Much more than a market, il Rapporto appena presentato da Enrico Letta, suggerisce le ricette per evitare il declino dell'Unione Europea. Ecco che cosa propongono. Toccherà alla nuova Commissione scegliere se farne la propria agenda
L’Europa vuole davvero fare la parte del cavallo zoppo nei rapporti di forza globali e in quelli economici? E perché il cantiere dell’Unione, con un passato così ideologicamente potente, tuttora così pieno di futuro per chi bussa alle sue porte, resta deserto di iniziative proprio nel momento in cui viene scosso dalla guerra ai suoi confini, dalle sfide di concorrenti come Usa e Cina sulla capacità d’innovazione, e proprio quando ha saputo scommettere su un modello rivoluzionario di crescita puntando su ambiente e digitale?
Sono domande che la classe dirigente europea dovrebbe avere ben presenti, domande che però non riescono a trasferire alla coscienza diffusa dei suoi cittadini, né a trasformare in temi di policy dei governi. E che rischiano quindi di non produrre risposte.
Eppure i segnali dell’incombente declino ci sono tutti: dalla perdita di competitività del 20% dell’Eurozona rispetto agli Usa a partire dagli anni ’90 alla capacità di investimento (aumentata dell’8% negli Usa dal 2019 in poi, mentre resta ancora del 4% sotto il livello pre-Covid in Europa); dalla crescita (il Fmi prevede sarà quest’anno del 2,7% negli Usa e dello 0,8% nell’Eurozona, aggiornato all’1% dalla Ue), al potere d’acquisto, inferiore di un terzo in Europa rispetto all’altra sponda dell’Atlantico.
Il cantiere europeo ha quindi un vitale bisogno di rimettersi in moto. È l’appello che di recente si è sentito ripetere da voci come quella di Mario Draghi e di Emmanuel Macron, e a cui Enrico Letta (nella foto), nel rapporto appena presentato sulle sfide urgenti del mercato unico, già offre una serie di risposte.
Il cambio di passo su cui l’Unione europea deve misurarsi, riassunta in poche parole d’ordine, è «agire invece di reagire», ha detto Letta in un seminario all’Arel. «Dal febbraio del 2020, quando è esploso il Covid, l’Europa si è limitata a mettere in campo solo delle reazioni a quanto stava accadendo», ha osservato. Un atteggiamento ben diverso dalle iniziative di lungo respiro sostenute dalla visione di Jaques Delors, che ha dato vita al progetto del mercato unico.
Poiché anche quel disegno oggi appare superato e deve essere completato, c’è bisogno di una nuova, forte azione politica di rilancio del mercato unico. Un’azione che lo forzi ad ampliarsi, certo, ma innanzitutto lo riconfermi nei suoi obiettivi: «Il mercato unico non è irreversibile. Non diamolo per scontato: è un’invenzione, un atto di volontà. Per essere legittimato ha bisogno di momenti fondativi», ha ammonito il politologo Sergio Fabbrini.
Come spianare il rilancio di un progetto così sfidante? Come evitare che il rapporto, intitolato programmaticamente da Letta “Much more than a market”, invece di diventare, nell’agenda del nuovo Consiglio europeo, la base di quel momento fondativo, resti un libro dei sogni, come accadde nella precedente edizione, affidata a Mario Monti nel 2010? Di quali carte dispone questa nuova versione per avere più fortuna?
Innanzitutto, propone una procedura decisionale più snella di quella usata tradizionalmente. «Nel rapporto non si prospettano cambiamenti di trattati, ma proposte fattibili, con una road map per renderle praticabili con gli strumenti della normale attività normativa», ha spiegato Letta all’Arel. Come, in concreto? Usando la procedura del regolamento, immediatamente applicabile, invece che quella della direttiva, che deve passare attraverso l’approvazione dei singoli Stati membri, di solito lunga e farraginosa. Fare le riforme attraverso i regolamenti vuol dire cercare il consenso sul piano del confronto politico, saltando il pantano di 27 burocrazie.
