IL NUOVO NUMERO DI ECONOMIA ITALIANA
Disuguaglianze e povertà: il  caso italiano

Il numero 3 di Economia Italiana è dedicato a due fenomeni in crescita in Italia e che la Pandemia ha notevolmente acuito. Pubblichiamo l'editoriale degli editor

Giuseppe De Arcangelis, Maurizio Franzini, Alessandro Pandimiglio
Maurizio-Franzini
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Pandimiglio

 Vi sono pochi dubbi che le disuguaglianze economiche – di reddito e di ricchezza – comunque misurate, oggi sono più alte di quanto non fossero due o tre decenni fa. Ciò vale per la grande maggioranza dei paesi, tra i quali vi è certamente l’Italia: al loro interno la disuguaglianza è chiaramente aumentata (Atkinson 2015). 

Sembra che non altrettanto possa dirsi per la disuguaglianza a livello globale. Milanovic (2018) trova che la disuguaglianza a livello globale è in diminuzione e ciò si deve soprattutto alla crescita del reddito medio e alla caduta della povertà in paesi come la Cina e l’India. 

Ma vi sono significativi problemi di misurazione e, soprattutto, c’è da chiedersi se possa considerarsi davvero positivamente il fatto che sono diminuite le distanza tra il lavoratore spagnolo e il contadino cinese, mentre sono aumentate le distanze tra ciascuno di loro e i loro più ricchi connazionali. 

Le disuguaglianze within, interne a un paese, sono molto importanti ed esse sono peggiorate in quasi tutti i paesi avanzati nel corso degli ultimi 3 decenni. Prendendo come esempio due paesi molto diversi tra loro come gli Stati Uniti e la Svezia tra i primi anni ’90 e gli anni immediatamente precedenti la pandemia, la disuguaglianza nei redditi disponibili – misurata con l’indicatore più frequentemente utilizzato, l’indice di Gini – è cresciuta  da meno del 37% a quasi il 40% negli Stati Uniti e da meno del 21% a circa il 28% in Svezia. In Italia si è passati dal 28% al 33% circa (dati Ocse). 

Questo peggioramento della disuguaglianza non era facilmente prevedibile sulla base dell’ipotesi, nota come curva di Kuznets, secondo cui con il progredire dello sviluppo economico – e quindi con la crescita del reddito medio pro-capite – anche la disuguaglianza, cioè la dispersione attorno alla media sarebbe stata più contenuta (Kuznets 1955). 

Porsi la domanda del perché le cose siano andate diversamente equivale a interrogarsi sulle caratteristiche del processo di crescita economica e il loro impatto sulle disuguaglianze. Adottando questa prospettiva non si può non fare riferimento al cambiamento tecnologico e all’affermarsi delle tecnologie digitali, da un lato, e ai processi di globalizzazione, dall’altro. 

Il cambiamento tecnologico può avere profondamente alterato il ruolo e la forza del lavoro nei processi produttivi, portando anche a disuguaglianze crescenti tra lavoratori. In un mondo in cui il cambiamento tecnologico è orientato all’utilizzo di skills elevate, chiaramente l’aumento della domanda relativa di lavoro qualificata rispetto a quella non qualificata spiega il crescente divario salariale tra le due categorie. Ma recentemente a questa dicotomia si è aggiunta un’ulteriore segmentazione in tre parti della forza lavoro, come lavoratori di bassa, media ed elevata qualifica. Gli studi sugli Stati Uniti (ad esempio, Autor, 2010, e Autor e Dorn, 2013) hanno mostrato che le conseguenze più nefaste nel mercato del lavoro, sia in termini di occupazione, sia in termini di peggioramento della posizione salariale, sono sentite per le qualifiche medie, i cui compiti e mansioni routinarie possono essere più facilmente sostituiti da macchine, più delle qualifiche più basse.

