approfondimenti/politica economica
Previsioni macroeconomiche
È troppo presto per preoccuparsi della curva dei tassi Usa
Giorgio Di Giorgio
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Le turbolenze e la volatilità dei mercati finanziari nella prima parte dell’anno in corso, in buona parte anche foraggiate da motivazioni di ordine geopolitico, hanno riproposto il tema della lunga espansione dell’attività economica negli Usa e di quanto essa possa oggi considerarsi a rischio. 

In effetti, a partire dal 2009, l’economia statunitense ha sperimentato una fase espansiva di durata “record”, seppure caratterizzata da un ritmo in media più lento rispetto ad analoghe precedenti fasi di crescita del Pil.  Anche la performance dei mercati finanziari, negli ultimi nove anni è stata impressionante. Se si pone pari a 100 il valore dei principali indici di borsa negli Usa a marzo 2009, si ottengono performance in un range di + 260/ + 320 %, a dir poco roboanti.

Non può quindi sorprendere, anche sulla base dei recenti rialzi dei tassi a breve decisi dalla Federal Reserve, che molti osservatori abbiano iniziato a considerare vicino il momento della “fine della festa”, con conseguente timore di imminenti crolli nelle quotazioni sui mercati e inizio di fenomeni tipici delle fasi di recessione (peggioramento delle condizioni finanziarie, riduzione del merito di credito, fallimenti societari, incertezza diffusa, caduta degli investimenti e a seguire di altre componenti della domanda aggregata). 

I dubbi sulla tenuta dell’economia Usa sono stati alimentati anche dal recente andamento di quello che viene spesso considerato un buon anticipatore delle recessioni economiche, il cosiddetto “term spread”, costituito dal differenziale di rendimento tra un titolo a lunga e uno a breve emesso dallo stesso emittente, in questo caso il Tesoro Usa.

Ovviamente, di questi spread è possibile calcolarne diversi, usando la cosiddetta curva dei rendimenti, che ogni giorno fotografa il rendimento richiesto dal mercato per investire in un titolo governativo con una determinata scadenza. I più utilizzati sono stati il differenziale tra il rendimento di un titolo a 10 anni e un titolo a tre mesi e il differenziale tra il rendimento del decennale e di un titolo biennale.

La curva dei rendimenti è un utile strumento per sintetizzare le aspettative dei mercati sul corso della politica monetaria futura, e quindi, indirettamente, anche sulle prospettive macroeconomiche generali. 

Come noto, di norma la curva è inclinata positivamente, riflettendo una più usuale predilezione degli investitori ad investire in titoli a breve scadenza (ceteris paribus). Una curva molto inclinata riflette aspettative di aumento nei tassi a breve futuri (e quindi sembra prevedere periodi di ulteriore espansione nell’attività economica, tali da consigliare misure di politica monetaria di contenimento della domanda aggregata). Mentre una curva piatta induce a ritenere che i tassi a breve potrebbero anche scendere, magari per rivitalizzare condizioni macroeconomiche non particolarmente vivaci.   

L’inversione della pendenza della curva dei rendimenti, o un differenziale negativo nei “term spread” è stata inoltre associata spesso al realizzarsi successivo, a due – quattro trimestri di distanza, di recessioni, come ben documenta un recente studio della Federal reserve di San Francisco (https://www.frbsf.org/economic-research/publications/economic-letter/2018/august/information-in-yield-curve-about-future-recessions/).

Questo sembrerebbe giustificare una qualche preoccupazione sul futuro dell’economia Usa. Infatti, negli ultimi mesi si è osservato un deciso appiattimento nell’inclinazione della curva dei rendimenti dei titoli americani, connesso appunto alla “normalizzazione” dei tassi di interesse iniziata dalla Yellen e proseguita con Powell.  Tuttavia, la riduzione della pendenza della curva non si è ancora tradotta ne’ in un suo totale appiattimento ne’ tantomeno in “term spread” negativi.

È quindi ancora presto per suonare marce funebri. La riduzione della pendenza della curva, inoltre, potrebbe anche in parte spiegarsi considerando un effetto di contenimento dei tassi a lunga Usa esercitato dal livello molto basso di altri decennali nei maggiori paesi industrializzati (Germania, Giappone), che contribuiscono a mantenere particolarmente alto l’interesse sui titoli Usa.

In sostanza, lo stato di salute dell’economia Usa rimane buono, con aziende dinamiche ed attive in molti settori dell’economia globale, un mercato del lavoro competitivo e dinamiche dei prezzi e dei salari vivaci ma non surriscaldate. Tutto questo sembra compatibile con un’ulteriore fase positiva dell’economia, e con ancora sufficienti tempi di attesa per la prossima recessione.