intervista a Giuseppe Guglielmo Santorsola, professore ordinario di Asset Management, Corporate Finance e Corporate & Investment Banking e professore a contratto di Finanza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
Quanto conta davvero il mercato nel risiko bancario? E le partecipazioni incrociate di Caltagirone e Delfin che cosa possono portare con sè? Ha senso parlare di difesa del risparmio degli italiani per giustificare la regìa politica delle fusioni bancarie? Le risposte di un esperto sulle grandi partite in atto. E la rivelazione di una strana anomalia nei trend di borsa sui titoli Mediobanca, MPS, Generali, già dallo scorso novembre
“I rilevanti intrecci azionari di Delfin e Caltagirone”. “La presenza degli stessi azionisti in Mps, Mediobanca e Generali nell’ambito di un’offerta esclusivamente in azioni, che configura una potenziale disomogeneità negli interessi rispetto al resto della compagine azionaria”. “La mancanza di un razionale industriale”. Sono le principali motivazioni con cui Mediobanca ha risposto no all’offerta di Mps. Ma la partita è appena cominciata. Ed è strettamente intrecciata – vuoi per gli interessi dei protagonisti, vuoi per il ruolo che potrebbe avere il governo – con le altre operazioni che sono sul tavolo: l’Opa di Unicredit su BPM, quella di BPM su Anima, quella di Unicredit su Commerzbank.
Con quali criteri valutarle? Sono operazioni di mercato, come sostiene il governo? È un naturale consolidamento bancario che va nella direzione di irrobustire il sistema Italia? O il reticolo di incroci azionari che le caratterizza suggerisce piuttosto una strategia di conquista di posizioni di potere?
Ne parliamo con Giuseppe Guglielmo Santorsola, professore ordinario di Asset Management, Corporate Finance e Corporate & Investment Banking e professore a contratto di Finanza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza (nella foto).
Professore, come giudica il risiko bancario in atto?
«Da economista liberista, penso che, se i progetti hanno una logica e un piano finanziario credibile, perché non valutarli. Lascio da parte la valutazione sul piano della sostenibilità politica, anche se tutte le offerte che abbiamo sotto gli occhi, a partire da quella di Unicredit- Commerzbank, la coinvolgono, a livello Ue o a livello nazionale».
E qual è la sua valutazione sul piano finanziario?
«Vedo qualche aspetto critico che non è stato ancora evidenziato nel caso MPS-Mediobanca, dove è una banca piccola che vuole prenderne una più grande, la quale ha in pancia un’entità più grande ancora, le Generali: non vedo il giusto livello organizzativo per gestire questo boccone enorme, anche pensando solo a Mediobanca. Tanto da far venire il dubbio se si tratti unicamente di un’operazione industriale».
La componente politica sembra evidente: il governo la sostiene per far crescere il terzo polo, come ha dichiarato. E poi il Tesoro ha ancora in mano l’11,7 per cento di MPS, dunque è un attore in commedia.
«Certo, il Tesoro non può contrastare il progetto dell’amministratore delegato che ha contribuito a nominare e che ha risanato la banca. Ma sarebbe meglio che cogliesse questa occasione per uscire del tutto dall’azionariato».
Le pare che sia il mercato a guidare tutte queste partite?
«Vediamo l’aspetto geografico delle operazioni. Unicredit-Commerzbank è un’operazione a livello UE. Anomala, perché non ce ne sono altre paragonabili. L’unica, storica, è stata quella che ha dato vita a Bnp-Paribas tanto tempo fa, ma fusioni europee di banche simili e di dimensioni rilevanti non ce ne sono. Poi c’è l’offerta di Unicredit su BPM – letta come una intrusione nei disegni di MPS – che è un’operazione nazionale, e che presenta diversi punti di forza e pochi di debolezza. È una fusione orizzontale tra due banche commerciali, forse con qualche eccesso di concentrazione solo in alcune aree di Piemonte e Veneto».
E MPS-Mediobanca?
«Questa è una fusione in cui non c’è sovrapposizione industriale: MPS fa un mestiere diverso da Mediobanca e non c’è sovrapposizione a livello geografico. È però una fusione che riporta in auge la banca universale mista. È una fusione italiana, e cerca di evitare l’eventuale internazionalizzazione di un nostro polo bancario».
Le sembra una preoccupazione legittima, mentre si parla, Draghi in testa, della necessità di campioni europei?
«Partiamo dal fatto che in tutte le banche citate c’è una presenza di investitori esteri: in Mediobanca il 50-60% di quelli che voteranno sono fondi istituzionali stranieri, o italiani con base in Lussemburgo o Irlanda, cioè vestiti da stranieri. Questi fondi non “amano” le partecipazioni che comprano, se gli conviene vendono, sennò no. Inoltre, la difesa dell’italianità è discutibile se mi considero europeista. Ma se vogliamo difendere un polo italiano, creare una grossa struttura difficilmente attaccabile è la strategia. Quello che preoccupa, a partire dal giorno dopo l’affare, è se il piccolo MPS si prende Mediobanca, che in pancia ha la grandissima Generali, il piano industriale stia in piedi. Per non parlare dell’aspetto della governance di un simile gruppo: chi dovrà scriverne lo statuto dovrà essere molto bravo. Sarà poi da vedere che quantità di management si renderebbe necessaria, lì c’è bisogno di expertise e se gli sconfitti se ne andranno… Insomma, se qualcosa andasse male e il piccolo non riuscisse a gestire la nuova entità, i competitori di Generali, cioè Allianz e Axa, ringrazierebbero».