Anche i processi di globalizzazione hanno inciso certamente sulle disuguaglianze in vari modi, nella sua dimensione finanziaria, in quella relative al commercio internazionale e anche nell’impulso che ha dato alla delocalizzazione dei processi produttivi. È stato mostrato come la delocalizzazione di fasi produttive intensive di lavoro meno qualificato del Nord verso economie del Sud del mondo in cui invece si impiega lavoro locale relativamente più qualificato per le fasi delocalizzate, abbia contribuito alla divaricazione dei salari dei lavoratori qualificati e non qualificati sia al Nord, sia al Sud. Feenstra e Hanson (1997) studiano il caso della frammentazione produttiva dagli USA verso il Messico nelle maquilladoras. Maskin (2015) fornisce una spiegazione più intuitiva e Koujianou Goldberg e Pavcnik (2007) presentano una rassegna generale degli effetti distributivi sui paesi in via di sviluppo.

In realtà molto rilevante sembra essere stato l’effetto congiunto di globalizzazione e tecnologie digitali, ovvero la loro interazione. Ad esempio, Feenstra e Hanson (1999) quantificano in 35 per cento e 15 per cento il contributo relativo dell’introduzione dei computer e dell’outsourcing per l’economia statunitense. 

Un sicuro rilievo lo hanno avuto anche i cambiamenti istituzionali e nelle regole del gioco che, condizionati dalla tecnologia e dalla globalizzazione, hanno notevolmente contribuito ad aggravare le disuguaglianze.  Il riferimento è ai numerosi interventi, di diversa intensità nei vari paesi, che hanno portato a una frammentazione dei contratti di lavoro e a un generale indebolimento della forza contrattuale dei lavoratori; nonché alla tolleranza rispetto all’affermarsi di monopoli (e monopsoni) in molti mercati, avallata dall’idea che compito delle autorità antitrust fosse soltanto quello di tutelare il benessere del consumatore e, ancora, da regimi fiscali particolarmente vantaggiosi per i percettori di rendite (nella logica della competizione fiscale tra paesi collegata alla globalizzazione) e tendenzialmente meno progressivi per evitare le temute fughe di capitali all’estero. 

Queste considerazioni fanno emergere un problema molto rilevante e cioè quanto influenti siano state le dinamiche di mercato nel causare il peggioramento della disuguaglianza rispetto all’indebolimento dell’azione redistributiva dello Stato. I dati di cui disponiamo tendono ad avallare la tesi che le dinamiche di mercato, indotte dai fattori e dalle politiche sopra ricordate, abbiano avuto un ruolo nettamente maggiore. Ad esempio, in Italia la disuguaglianza nei redditi di mercato – rilevati cioè prima del pagamento delle imposte e dell’eventuale percezione nel nucleo familiare di trasferimenti monetari da parte dello stato – è cresciuta enormemente di più di quella nei redditi disponibili. Tra l’inizio degli anni ’90 e gli anni immediatamente precedenti la pandemia l’indice di Gini riferito ai redditi di mercato nel nostro paese è passato da poco meno del 40% a poco più del 50%. Un aumento enorme per le caratteristiche dell’indice. Con riferimento, invece, ai redditi disponibili (che includono, quindi, l’azione redistributiva dello Stato anche se in misura non completa perché non si considerano i trasferimenti in natura e le imposte indirette), il peggioramento, come si è già detto, è stato di circa 5 punti percentuali dal 28 al 33%.  Dunque, le forze disegualitarie si sono sprigionate soprattutto nei mercati (e questo non vale solo per l’Italia) e certamente la combinazione di globalizzazione, tecnologia e istituzioni è stata decisiva al riguardo. Ma molto resta da conoscere sulle dinamiche di questo processo, anche allo scopo di immaginare interventi in grado di sterilizzarne gli effetti sulla disuguaglianza. 

Il peggioramento delle disuguaglianze si caratterizza, pressoché ovunque, per il rafforzamento della concentrazione dei redditi nella parte più alta della distribuzione (tipicamente il top 1%) a fronte di una non declinante quota di popolazione che vive in condizioni di povertà. Questa drammatizzazione del fenomeno agli estremi è di diversa intensità in vari paesi. È indubbio che negli ultimi tre decenni l’uscita dalla povertà di ampie fasce della popolazione nei paesi a basso e medio reddito sia stata rilevante e come mai prima nella storia. Purtroppo questa conquista rischia di essere seriamente minacciata dalle conseguenze economiche della pandemia. Ma, come per gli effetti sulla disuguaglianza, il cambiamento tecnologico e la globalizzazione hanno avuto effetti meno positivi sulla riduzione della povertà nei paesi avanzati. 

