Da qualche tempo il Governo annuncia per il 2017 un alleggerimento delle imposte attraverso una modifica delle aliquote IRPEF, riproponendo una questione che periodicamente appare e scompare nella vita politica italiana. Il cambiamento nella scala della progressività di questa imposta, secondo le intenzioni dell'Esecutivo, dovrebbe alleggerire il peso fiscale del ceto medio, la classe sociale che più ha subito un consistente down-grading a causa della crisi. In proposito, ha trovato spazio sui “media” la proposta, non si sa quanto ufficiale, di rispolverare l'impostazione del vecchio progetto di due aliquote, elaborato dalla Casa della Libertà in occasione della campagna elettorale del 2001.
Durante il periodo di governo del Centro-destra, l’attuazione della riforma delle due aliquote promessa (23 e 33%) fu spezzettata in varie “fasi” e diversi “moduli”, da realizzare negli anni, per essere poi abbandonata dopo la realizzazione di un primo timido “modulo”, a causa dell’enorme perdita di gettito che ne sarebbe derivata.
Un ritocco dell’IRPEF di dimensioni più modeste era contenuto nel progetto di riforma fiscale avanzato nel 2010 dal NENS (“Nuova Economia Nuova Società”, l’Istituto di studi di P. L. Bersani e V. Visco), che si limitava a proporre la riduzione di due aliquote: quella del 23% al 20% per lo scaglione da 7.501 a 15.000 euro e quella del 38% al 36% per lo scaglione da 28.001 a 55.000 euro, con detrazioni eguali per tutti e non più decrescenti al crescere del reddito. Ma, al di là delle apparenze e delle intenzioni dei proponenti, la proposta aveva in realtà una valenza nettamente regressiva; e sorprende che i proponenti, politici chiaramente orientati a sinistra, non si siano resi conto dell’impatto sostanziale di un provvedimento nettamente sfavorevole per le classi di reddito più basse.
In effetti, pur prescindendo dalle detrazioni eguali per tutti, l’attuazione di questa proposta avrebbe realizzato un rafforzamento della progressività più apparente che reale, implicando una grande dispersione delle risorse impiegate, una parte considerevole delle quali sarebbe stata distribuita ad una vasta platea di contribuenti appartenenti alle classi di reddito più elevate, con gravi “effetti non desiderati”.
Nel caso specifico, la progressività per scaglioni del nostro sistema avrebbe comportato una riduzione dal 23 al 20% non solo per i contribuenti dello scaglione dei redditi inferiori a 15.000 euro, ma anche per tutti i contribuenti con redditi superiori a tale importo, naturalmente solo per la loro quota di reddito compresa tra 8.501 e 15.000 euro; analogamente, la riduzione dell’aliquota dal 38 al 36% sarebbe andata a beneficio anche di tutti i contribuenti con redditi superiori a 55.000 euro.
Pur analizzando solo la parte della proposta relativa all’abbassamento dell’aliquota del 23% al 20%, tornata in discussione nel 2012 e poi rinviata, si rileva che, malgrado essa riguardi lo scaglione di reddito più basso, la sua realizzazione avrebbe un carattere profondamente iniquo, avuto riguardo alla dispersione di risorse che ne sarebbe conseguita: ai circa 8,5 milioni (il 25%) che possiedono redditi tassabili compresi tra 7.501 e 15.000 euro andrebbero benefici complessivi per circa 2.500 milioni di euro, mentre
i restanti 21,5 milioni di contribuenti beneficerebbero complessivamente di ben 4.800 milioni di euro, un volume di risorse
enorme, inghiottito da un effetto “perverso” rispetto all’obiettivo del provvedimento.
