Il vero senso dell'astensione. Quello che Moratti&Co non hanno capito. Il successo del presidente lombardo uscente. L'unica via percorribile del Pd. Che cosa ci dicono le ultime elezioni
Le elezioni in due grandi regioni sono un campione assai limitato per estrarre indizi significativi. Queste elezioni, poi, sono quelle più lontane dai cittadini, non avendo le regioni né la rilevanza politica del livello nazionale, parlamento e governo, né la vicinanza ai cittadini del Comune. Pur con tutti questi limiti – da sottolineare – le elezioni in Lombardia e Lazio ci possono dire qualcosa che dovremmo fissare, a futura memoria.
Semplificando, le principali indicazioni emerse sono quattro. La prima è l’alta astensione, che però non è stata dovuta alla percezione di un risultato scontato. Nella storia italiana dal 1948 al 1992, in quasi tutte le elezioni i risultati erano più che scontati: la Democrazia Cristiana sarebbe tornata a governare. Eppure, la partecipazione era assai alta. Però, in queste elezioni vi sono stati tre elementi in più: da anni l’Italia è diventata più “normale” – non vi è, per ogni elezione, in gioco la democrazia – e, quindi, la partecipazione è fisiologicamente diminuita allineandosi alle altre democrazie europee; l’indifferenza e l’alienazione provocata da diverse crisi, una dopo l’altra (Grande Recessione tra il 2008 e almeno il 2014, successiva stagnazione, pandemia), sono forti e diffuse; le elezioni regionali sono percepite come le meno rilevanti di tutte.
Quanto all’astensione, quindi, quello che più ci interessa riguarda i due diversi atteggiamenti, quelli di distanza critica, ovvero alienazione e quelli di indifferenza. E il fatto che emergano con evidenza anche in Lombardia, ovvero in una delle aree d’Italia più ricche e dinamiche, economicamente e socialmente, non può essere sottovalutato. In concreto, significa la presenza a livello nazionale di milioni di voti mobili e di un potenziale di protesta ampio e diffuso.
La seconda indicazione. Le elezioni di questi anni sono state percepite come “elezioni per cambiare”. La radice del populismo è ancora lì: un elettore insoddisfatto a cui promettere il cambiamento. In questa prospettiva, il risultato nel Lazio dopo un decennio del PD al governo, sia pure in coalizione, non può meravigliare. Coerentemente con questo quadro, la Moratti aveva visto una possibilità di successo grazie alla proposta di un cambiamento che rispettasse la tradizionale moderazione dell’elettorato lombardo, approfittando anche dell’ovvio declino di Berlusconi insieme al suo partito.
Quello che Moratti, Calenda, e Renzi non hanno visto e capito erano due altri elementi importanti e decisivi: la componente di destra di Forza Italia si era già spostata verso il partito della Meloni e lo stesso Salvini, che anni fa aveva voluto lo spostamento a destra del suo partito, era rientrato nella tradizione sotto la spinta dei presidenti leghisti di regione e della vecchia guardia, tornando agli antichi temi, cioè autonomia e anti-immigrazione. Così, Moratti&co. hanno visto come aperta una partita che già non era più tale, e che comunque queste elezioni hanno esplicitamente chiuso per i prossimi anni.
La terza. Ancora più interessante è la piena affermazione del presidente uscente lombardo. Mentre nelle precedenti elezioni regionali del 2020, in piena pandemia, si era visto un elettorato razionale che aveva premiato i presidenti – sia leghisti che di sinistra – che avevano fatto meglio in quel frangente drammatico, in questa occasione è stato premiato un presidente che invece aveva dato una prova negativa nella gestione di quell’emergenza. Assenza di alternative e rimozione collettiva di quel momento drammatico, ma anche alta astensione, sono le spiegazioni più ovvie su cui sarebbe meglio riflettere a fondo, senza trionfalismi.
Infine, in diversi commenti si è apprezzato il buon risultato del Partito democratico, vista la sua situazione attuale di crisi. Ma proprio questo fa capire con molta evidenza che il partito, dopotutto, continua ad avere un radicamento locale, che è realisticamente non rinunciabile. Ma se è così, il partito non sarà mai una formazione politica dominata da un leader nazionale e senza leader locali. L’unica via percorribile in positivo sarà quella di un leader forte, perché legittimato dalla base, in grado di trovare accordi costruttivi con i leader locali. Questo risultato sarà concretamente possibile solo se le primarie dessero una vittoria molto netta – prevedibilmente – a Bonaccini che potrà anche assorbire i temi della Schlein. Al tempo stesso, un partito così rinvigorito, che sappia organizzare le proprie campagne elettorali, adeguandosi ai tempi e ai temi del momento, potrebbe anche marginalizzare il suo principale competitore a sinistra, il Movimento 5 Stelle, che ha avuti risultati assai modesti, anche se attesi.
Il tempo ci dirà meglio quale di queste indicazioni diventeranno più rilevanti per la democrazia italiana considerando anche i tanti problemi irrisolti che ci stanno davanti.