Nel nostro paese questo fenomeno è piuttosto rilevante, soprattutto per quel che riguarda la perdurante ampiezza dell’area di povertà.  Quest’ultima può essere rilevata in vari modi. A livello europeo si utilizza come indicatore-soglia il 60% del reddito mediano per cui è povero chi ha un reddito inferiore a tale soglia, si tratta di quella che spesso viene chiamata povertà relativa. Si utilizza in realtà anche un indicatore composito, l’AROPE (at risk of poverty and social exclusion), che oltre al livello del reddito considera il grado di deprivazione materiale, cioè il mancato accesso a una serie di beni o servizi considerati essenziali per una vita dignitosa. 

Utilizzando l’indicatore AROPE risulta che nella UE-27 la quota di popolazione povera in base a questa definizione era di circa il 20,9% nel 2019, equivalente a oltre 90 milioni di persone. Il valore più elevato si osserva in Bulgaria al 32,8% e il più basso in Repubblica Ceca al 12,5%. In Italia l’AROPE è al 25,6%, ovvero più di 15 milioni di individui, nello stesso anno 2019. Si tratta di dati abbastanza impressionanti. 

In Italia si usa misurare anche quella che viene chiamata povertà assoluta e che si basa sulla capacità di consumare un paniere di beni considerato essenziale da famiglie e da individui.  In base a questo indicatore nel 2020 le famiglie che si trovano in condizione di povertà assoluta sono cresciute al 7,7% (circa due milioni di famiglie) dal 6,4% nel 2019 a causa della pandemia. Stessa sorte ha avuto il dato sugli individui in povertà assoluta, passato dal 7,7% del 2019 al 9,4% (5,6 milioni). Ambedue gli indicatori avevano mostrato una diminuzione grazie all’introduzione del REI (e poi del reddito di cittadinanza) tra il 2018 e il 2019, diminuzione che è stata interamente vanificata dagli effetti della pandemia. La distribuzione territoriale del dato è eterogenea: nel Mezzogiorno la percentuale di famiglie sale al 9,5%, mentre si attesta al 7,6% al Nord e al 5,4% al Centro. 

Il problema della varietà degli indicatori si pone anche rispetto alla disuguaglianza. L’indice di Gini incontra qualche problema e per avere un quadro più attendibile delle tendenze in atto è utile considerarlo assieme ad altri indicatori come, ad esempio, gli indici di concentrazione – che definiscono la quota di reddito complessivo che va a un determinato segmento, tipicamente il più ricco, della popolazione e che sono largamente usati da Piketty nel suo libro di grande successo sulle disuguaglianze (Piketty, 2016) – o i rapporti interdecilici, che pongono a rapporto il reddito di chi sta più in alto (a varie altezze) nella scala dei redditi con chi sta più in basso. 

Oltre all’altezza delle disuguaglianze e all’estensione della povertà è rilevante la persistenza delle posizioni che ognuno occupa nella scala dei redditi. Con riferimento alla povertà e a un orizzonte intragenerazionale la questione è quella della permanenza dello stato di povertà: è, infatti, evidente che la povertà è un fenomeno socialmente meno penoso se la permanenza in quello stato è temporanea, anche a parità di estensione del fenomeno. Si tratta della combinazione tra elevate disuguaglianze ed elevata mobilità sociale che si può manifestare anche a livello di disuguaglianza e a livello intergenerazionale. Se le distanze tra gli individui restano costanti, ma la posizione che ciascuno occupa cambia, si è di fronte a una situazione in cui la disuguaglianza si accoppia alla mobilità sociale e, dunque, appare più tollerabile.

Nella realtà, nel nostro paese, sembra ampia la quota di popolazione che vive persistentemente in condizioni di povertà ed è limitata la quota di popolazione che sperimenta mobilità nel proprio ciclo di vita e quindi anche rispetto alle proprie condizioni di partenza. In altri termini, vi è una forte trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze che contribuisce a rendere queste ultime, al di là della loro altezza, scarsamente tollerabili – almeno per una loro buona parte (Franzini-Raitano, 2018).  