Il vertice di MPS dice di pensare alla fusione dal 2022. È abbastanza per dare consistenza a un progetto. E poi si afferma che il suo risanamento è compiuto.
«MPS è stata risanata, ma è ancora debole. Se mi si passa il paragone sportivo, è come un calciatore che si era lesionato menisco e crociato, è stato operato, è tecnicamente a posto, sta riprendendo a giocare, ma se fa un’attività sportiva troppo intensa si rompe di nuovo il ginocchio. Quanto a Mediobanca, anche se a molti piace ricordarla come il vecchio salotto buono dove si decidevano i destini del capitalismo italiano, oggi il suo valore e la sua redditività sono determinati dal wealth management, dall’investment banking, dalla gestione del risparmio con Mediobanca Premier, da Compass con credito al consumo e cessione del quinto. È una banca totalmente diversa, ricordarne il meccanismo alla Enrico Cuccia non rappresenta l’oggetto che si andrà a comprare».
Niente da dire sulle partecipazioni incrociate dei due soci privati che sono i primi interessati a tutte la partite sul tavolo, cioè la Delfin della famiglia Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone?
«Caltagirone è presente in cinque società del risiko bancario: Anima, BPM, Mediobanca, Generali, MPS. Delfin in quattro: Mediobanca, Generali, Unicredit, MPS. E qui può esserci un elemento di debolezza: mentre Caltagirone è il capo del suo gruppo e decide lui, nel mondo Delfin c’è una governance a 8 più uno (ci sono i 6 figli di Leonardo Del Vecchio, la moglie, il figlio della moglie e il presidente Francesco Milleri, anche alquanto litigiosi). Insomma: si possono dirimere questioni successorie e alleanze, ma regna l’incertezza sul disegno finale e non si sa bene chi comanderà il conglomerato che si vuole creare».
Pensa che la BCE, di fronte al ruolo degli azionisti privati in questa partita, possa mettere ostacoli?
«Viste le partecipazioni ben oltre il 2% che già hanno, in Unicredit, MPS, Mediobanca e in Generali che è vigilata da Ivass – quindi da Banca d’Italia – e da Eiopa a livello europeo, non credo si possa sostenere che non sono adatti a stare dentro una banca con quote significative, perché in questo caso dovrebbero smentire le autorizzazioni già concesse in passato. Il problema è se sono adatti a fare i banchieri a quel livello. Tra mettere dei soldi in un sistema che genera valore e volerlo guidare ce ne corre».
Passando alle Generali e al progetto di dar vita a un nuovo soggetto in alleanza con la francese Natixis nel risparmio gestito, lei che cosa ne pensa?
«Il nuovo gruppo avrà una potenza di fuoco che oggi a livello europeo non c’è: è un’operazione che crea in Europa un grande player, non del calibro di Blackrock, ma con oltre 1900 miliardi di € di asset under management».
Dal governo si avanza il timore che un gruppo franco-italiano non garantisca il risparmio degli italiani…
«Il risparmio degli italiani non è in mano agli italiani già adesso. La stragrande maggioranza delle banche italiane ha fortissimi capitali stranieri, a partire dalle più grandi, Intesa e Unicredit. Se lì all’inizio pesavano molto le Fondazioni, oggi sono sotto il 5%. Quanto al risparmio finanziario, vorrei ricordare che è dal 2012 che partì la denazionalizzazione del risparmio gestito, per rompere il conflitto di interessi sulle sgr tenute all’interno delle banche. Oggi siamo il miglior paese al mondo quanto a raccolta di risparmio, ma non per gestione. Oltretutto, molti soggetti italiani per operare sono andati in Lussemburgo e Irlanda. Ma anche tutte le banche tedesche, francesi, ecc. gestiscono il risparmio allo stesso modo».
L’appello a una gestione italiana ha senso per proteggere il nostro debito pubblico?
«Grazie a Dio, gli stranieri volentieri sottoscrivono tra il 25 e il 30% del nostro debito. Così raccogliamo 600 miliardi, che gli italiani non avrebbero».
I titoli Generali e Mediobanca e MPS e Mediobanca in Borsa quando iniziano a “decorrelarsi”
L’operazione Generali Natixis è stata vista come un modo per contrastare il disegno del terzo polo guidato da MPS. Lei che ne pensa?
«Ma è partita prima dell’annuncio dell’Opa di Mps su Mediobanca! Piuttosto, offro una riflessione. Guardando i grafici di Borsa, il momento in cui le azioni di MPS, Mediobanca e Generali hanno cominciato a muoversi in maniera anomala risale a parecchi mesi fa, allo scorso novembre (vedi grafico in alto). Fino al 12 novembre 2024 Mediobanca e Generali erano molto correlate, poi si è aperto lo spread, con 16 milioni di volumi per Mediobanca e con Generali che ha registrato un picco di 25 milioni di volumi il 25 novembre. Il titolo MPS ha seguito le stesse sorti di quello di Generali dal 12 novembre, con un aumento significativo dei volumi proprio a ridosso di quella data. Strano, no?».