Recentemente, fonti non ufficiali hanno formulato un’ipotesi diversa, composta di due parti:
a) la prima parte si prefigge di eliminare l’aliquota più bassa, quella del 23%, accorpandola al 27% attuale dello scaglione comprendente i redditi tra 15.001 e 28.000 euro. L’aumento di 4 punti dell’aliquota riservata alla quota di reddito inferiore a 15.000 euro colpirebbe anche i circa 8,5 milioni di contribuenti appartenenti a questo scaglione di reddito, con un aumento complessivo del carico tributario di circa 4,5 miliardi; un inasprimento presumibilmente “non desiderato”, che potrebbe, tuttavia, essere neutralizzato con una equivalente detrazione decrescente. La maggiore entrata per l’Erario dovuta all’aumento di 4 punti dell’aliquota d’imposta per i restanti 21,5 milioni di contribuenti darebbe un maggiore gettito di circa 6,5 miliardi.
b) la seconda parte configura la riduzione al 36% dell’aliquota del 38% riservata attualmente ai redditi compresi tra 28.001 e 55.000 euro. Similmente al caso a), la diminuzione di 2 punti non si applicherebbe solo ai 6,5 milioni di contribuenti aventi redditi compresi nello scaglione in parola, ma anche ai circa 1,6 milioni di contribuenti con redditi superiori a 55.000 euro, anche qui, naturalmente, solo per la quota compresa nei limiti del primo scaglione. Il costo complessivo per l’Erario ammonterebbe a circa 4 miliardi, di cui solo circa 3 miliardi andrebbero ai circa 6,5 milioni di contribuenti con redditi compresi nello scaglione considerato e circa 1 miliardo andrebbe ai redditi superiori.
Come si vede dalle cifre, il provvedimento nel suo complesso costituirebbe per la classe media un alleggerimento tributario di ben modeste dimensioni, considerato che, a fronte di una diminuzione dell’imposta di circa 3 miliardi, i circa 6,5 milioni di contribuenti appartenenti allo scaglione di reddito in parola dovrebbero sopportare un aggravio d’imposta di circa 1,3 miliardi, corrispondente all’inasprimento del 4% sulla loro quota di reddito tassabile rientrante nello scaglione più basso; per cui, il loro beneficio netto si ridurrebbe a circa 1,7 miliardi di euro.
In definitiva, il provvedimento nel suo complesso avrebbe un impatto spiccatamente recessivo in quanto realizzerebbe una maggiore entrata netta per l’Erario di circa 7 miliardi, (differenza tra i circa 11 miliardi di maggiori entrate di cui al punto a) e i circa 4 miliardi dell’alleggerimento complessivo di cui al punto b)).
Tenendo conto delle risorse pubbliche necessarie per la riduzione delle aliquote, la conclusione di questi calcoli deve prendere atto che il meccanismo della progressività per scaglioni non si presta ai ritocchi al ribasso, specialmente per i redditi più bassi, comportando il confluire di una quota considerevole delle risorse in gioco verso i numerosissimi contribuenti appartenenti a tutti gli scaglioni di reddito superiori. Anche la sola riduzione di aliquote intermedie di cui al punto b), volta ad alleggerire il carico fiscale sul ceto medio, produrrebbe un effetto “perverso” dello stesso genere, ma di dimensioni molto più ridotte, poiché i contribuenti con redditi superiori al limite dello scaglione interessato sono molti di meno.
In ogni caso, anche se la riduzione delle aliquote intermedie implica una dispersione di risorse di minore entità, non si può ignorare che essa determina una penalizzazione relativa per i redditi più bassi, in sostanza una diminuzione della progressività complessiva dell’IRPEF. Non va dimenticato, al riguardo, che l’IRPEF è l’unica imposta del sistema fiscale italiano demandata ad improntare a criteri di progressività il sistema tributario del nostro Paese, secondo il dettato costituzionale; senza considerare che la progressività, dal 1973 ad oggi, è già diminuita enormemente, passando dai 32 scaglioni iniziali, con un ventaglio di aliquote dal 10 al 72%, ai 5 scaglioni attuali, cui si applicano aliquote che vanno dal 23 al 43%.
Sorvolando sulla questione dell’opportunità di diminuire ulteriormente la progressività dell’imposta personale, i calcoli esposti richiamano la nostra attenzione sulla inidoneità della progressività per scaglioni ad aggiustamenti delle aliquote, specialmente al ribasso, secondo le priorità nell’uso delle risorse che l’evoluzione del contesto economico e sociale impone. La soluzione del problema della manovrabilità al ribasso delle aliquote progressive per le classi di reddito più basse risiede nell’abbandono del “metodo per scaglioni” e nell’adozione di una scala della progressività fondata sulle aliquote medie, la cosiddetta “progressività per classi”, adottata dalla Germania e dal Canton Ticino, in cui la progressività è espressa da una curva continua delle aliquote medie, ove a ciascun livello di reddito corrisponde un’aliquota media da applicare. Ciò consentirebbe di effettuare spostamenti nella scala della progressività, senza dover subire onerose dispersioni di risorse.
