Osservatorio Banche
Dopo la moratoria quanti crediti diventeranno NPL?

Le banche si stanno muovendo per contrastare il processo di deterioramento del portafoglio prestiti atteso nei prossimi mesi. Dopo i magri bilanci del 2020, il recupero di redditività è quanto mai legato al successo delle iniziative su questo terreno

Silvano Carletti
Carletti

Le banche sono impegnate a predisporre gli interventi necessari per contrastare il processo di deterioramento del portafoglio prestiti atteso nei prossimi mesi. Con riferimento al caso italiano, a fine marzo scade il blocco dei licenziamenti mentre la moratoria straordinaria sui finanziamenti alle micro, piccole e medie imprese, liberi professionisti e lavoratori autonomi sarà efficace fino al 30 giugno 2021. Entrambi i provvedimenti sono stati più volte oggetto di proroga. Quando e quanto gradualmente possa avvenire il superamento di queste misure è difficile prevederlo anche perché si tratta di decisione in ampia misura legata al progredire della copertura vaccinale.

I bilanci 2020 documentano la difficoltà di questo sforzo. A fronte di ricavi stagnanti – nel migliore dei casi – e di una ridotta comprimibilità dei costi sul breve periodo, i più ampi accantonamenti a protezione del portafoglio prestiti hanno causato forti decurtazioni dell’utile d’esercizio. L’aggiunta di altri interventi (frequente la svalutazione degli avviamenti) ha colorato di rosso il conto economico di molti importanti operatori bancari (Santander, UniCredit, MPS, Société Générale, Commerzbank, etc).

Secondo un’elaborazione di Bloomberg, l’utile aggregato di 19 tra i maggiori gruppi europei (3 italiani) è risultato nel 2020 inferiore a 10 miliardi, il peggiore risultato degli ultimi 10 anni: nel biennio 2017-18 si sfioravano i 50 mld, nel 2013 (il minimo precedente) si era comunque a ridosso dei 20 mld. Da parte loro i 7 principali gruppi italiani hanno chiuso il 2020 con una perdita aggregata di circa 1,7 mld a fronte di un utile di 8 mld nell’anno precedente.

Di fronte a questi dati e soprattutto all’incertezza delle prospettive non stupisce il deciso ridimensionamento dei valori di Borsa: nell’arco degli ultimi 12 mesi la capitalizzazione complessiva dei 7 principali gruppi bancari italiani si è ridotta di oltre un quarto.

Nello scacchiere europeo l’Italia è (fine settembre 2020) tra i paesi con il maggior volume di crediti attualmente in moratoria: 152 mld (il 12% del credito complessivo), contro i 130 mld della Francia (3,7%), gli 84 mld (4,4%) della Spagna e gli appena 8 mld (0,6%) della Germania. Nel caso della Francia e dell’Italia beneficiari delle moratorie sono soprattutto le imprese. I dati appena proposti riguardano le sole moratorie EBA compliant, cioè quelle moratorie, legislative e non legislative, che soddisfano i criteri richiesti affinché si eviti la classificazione delle esposizioni sotto la definizione di forbearance o come inadempienze.

Le iniziative delle banche per prepararsi ad un futuro atteso complicato sono state numerose e tra esse rientra l’alleggerimento del portafoglio dei prestiti già non performing (NPLs). Dopo le ampie riduzioni degli anni precedenti, le banche italiane hanno compiuto nuovi progressi: nel 2020, infatti, la loro consistenza è stata ulteriormente ridotta di oltre il 40% (32-33 mld) con la conseguente contrazione di 2 punti percentuali della loro incidenza sul totale dei prestiti.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca l’intensa attività di revisione del portafoglio dei prestiti in bonis che ha portato alla riclassificazione di una parte dei finanziamenti al secondo dei 3 livelli (c.d. stages) previsti dal principio contabile IFRS 9, quello caratterizzato da un incremento significativo del rischio, con conseguente incremento della loro copertura. A livello europeo a fine settembre 2020 il volume dei finanziamenti così considerati risulta aumentato del 24% (incremento simile per le sole banche italiane).

Il fronte più esposto ad evoluzioni indesiderate è probabilmente quello delle imprese non finanziarie, per le banche italiane relativamente più importante di quanto non osservabile altrove. Rispetto ad simili esperienze precedenti, la loro condizione appare meno fragile. Nel caso dell’Italia, a partire orientativamente dal 2011, la condizione finanziaria delle imprese (quelle sopravvissute alla crisi del 2008-09) ha registrato un rilevante irrobustimento, con un significativo avvicinamento del valore della loro leva finanziaria a quanto prevalente nel resto dell’area euro. Resta, tuttavia, decisamente maggiore la dipendenza dai finanziamenti bancari.

