FINTECH E CONTROLLI
Fenomeno Revolut, quanti dubbi

Intervista a Salvatore Maccarone, presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi

Solo oltre 600 mila gli italiani clienti di Revolut, la fintech britannica che ha ottenuto la licenza bancaria in Lituania e che è la più gettonata in Europa. In quel paese il Fondo di tutela dei risparmiatori ammonta solo a 153 milioni. In Italia, il Fit raccoglierà 6 miliardi per assicurare uno scudo alle possibili crisi bancarie. Ecco che cosa pensa il suo presidente della protezione dovuta ai risparmiatori

Paola Pilati

La banca online più diffusa in Europa si chiama Revolut. Nata come semplice istituto di pagamento in Gran Bretagna, con la Brexit si è spostata nel territorio dell’Unione Europea ed esattamente in Lituania, dove fondendosi con una banca locale ha ottenuto la licenza bancaria. Analoga licenza chiesta in Gran Bretagna, invece, non è stata concessa, almeno per ora. Un approfondito articolo sul “FT” ha dato recentemente conto delle ripetute indagini svolte su Revolut dalla Financial Conduct Authority britannica, che con la Bank of England decide appunto sulla sospirata licenza, senza arrivare però né a dire un sì né un no. Su Revolut, la sua crescita travolgente come “neobank” – ha 25 milioni di clienti – e il sistema di garanzie per i titolari dei conti, si sono accese le luci durante la recente Giornata del Credito. E hanno lasciato in sospeso una domanda: il Fondo interbancario lituano, disponendo di 152 milioni in cassa, ha le spalle abbastanza larghe per assicurare la protezione fino a 100 mila euro a cliente, se si presentasse la necessità di un salvataggio? E, più in generale, ai vantaggi delle nuove tecnologie fintech in campo bancario, corrispondono anche presidi dei vigilanti e tutele per i risparmiatori?

«Il presidio di sicurezza per i clienti sono i fondi interbancari disciplinati da una Direttiva che vale per tutti i paesi Ue», risponde Salvatore Maccarone, presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi italiano. «I fondi hanno l’obbligo di raccogliere dalle banche partecipanti lo 0,8 per cento dei depositi protetti e di metterlo in cassa. Questo ci ha permesso, per esempio, di poter intervenire con 1,2 miliardi per Carige e con altrettanto per il caso della Popolare di Bari. Il Fondo lituano deve fare lo stesso, e non ho motivo di credere che la Lituania non osservi la Direttiva».

I clienti italiani che hanno versato 400 milioni a Revolut possono quindi dormire sonni tranquilli?

«Lo chiederei alle autorità lituane. Dal punto di vista formale l’attività di Revolut è regolare. È il conto online più diffuso in Europa, è gratuito e funziona perfettamente. Ci sono 600 mila italiani che hanno depositato 400 milioni e stanno crescendo di numero; a livello globale la banca raccoglie 9 miliardi. Non possiamo certo credere che la Lituania sia un paese canaglia. È un paese dell’Unione con una sua Authority».

Il Fondo di tutela della Lituania però disponeva a fine 2021 di 152,6 milioni di euro. Un cifra piuttosto esigua. Solo gli italiani sono 600 mila con 400 milioni di depositi. E poi non desta qualche perplessità il fatto che in Gran Bretagna la licenza bancaria non l’abbia ancora avuta? Da noi l’avrebbe ottenuta?

«Nell’Unione europea non tutti i paesi esercitano sull’attività bancaria una disciplina di uguale severità, ci sono istituzioni che interpretano la legge con maggiore elasticità. Forse in Italia Revolut non avrebbe avuto tanto rapidamente la licenza bancaria. Le nostre autorità sono molto puntigliose: si valutano la capacità imprenditoriale, patrimoniale e manageriale della banca in modo approfondito. Non sappiamo se il denaro che raccoglie Revolut è a rischio o no, ma le garanzie che offrono i fondi di tutela sono limitate al pubblico retail e arrivano massimo a 100 mila a depositante. E questo vale in tutta l’Unione. Sorprende però che tanti affidino denaro a una banca che in Italia non c’è».

Questo è il mondo fintech…

«Non è fintech, è mondo vero: è una banca. E le banche stabilite nel territorio dell’Unione possono esercitare in tutto il territorio Ue, o con filiali o con prestazione libera di servizi. Noi in Italia abbiamo miliardi di raccolta che viene fatta legittimamente all’estero dalle banche italiane, per esempio ci sono molti depositi di cittadini tedeschi a cui convengono le banche italiane per i maggiori rendimenti offerti dai depositi vincolati. Il fintech è diverso: è un soggetto che opera sul mercato finanziario senza essere banca».

E alle banche fanno concorrenza.

«Oggi le fintech possono rosicchiare mercato alle banche. Sono leggere, efficienti, non hanno il peso regolamentare che hanno le banche. Dopo la PSD2, la Direttiva sui pagamenti che consente al cliente di autorizzare le banche a diffondere i suoi dati a strutture diverse dalle banche, grazie a una grande capacità di elaborazione questi soggetti riescono a offrire servizi molto interessanti. Le banche sono come pachidermi circondati da gazzelle. Si devono attrezzare. Ma c’è un aspetto su cui le preoccupazioni sono fondate: se cioè il pubblico capisce davvero quanto certe attività siano a rischio. Ci sono società che gestiscono circuiti di servizi di pagamento, ma non sono banche. Può essere che i clienti pensino di essere protetti, ma non è così. Se per esempio uno ha una carta prepagata e la alimenta con denaro dal suo conto, quel denaro è sulla carta e anche se non l’ha speso non è tutelato. Non è un deposito, è uno strumento pagamento».

Il pubblico dei risparmiatori e degli utilizzatori non ha la capacità di vedere queste differenze?

«Questa capacità andrebbe stimolata. Una delle attività che il Fit svolge è quella di sensibilizzare i consumatori. Noi siamo vigilati dalle autorità italiane di risoluzione, ma anche dal Fondo monetario internazionale, che utilizza i principi internazionali a garanzia depositanti. Uno dei principi che devono essere osservati è la creazione della consapevolezza del pubblico sui limiti della tutela. Non tutti i depositi bancari sono garantiti: per esempio non lo sono i depositi giudiziari e quelli di tesoreria, ma non tutti lo sanno. Nel settore della moneta elettronica la situazione diventa ancora più sfuggente».

A parte i casi del passato, oggi, come presidente del Fondo, l’assetto che vede nel sistema bancario è più tranquillo?

«L’assetto si è stabilizzato. C’è il caso Mps, ma credo che sia in fase di soluzione dopo l’aumento di capitale. Banche rilevanti in situazione di difficoltà non pare ce ne siano. Ci possono essere piccole banche che, di fronte ai costi imponenti della digitalizzazione, possono cercare di accorparsi tra di loro, ma il sistema bancario nel complesso non presenta problemi. Sono stati fatti interventi importanti, e le nostre banche stanno pagando lo 0,8 per cento della raccolta protetta, il che vuol dire che a luglio 2024 – il momento del target level – dovremmo avere in cassa tra 5,5 e 6 miliardi».

Per i paesi più piccoli e con meno banche, sarà più difficile assicurare Fondi altrettanto ricchi.

«Più piccoli sono i paesi più problematico è il problema dei fondi. Se si hanno meno banche, quando ne salta una è un problema. A San Marino, che ha 3 banche, è chiaro che il rischio non si riesce a ripartire in maniera adeguata. Vuol dire che se manca il denaro interverrà lo Stato. Per MPS, che non poteva essere gestita dal Fondo interbancario perché troppo grossa, lo ha fatto».