenere  presenti unicamente tutti gli altri e da giungere, per questa via, a una delibera di approvazione del bilancio stesso.

Si tratterebbe non di un bilancio allestito giudizialmente, ma dell’esatto e legittimo ricalcolo, a opera di un soggetto terzo e imparziale, dei voti espressi nel consesso assembleare.

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P.S. Nelle more della stesura delle superiori note è intervenuto il decreto della Corte d’Appello di Perugia, reso all’esito del procedimento di reclamo instaurato dalle parti soccombenti in primo grado.

La posizione che il Giudice di secondo grado mostra di assumere è perfettamente adesiva a quella emergente in prime cure. A p. 9, infatti, vi si legge che “il verosimile obiettivo sotteso alla presente iniziativa giudiziale … [è stato quello di]… verosimilmente remunerare un terzo che ha erogato una somma di denaro ad una sola delle socie”.

Se possibile, ancor più significativo appare, ai fini di quanto si è venuti sostenendo supra, l’ulteriore passaggio contenuto a p. 6, quando si afferma che “invero, non può seriamente ritenersi che il legislatore … abbia voluto consentire che qualsiasi dissonanza provocata da contrasti interni fra i soci possa essere sufficiente per togliere una società, seppure solida, dal contesto produttivo a prescindere da ogni indagine sulle conseguenze reali di tale conflitto”.

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