La sfida europea
Ecco come far funzionare il Green New Deal

intervista a Paolo Guerrieri

Dai mille miliardi promessi alla ricerca dei due-tremila necessari. Dall'intervento pubblico a quello che spetterà al mercato. Dalla distruzione di posti di lavoro alla tutela degli strati più fragili della società. La nuova strategia di crescita dell'Europa legata alla decarbonizzazione è insidiata da mille ostacoli. Ma il primo passo da fare è chiaro: aumentare il prezzo della CO2

Paola Pilati

Green New Deal: condurre l’Europa a diventare un’area a emissioni zero, issare sul continente la bandiera della lotta ai cambiamenti climatici è solo il bello slogan della nuova presidenza di Bruxelles, che vuole seguire lo spirito del tempo, o una rivoluzione epocale che cambierà il nostro modo di produrre e di vivere?  

«La sfida del Green New Deal è molto importante, ancor più perché la Commissione vuole che diventi la strategia di crescita dell’Europa. Fondamentali saranno i nuovi investimenti e creare una convenienza a investire. Perché la decarbonizzazione vuol dire distruggere le attività inquinanti e la connessa ricchezza e occupazione. Allo stesso tempo la transizione verso un’economia a zero emissioni richiederà investire in nuovi processi e tecnologie creando nuovo reddito e occupazione. Il problema è come garantire che producendo in un modo diverso si generi un saldo positivo in termini di posti di lavoro, non solo alla fine del percorso, ma durante? La grande sfida dei prossimi anni sarà dimostrare che la sostenibilità genera più occupazione e più reddito del capitalismo ad alta intensità di carbone», risponde Paolo Guerrieri. 

Ex senatore Pd, una carriera accademica che spazia dal Collegio d’Europa di Bruges a San Diego in California, a SciencesPo a Parigi, Guerrieri tocca subito la questione più spinosa. Che è quella delle risorse pubbliche da mettere in campo, del far entrare in partita il mercato, e dell’evitare effetti redistributivi a spese dei più fragili.

Professore, oggi sull’effetto dei cambiamenti climatici si riscontra un certo scetticismo. Eppure anche la Banca dei regolamenti internazionali ha lanciato l’allarme parlando di “cigno verde”: i cambiamenti climatici, ha detto, possono minare la stabilità del sistema finanziario. Eccessivo?

«Intraprendere delle politiche sui cambiamenti climatici nell’area più avanzata del mondo è diventato ineludibile. È quello che ha scelto di fare la nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen, ponendosi due obiettivi. Quello di arrivare a essere un’area a emissioni zero, e quello di farne – come ho detto – la strategia di futura crescita dell’Europa. Dunque gli allarmi sono stati presi seriamente. Ora il problema è come fare».

Arrivare a emissioni zero per il 2050. Alzare l’asticella dal 40 al 50 per cento di taglio della CO2 prodotta entro il 2030. Mettere in moto uno sforzo collettivo simile a quello della missione Apollo, che permise agli Usa di arrivare sulla luna. L’Europa degli Stati è capace di una simile coralità? Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca già fanno resistenza. E incontra ostacoli anche l’idea di barriere doganali europee verso aree che producono inquinando. 

«Ci vogliono tanti soldi. Sia come risorse per interventi pubblici, sia come investimenti privati. Tenendo presente una cosa: che il mercato non si muove da solo. Deve avere la convenienza a farlo. Servono delle politiche e interventi regolatori per questo. E poi: il processo si riverserà con più intensità su alcuni strati della popolazione. Come controllare gli effetti redistribuivi?». 

Cominciamo dai soldi. La Commissione ha parlato di mille miliardi. Bastano?

«È un primo passo importante. Dei mille miliardi annunciati dalla Commissione, cento (il cosiddetto Fondo di transizione) sono stati destinati alle aree più in difficoltà nella fase di transizione, come la Polonia ma anche la Germania, per alcuni suoi lander interni. I restanti 900 miliardi vanno al piano di investimenti sostenibili, alla trasformazione tecnologica delle imprese, per l’obiettivo intermedio da raggiungere nel 2030. Su questo primo stanziamento è già emerso quanto complessa sarà questa strada: di vero denaro fresco ce n’è molto poco. Quindi sarà necessario reindirizzare programmi già esistenti, attingere dove si può, contare sul nuovo bilancio pluriennale Ue 2021-2027 che deve essere ancora approvato e sulla Banca Europea per gli investimenti. Con le poche risorse a disposizione la Commissione non poteva fare di più. Ed è diventato subito chiaro che le risorse pubbliche Ue copriranno una parte minoritaria rispetto a quelle nazionali. E che una parte fondamentale la dovranno fare i privati, sia a livello europeo sia nazionale. Ma i privati investono – com’è noto – solo se ci sono dei ritorni adeguati».

Servono investimenti aggiuntivi. Quanti? E da dove si parte per creare le convenienze del mercato?