Similmente a quanto osservato altrove in Europa le imprese italiane hanno sensibilmente accresciuto le loro disponibilità liquide, salite ad 88 mld dai circa 20 mld del 2019; in Germania lo stesso aggregato ha raggiunto gli 86 mld (28 mld del 2019), in Spagna i 42,5 mld (da 7,5 mld). Al di là dei possibili effetti di composizione (imprese in buona salute titolari di ampie disponibilità liquide a fronte di scarse disponibilità per imprese operanti in settori in difficoltà) è evidente che per le banche questa è un’indicazione rassicurante, anche se probabilmente destinata ad essere riassorbita sul lungo periodo.

Un contributo alla risposta alla domanda su cosa possano fare le banche per circoscrivere il deterioramento del loro portafoglio proviene da due recenti analisi che procedono con approcci diversi, la prima delle quali curata dal Cerved [per una efficace sintesi cfr. https://www.lavoce.info/archives/72651/imprese-zombiequante-sono-davvero/].

L’analisi ha come riferimento i dati di oltre un milione di imprese italiane, la cui probabilità di default è stata valutata con l’impiego di dati aziendali e settoriali aggiornati. La pandemia ha ridotto a meno del 30% le imprese classificabili sane (non a rischio); ha lasciato invariato il numero delle imprese vulnerabili ma cambiando profondamente la composizione di questo insieme (181 mila imprese vulnerabili nella fase pre-pandemia sono diventate a rischio elevato mentre un numero simile di imprese “sane” prima di febbraio 2020 è oggi classificato come vulnerabile); le imprese a rischio elevato (quelle spesso definite zombie firms) sono più che triplicate, arrivando a rappresentare oltre un quarto del totale (appena l’8% prima della stagione Covid-19).

A fronte di limitate risorse disponibili, gli interventi di sostegno andrebbero indirizzati soprattutto verso le imprese che sono rimaste in un’area di vulnerabilità (sono titolari di circa un terzo degli affidamenti). Il non essere state travolte dalla pandemia segnala che nella loro struttura e collocazione di mercato si trovano fattori su cui agire per un recupero. Trattandosi di un insieme non piccolo (il 27% del totale) è evidentemente necessaria un’analisi molto più granulare. Opportunamente supportate molte di queste imprese potrebbero probabilmente uscire stabilmente dalla fase emergenziale.

La seconda analisi che merita segnalare è un recente studio della Banca d’Italia [M. Affinito e G. Meucci, Return of the NPLs to the bright side: which Unlikely to Pay firms are more likely to pay?, febbraio 2021] che con riferimento all’esperienza italiana mostra come non siano trascurabili i tassi di rientro in bonis delle imprese in posizione UTP (Unlikely To Pay). In alcuni anni il rientro in una situazione di normalità ha superato il 20% (nell’arco massimo di un triennio, con oltre il 50-70% dei casi già nel primo anno). Gli UTPs o anche Inadempienze Probabili (IP) sono esposizioni per le quali è accertata una situazione di difficoltà del debitore tale da mettere a rischio il recupero del finanziamento.

A metà 2020 l’ammontare (lordo) di queste posizioni era pari a 62 mld, quasi la metà dei deteriorati, con una copertura media del 42%. Nei prossimi mesi l’ammontare di questi finanziamenti potrebbe ammontare sensibilmente.

Secondo questa analisi, che copre circa 15 anni e si avvale di una ampia base dati, la probabilità di rientro in bonis è correlata negativamente con la dimensione dell’impresa e con il valore del debito mentre (non inaspettatamente) è positivamente legata al rilievo della dotazione patrimoniale. L’analisi segnala da un lato che questa probabilità è sensibilmente diversificata per aree geografiche e settori, dall’altro lato che è condizionata (ma in misura limitata) anche da altri fattori (l’età dell’azienda, la numerosità dei suoi creditori, lo stato di salute della controparte bancaria, etc). Anche in questo caso si tratta evidentemente di una traccia d’indagine che deve essere arricchita di dettagli.

Il messaggio che queste due ricerche lanciano è molto simile: nel prossimo futuro, assai più che nel passato, una corretta lettura del profilo e delle prospettive della propria clientela (Know Your Customer) rappresenteranno un’arma importante per difendere la qualità del portafoglio prestiti.