Al lato delle considerazioni che precedono, su un piano più generale, va rilevato che, periodicamente, si riaffaccia alla ribalta la polemica relativa all’efficienza della progressività delle imposte come strumento di redistribuzione della ricchezza. Questo aspetto della tassazione è stato recentemente riproposto all’attenzione da alcuni economisti in vena di supportare il tentativo di una parte della politica italiana di riproporre in salsa nostrana un vecchio cavallo di battaglia della destra americana: la “flat tax”. Come dimostrato in un precedente articolo, per varie ragioni non può essere questa la soluzione del problema della finanza pubblica italiana.
In materia di progressività, hanno una certa rilevanza i limiti costituzionali che incontra la sua applicazione in Italia, evidenziati dalla “Scuola di Pavia” di B. Griziotti e dagli studi di F. Forte e di F. Gallo, che postulano l’esigenza di trovare il difficile equilibrio tra il principio costituzionale della progressività ed i princìpi che prescrivono di “non intaccare, sia le spese private necessarie per la vita del cittadino, sia il risparmio e l’efficienza della produzione privata”. Resta aperta la questione di stabilire a quali condizioni un certo grado di imposizione progressiva riesce a tradursi in un’effettiva ed equilibrata redistribuzione di risorse, necessaria al rilancio dell’economia italiana; un’economia che occupa il primo posto nella classifica europea delle diseguaglianze di reddito e la coda (a parte la Sanità) in quella concernente la fornitura di servizi pubblici ai cittadini.
Non è difficile dimostrare che nei Paesi come l’Italia, il groviglio delle formazioni oligopolistiche e le diffusissime incrostazioni corporative tendono a favorire l’insorgere di una molteplicità di posizioni dominanti nel mercato, che costituiscono un grave impedimento al corretto svolgimento della libera concorrenza ed il presupposto di una “traslazione selvaggia” delle imposte. In effetti, nel caos della “giungla corporativa, i coefficienti della complessa matrice che presiede il meccanismo della “traslazione” determinano la quota dell’onere tributario che ciascun soggetto “percosso” è in grado di trasferire ai soggetti aventi minore “forza contrattuale”. Nell’ambito di questo processo, il soggetto attivo della traslazione subisce, a sua volta, in base ai rapporti di forza relativa, la “traslazione” di una quota del carico tributario di altri contribuenti. Si distribuisce così tra i contribuenti, in modo del tutto incontrollato e in favore dei soggetti più forti, l’effettiva “incidenza” della tassazione.
L’esperienza storica di alcuni Paesi, come ad esempio quelli scandinavi e gli Stati Uniti nel periodo del New Deal, ha confermato che, in un contesto economico scevro da incrostazioni oligopolistiche, l’imposizione progressiva adempie egregiamente la sua funzione economica e sociale di strumento di redistribuzione della ricchezza. Ma il suo tasso di efficacia dipende dalla misura in cui un’attenta legislazione antitrust e un parallelo rafforzamento degli organi di vigilanza consentano di tenere sotto stretto controllo l’intricata matassa della distribuzione dei redditi determinata dai “nodi di potere” che, numerosi e di tutte le dimensioni, tendono continuamente a formarsi a scapito delle classi sociali più deboli.
Per quanto si riferisce all’Italia, provvedimenti che inizino a metter mano alla legislazione antitrust appaiono improbabili nell’immediato; ma il problema non è più rinviabile, anche perché l’edificio di un regime di libera concorrenza affrancato dalla morsa degli oligopoli, indispensabile al rilancio dell’economia italiana, non si costruisce in poco tempo. In via complementare a ciò, sarebbe opportuno non dimenticare che, con riferimento alle necessità di breve periodo, occorre affrontare con strumenti di politica economica a risposta più immediata anche l’iniquità del grande squilibrio nella distribuzione dei redditi che caratterizza il nostro Paese, uno dei principali elementi di freno alla ripresa economica; evitando, però, di disperdere risorse con ritocchi al ribasso dell’attuale scala della progressività per scaglioni applicata all’imposta personale sul reddito delle persone fisiche.