L’Unione europea era stata disegnata per prosperare in un mondo diverso, e quel progetto non è più valido oggi, ammette Letta del suo Rapporto: va quindi rivisto e attualizzato. Mettendo in cantina vecchie convinzioni. Per esempio, settori lasciati fuori dal mercato unico con l’idea che per essi fosse più appropriata la dimensione nazionale – è stato così per le TLC, per i servizi finanziari, per le infrastrutture energetiche – oggi hanno bisogno di crescere senza quei confini per diventare concorrenziali e per servire meglio la domanda di cittadini e imprese.
Secondo, valutare con nuovi occhi le necessità ma anche le criticità che sono derivate dall’allargamento dei confini dell’Unione, considerando che cosa esso ha prodotto, e cioè «Una mobilità da Est verso Ovest e da Sud verso Nord che sta depauperando le periferie d’Europa, come ha osservato Letta. I benefici e i diritti del mercato unico dovrebbero essere garantiti a tutti, e non inseguiti emigrando. Quindi il tema delle politiche di coesione, insieme al rispetto delle regole di adesione e al loro enforcement, balza tra le priorità. E per questo, come vedremo più avanti, servono presìdi sul territorio.
Le idee più innovative della road map di Letta si chiamano quinta libertà, 28mo regime, Saving and investment Union e Ufficio del mercato unico. In che cosa consistono?
Aggiungere alle quattro libertà che definiscono oggi il mercato unico – libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali – l’affermazione di una quinta libertà, vuol dire ampliarne la vitalità e gli scambi, ma in che direzione? Quello indicato da Letta è il terreno dell’innovazione, della ricerca e dell’istruzione. Superare le barriere nazionali su questo fronte serve ad aumentare la competitività del sistema, incentivare l’innovazione sulla frontiera dell’intelligenza artificiale, far crescere un’industria europea delle nuove tecnologie per la transizione verde e digitale che abbia la taglia per sfidare i big cinesi e americani. Non rassegnarsi ad essere solo il loro mercato di conquista.
Il 28mo regime, poi, è il grimaldello per aggirare le differenze tra i diversi regimi nazionali sul fronte della libertà di intrapresa, tra i diversi apparati regolatori, autorizzativi, di tassazione, che oggi rendono la vita difficile soprattutto alle imprese di piccole dimensioni. «Un passepartout per evitare la frammentazione», sintetizza Letta. Si tratta di rinunciare al progetto di armonizzare le norme dei 27 paesi membri e di costruire una nuova corporate law di livello europeo, più semplice di quelle dei singoli Stati, lasciando alle imprese di scegliere a quale livello collocarsi.
Due soluzioni, queste, che possono dare il massimo del risultato se anche la gamba della Capital markets union, l’unione dei mercati dei capitali, più volte evocata e poi messa da parte, verrà completata. Un’integrazione che non deve far felice “la finanza per la finanza”, ma deve creare un campo di gioco attraente per dare ai risparmiatori e in genere ai capitali privati una buona ragione per restare in Europa invece di volare altrove, come fanno oggi (la Bce calcola che il flusso finanziario netto in uscita dall’Europa verso altri mercati finanziari, soprattutto gli Usa, sia pari a 250 miliardi l’anno). Ribattezziamola quindi, propone Letta, “Savings and investment Union”.
Ma quanto capitale “comunitario” serve per realizzare tutte queste azioni? Quanta convinzione della futura Commissione, del Consiglio, del Parlamento che usciranno dalle prossime elezioni? Molto, non c’è dubbio, se si considera il crescente nazionalismo economico che ha contrassegnato la vita dell’Unione negli ultimi tempi. L’Unione, secondo Fabbrini, si è trasformata pian piano in una «organizzazione internazionale».
Serve quindi una nuova governance che rafforzi proprio gli strumenti sovranazionali dell’Unione. Che eviti smagliature come quella sulle regole degli aiuti di Stato voluta da Francia e Germania a tutela dei propri campioni nazionali, e che riporti il Consiglio dell’Unione a tenere gli interessi dei singoli Stati fuori della porta e non, come oggi, tra gli obiettivi prioritari dei suoi membri, come ha criticato Mario Monti. Un “Ufficio del mercato unico” distaccato in ogni paese potrebbe rafforzare la sorveglianza rispetto a deviazioni dagli obiettivi comuni e anche rinsaldare i legami tra Bruxelles e i governi dell’Unione, oggi più che mai messi alla prova. Il momento per agire è ora.