Politica economica
Due messaggi per l'Italia
Paola Pilati

Il valore dei Cds Italy a cinque anni è tornato quasi al massimo dell’anno: da quota 84, il livello di aprile scorso, viene prezzato intorno a 274, il che indica l’aumentata probabilità di default che il mercato  attribuisce al debito italiano, superiore al 4 per cento. I contratti che assicurano contro l’inadempienza del debitore tornano dunque a rispecchiare un umore nero sui mercati rispetto all’affidabilità del nostro paese. Come dare loro torto? La sfida che l’attuale governo ha deciso di lanciare all’Europa con una legge finanziaria i cui numeri nessuno ritiene plausibili, sta tenendo non solo i politici ma osservatori e operatori del mondo della finanza con il fiato sospeso come ai rigori di un mondiale. Peccato che qui non si tratta di vincere o perdere una coppa, ma di mettere il paese sul binario del default.

Che sia questo l’azzardo, lo sospettano in molti: fare di tutto per essere cacciati dall’euro. Studiare tutte le mosse per arrivare ad essere messi alla porta. E uscire dall’euro come una soluzione senza ritorno. Ma l’uscita dall’euro è la soluzione? E cosa succederebbe, poi? 

Il default, per quanto estremo, non è un evento raro. Ce lo ricorda uno studio presentato nel blog della Bank of England https://bankunderground.co.uk/2018/11/15/a-closer-look-at-the-boc-boe-sovereign-default-database/(https://bankunderground.co.uk/2018/11/15/a-closer-look-at-the-boc-boe-sovereign-default-database/) sul nuovo database creato dalla stessa BoE e dalla Bank of Canada proprio sui “sovereign defaults”, che ricorda che dal 1960 a oggi il crack delle finanze pubbliche è stato registrato 145 paesi, o a livello statale o a livello locale. Gli anni Ottanta hanno visto le crisi dei paesi sudamericani, i Novanta quello della Russia, il nuovo secolo l’Argentina, la Grecia, Portorico. La previsione dello studio è che nei prossimi dieci anni il loro numero andrà aumentando, e che il default anche solo di un debito locale diventerà più pericoloso di quanto è stato finora per le maggiori interconnessioni finanziarie tra mercati. 

  

Ma un ulteriore monito viene da un lavoro di Marek Dabrowsky, professore alla Scuola superiore di economia a Mosca (http://bruegel.org/2018/11/is-this-time-different-reflections-on-recent-emerging-market-turbulence/) che guarda di vicino due casi di violenta svalutazione della moneta nazionale. Tale e quale a quella che ci sarebbe in Italia in caso di ritorno alla lira. Avvenuti dall’inizio del 2018, riguardano Turchia e Argentina. Due economie emergenti, certo, ma la cui storia recente può servire d’esempio a chi pensa che la sovranità nazionale sulla valuta sia una ricetta ottimale. Vediamo. 

Il primo segnale dell’attacco speculativo dei mercati contro Turchia e Argentina è stato l’aumento dei Cds sui bond sovrani denominati in dollari dei due paesi, che dall’inizio del 2018 incominciarono a salire rispettivamente di 300 e 400 punti. Come hanno reagito i due governi? Dabrowsky sostiene che hanno reagito facendo entrambi degli errori che ne hanno aumentato la vulnerabilità. La Kirchner in Argentina ha fatto esplodere l’inflazione grazie a una politica di sussidi all’energia, controllo di esportazioni e cambio, protezionismo commerciale, attacco all’indipendenza della banca centrale, e soprattutto spesa pubblica. 

In Turchia, nonostante un severo controllo della spesa, è stata la politica monetaria a creare disastri, producendo inflazione e tassi d’interesse bassi. Alla fine entrambi i paesi si sono trovati, per motivi diversi, con un disavanzo crescente delle partite correnti. Un segnale che non hanno ascoltato in tempo, nonostante gli allarmi di Fmi e Ocse che consigliavano di mettere sotto controllo l’inflazione con politiche fiscali più rigorose e riforme strutturali e di regolazione.

Perché i consigli non sono stati seguiti? Intanto perché cambiare politiche vuol dire ammettere che le tesi “non ortodosse” sostenute fino ad allora erano sbagliate, è l’analisi di Dabrowsky, cosa che la politica non fa volentieri, soprattutto se sono in vista scadenze elettorali; secondo, i mercati finanziari non reagiscono subito, dando ai governi l’illusione di essere nel giusto. Quando viceversa reagiscono, con l’aumento del prezzo dei Cds, la fuga dei capitali, il panico sulle banche, è troppo tardi. E le misure per recuperare terreno, a quel  punto, molto più costose. È stato così per la Turchia dove le strette che si sono susseguite sui tassi non hanno frenato il precipitare della svalutazione della lira turca, e neanche le emissioni in ottobre di titoli governativi denominati in dollari e con rendimenti del 7-8 per cento hanno per ora risolto il problema.

In Argentina le promesse del successore della Kirchner, Mauricio Macri, di ristabilire l’equilibrio macroeconomico hanno camminato troppo lentamente, e non hanno evitato il panico che ha scosso il paese e la sua valuta ancora negli ultimi mesi; gli aumenti dei tassi decisi dalla banca centrale si sono rivelati impotenti a frenare il disastro.

Morale della favola? Non riguarda solo Turchia e Argentina, e non solo i paesi in via di sviluppo ma anche qualcuno dei paesi più avanzati, come Italia e Giappone, sostiene lo studio, che stanno al limite della sostenibilità finanziaria. E che dovrebbero preoccuparsi, primo perché l’era dei tassi bassi si avvia alla fine, con ripercussioni sulla sostenibilità del debito si privato che pubblico, e con nuovi flussi in movimento sul mercato dei capitali; secondo perché la crescita non è eterna, e anzi ci sono già segnali preoccupanti come quelli sul commercio internazionale, che porteranno senz’altro dei contraccolpi; terzo perché le politiche populiste che ignorano l’aritmetica monetaria hanno vita breve. Dunque quando le correzioni della politica economica sono necessarie è bene farle subito. Dopo potrebbe essere tardi. Il messaggio è chiaro, chissà se il governo riuscirà a sentirlo.