FINE DEL QE
Effetto tassi sulle banche centrali

I rialzi dei tassi impattano in maniera particolarmente negativa sulle banche centrali, le cui passività variano il proprio valore in maniera automatica, perché le riserve sono legate al tasso di policy. Dal lato degli attivi, il QE ha prodotto investimenti in larghissima parte a tasso fisso con  rendimenti inferiori all’1% o addirittura negativi. Così il bilancio di molti istituti vira in rosso

Paola Pilati

La Bce ha chiuso il bilancio 2022 in pareggio, ma solo perché ha coperto la perdita registrata di 1,6 miliardi con il fondo rischi. La banca centrale olandese ha stimato perdite per 9 miliardi nei prossimi anni, la Bundesbank ha chiuso in pareggio ma anch’essa ha dovuto utilizzare il suo buffer per compensare una perdita di un miliardo di euro e anche la banca centrale del Belgio prevede perdite potenziali per 9 miliardi di qui al 2027.

L’aumento dei tassi, che è una panacea per i bilanci delle banche commerciali, sta producendo un effetto contrario sugli istituti centrali. Tutto dipende dall’impatto che i tassi hanno sul portafoglio di investimenti delle banche. Se da un lato la crescita dei tassi migliora la redditività delle banche perché dà loro la possibilità di incrementare i tassi dei loro prestiti alla clientela, ha anche un effetto sulle loro passività perché ne diminuisce il valore. Per questa via, può arrivare a impattare sul capitale, riducendolo. È il caso che ha prodotto il fallimento della Silicon Valley Bank, che per far fronte a un calo dei depositi ha venduto sottocosto un pacchetto dei titoli posseduti, trovandosi poi a dover ricapitalizzare la banca e innescando l’allarme che ha portato al crack.

Il suo caso ha scoperchiato il pozzo misterioso dei conti delle banche post QE e messo sotto i riflettori quanto è successo durante il lungo periodo degli interventi straordinari di politica monetaria e dei vari altri round di programmi per aumentare la liquidità nel sistema economico.

Ora che l’urgenza è cambiata ed è l’inflazione che va combattuta con il rialzo dei tassi, si diffonde il timore che ci siano, nascosti nei bilanci bancari, altri casi potenzialmente pericolosi tanto da mettere in discussione la solidità del capitale di alcune banche e le borse ne hanno subito risentito.

Lo shopping di titoli che le banche a caccia di rendimenti hanno fatto durante il lungo periodo dei tassi zero o negativi ha riempito i loro attivi di obbligazioni in gran parte governative, soprattutto titoli a lungo termine, quelli con i rendimenti migliori in quel contesto. Ma che oggi sono proprio quelli che soffrono di più, perché il loro valore è crollato a vantaggio delle nuove emissioni.

Secondo i dati dell’Eba, a giugno 2022 le banche dell’Unione europea avevano 3300 miliardi di euro di titoli governativi, quelle italiane a gennaio 2023 avevano 384 miliardi di titoli di Stato italiani. C’è dunque da preoccuparsi?

In realtà la situazione europea sembra migliore di quella degli Usa. In Europa le banche commerciali sotto la guida del meccanismo di supervisione unico e dell’EBA, in questi anni hanno adottato sistemi che gestiscono il rischio tasso nei propri conti.

Ma tra banche centrali e banche commerciali c’è una differenza. Le banche centrali sono le uniche banche le cui passività variano il proprio valore in maniera automatica, perché le riserve sono legate al tasso di policy (il deposit facility rate per la Bce). Dal lato degli attivi, il QE ha lasciato quelli delle banche centrali investiti in larghissima parte a tasso fisso con rendimenti inferiori all’1% o addirittura negativi. Quindi i rialzi dei tassi impattano in maniera particolarmente negativa proprio sulle banche centrali, il cui margine di interesse scende man mano che le stesse deliberano nuovi rialzi.

Anche se  i criteri contabili permettono di diluire la perdita a fair value dei portafogli delle banche centrali, il patrimonio di alcune banche potrebbe essere già addirittura negativo.

Per tacitare gli allarmi è sceso in campo Augustin Carstens, direttore generale della Bis, per ricordare a tutti che il mandato delle banche centrali è quello di lavorare per il bene pubblico e non per il profitto. E quindi che tutti gli acquisti di titoli che sono stati fatto hanno avuto l’obiettivo di stabilizzare le economie: se qualche rischio è stato preso e oggi si paga in termini di perdite, è lo scotto per realizzare il mandato a cui le banche centrali devono attenersi.

La questione sembrerebbe solo tecnica, ma potrebbe cambiare segno. L’idea che le banche centrali debbano affrontare anni di perdite e quindi possano avere bisogno di ricapitalizzarsi, potrebbe alimentare sentimenti anti euro che covano in alcuni paesi, o comunque gettare discredito sul comportamento di chi le guida.

Certamente le banche centrali non possono fallire, visto che sono loro che stampano il denaro. Ma possono chiedere ai governi nuovi fondi per ricapitalizzarsi. Come metteva in luce Isabel Schnabel, componente del board Bce, in un discorso del 2021, “when considering the consolidated balance sheet of the public sector, which includes the central bank, there is a risk that very long periods of asset purchases may penalise the average taxpayer in a future crisis”. In fondo alla catena delle penalizzazioni per gli eventuali errori delle banche centrali, insomma, c’è il cittadino che paga le tasse. Ma chi giudica quali sono gli errori?