«Le analisi disponibili offrono valutazioni diverse e parlano di investimenti aggiuntivi che vanno dai 200 ai 300 miliardi all’anno per i prossimi dieci anni. Dunque, complessivamente tra i 2000 e i 3000 miliardi. Da due a tre volte quanto la Commissione ha annunciato di voler spendere. Come si farà a raggiungere somme di questo genere? Le risorse pubbliche saranno importanti ma la parte più importante toccherà ai privati. Al riguardo sarà il mercato il riferimento fondamentale. Ma perché un privato investa serve che l’investimento generi un ritorno adeguato che sia in grado di coprire più dei suoi costi. Quindi tutto dipenderà dal tasso di profitto che puoi aspettarti da un’attività a basso contenuto di emissioni. In pratica, da come verrà regolato il prezzo delle emissioni di CO2». 

Spieghi meglio.

«Oggi lo strumento usato nella Ue per contrastare i cambiamenti climatici è l’ETS, emission trading system: esso introduce per ogni azienda un limite massimo di emissioni, permettendo a chi sta sotto di vendere il suo eccesso alle aziende più inquinanti che comprano i diritti di emissione. Si crea così un mercato dei prezzi delle emissioni che rappresentano un riferimento fondamentale per gli operatori. Ma oggi il prezzo sull’ETS è troppo basso, intorno ai 25 euro di tonnellata di CO2 emessa, e copre solo il 40-45 per cento delle emissioni. Occorre cambiare. La copertura va estesa e il prezzo deve almeno raddoppiare, per arrivare a circa 80 euro che è il prezzo stimato del carbone per raggiungere nel 2030 gli obiettivi di riduzione delle emissioni programmati dall’Ue. Questo è il punto fondamentale. Solo così si creano incentivi adeguati per le nuove attività, e penalizzanti per quelle vecchie altamente inquinanti. Questo significa che devi imporre a molti paesi di aumentare il prezzo delle emissioni che è oggi molto diverso all’interno della Ue. Un’impresa certo non facile». 

Cosa intendeva parlando della necessità di governare gli effetti redistributivi del processo di riconversione del Green New Deal?

«Non c’è dubbio eliminare le attività più inquinanti è un costo che graverà relativamente di più sui ceti meno favoriti. I più esposti alla riconversione sono parte dei looser, ovvero quelli che dalla globalizzazione ci hanno solo rimesso. Anche in questo caso ci sarà una distribuzione asimmetrica dei costi di aggiustamento e degli eventuali ritorni delle nuove attività. Se non verrà corretta, potrebbe diventare un macigno sulla strada della riconversione verde, e innescare una vera bomba sociale».

I looser del Green New Deal sono gli stessi della globalizzazione?

«All’interno dei gruppi sociali è evidente una forte sovrapposizione. Per esempio, sono le persone che vivono in zone periferiche e rurali, a basso salario, che si fanno un’ora e mezzo di viaggio per lavorare in città.  Molti gilet gialli, insomma. Per questo sarà importante gestire la distribuzione dei costi di questa nuova sostenibilità ambientale, farsene carico come sistema e dosare equamente gli oneri fiscali. Stando attenti a non voler trasformare questa riconversione ambientale in un’occasione per sanare tutte le pregresse disuguaglianze della compagine sociale. Mi sembra che una certa parte dei Verdi tedeschi, ad esempio, puntino a questo…».

Il peso dei Verdi in Europa è sempre maggiore, dalla Germania all’Austria. Non sono degli alleati del Green New Deal?

«Sono assolutamente centrali per far camminare il Green New Deal. Quello che secondo me non va fatto è voler usare il processo di lotta al cambiamento climatico come strada per una redistribuzione generale del reddito. È difficile trovare alleanze ampie se ti poni anche questo obiettivo. E potrebbe generare la reazione dei gruppi conservatori, che in molti paesi sono oggi invece favorevoli a politiche di risanamento ambientale, come in Austria e nella stessa Germania.».

C’era un’altra strada per immaginare il rilancio della crescita europea?

« Per la crescita il rilancio degli investimenti pubblici, soprattutto europei, e privati è una strada obbligata. A questo punto è fondamentale quanta crescita sostenibile si riuscirà a generare. Ci si può chiedere se legare gli investimenti solo a obiettivi verdi sia una strada percorribile o se sia un vincolo eccessivo. Di certo, per rilanciare serve, da oggi, l’1 per cento, meglio l’1,5 per cento di investimenti (misurati sul Pil) in più ogni anno. Poiché sempre meno la crescita europea potrà derivare dalla domanda mondiale e dall’export, è fondamentale una riconversione europea come il Green New Deal, imperniata sul ruolo della domanda e del mercato interno europei. Magari prevedendo dentro questo concetto anche le tecnologie digitali, che secondo me sono complementari al tema ambientale. Green New Deal e rivoluzione digitale sono due facce della stessa medaglia. E anche lì noi europei abbiamo ritardi da colmare e investimenti da fare».