Contenere questi fenomeni richiede di misurarsi con numerosi problemi. Anzitutto quello degli obiettivi che si intendono perseguire e, dunque, dell’intensità e delle caratteristiche della disuguaglianza che si considera accettabile e forse anche positiva. In questa prospettiva non può essere eluso il problema del ‘merito’, per quanto difficile esso sia, come giustificazione delle disuguaglianze. Ma oltre a ciò c’è il problema degli strumenti da utilizzare. E questi possono ricadere nelle più tradizionali politiche redistributive o in quelle che modificano il funzionamento dei mercati. L’importanza di queste ultime, per quanto si è detto, non può essere messa in dubbio. Ma occorrono anche oculate politiche redistributive. Alcune di esse  possono modificare le prospettive future di reddito e quindi la disuguaglianza di mercato. Si pensi ad esempio alle politiche per la famiglia che possono contribuire notevolmente a ridurre le disuguaglianze di opportunità e quindi, in prospettiva, le disuguaglianze di reddito.

Rispetto a tutte queste tematiche molto resta da precisare e da conoscere. Nel volume di Economia Italiana vengono pubblicati lavori che possono aiutare a porsi le domande più rilevanti e che contribuiscono a migliorare la nostra capacità di rispondere ad esse. 

Il lavoro di Mussida e Sciulli propone un’analisi territoriale dettagliata a livello di macroregioni di tre indici di misurazione della povertà in Italia per il periodo 2015-18: AROP (at risk of poverty), SMD (severe material deprivation), SP (subjective poverty). Benché riferita a un periodo di soli tre soli anni, l’analisi mette in evidenza lo svantaggio delle regioni del Sud anche nella persistenza nello stato di povertà. Quanto alle variabili socio-economiche rilevanti, trova conferma la tesi che sia l’elevato grado di istruzione, sia l’essere occupati (anche con contratti temporanei) proteggono dal rischio di povertà. Altre variabili sembrano avere effetti diversificati a livello territoriale. Ad esempio, il genere femminile del capo famiglia aumenta la probabilità di cadere in povertà e permanervi in tutte le macroregioni eccetto che nel Nord-Ovest, dove ha un effetto opposto. Gli autori concludono che questa evidenza potrebbe ispirare interventi regionali mirati.

L’articolo di Curci e Savegnago offre una chiara esposizione delle finalità e delle problematiche derivanti dall’introduzione nel nostro paese dell’assegno unico e universale (AUU) nella legislazione vigente e include le ultime variazioni introdotte con il decreto del 19 novembre 2021. I due autori presentano in modo dettagliato le caratteristiche dell’AUU contenute nella proposta legislativa e indicano gli istituti che sostituirà, nonché le distorsioni che possono venirsi a creare. Curci a Savegnago avanzano anche la proposta di prevedere due maggiorazioni: la prima per le famiglie con un solo lavoratore in modo da aumentare il grado di progressività della misura iniziale; la seconda che scatterebbe con la presenza di un secondo percettore di reddito avente la finalità di incentivare l’offerta di lavoro (o diminuire i disincentivi all’offerta di lavoro che i sussidi possono provocare) in ragione dell’aumento dei costi di accudimento dei figli.

Il lavoro di Aprea e Raitano illustra in modo dettagliato i problemi che sorgono a definire e misurare in modo univoco la povertà. I due autori esaminano in dettaglio caratteristiche e implicazioni delle misure di povertà basate sul reddito (tipicamente la povertà relativa) e di quelle basate sui consumi (come è per la povertà assoluta in Italia). Successivamente sulla base di un data set che permette di confrontare redditi e consumi, riferiti al 2019, per un campione rappresentativo della popolazione italiana, mostrano quanto sia rilevante la variabile utilizzata per determinare l’incidenza della povertà e la composizione della popolazione considerata povera. Inoltre, Aprea e Raitano, con un esercizio controfattuale mostrano, con riferimento al periodo di lockdown, l’importanza di tenere conto delle riduzioni involontarie dei consumi per evitare di fornire stime distorte della povertà assoluta. E questo è un utile esempio dell’accuratezza che occorre nel definire e misurare la povertà. 

Gravina e Vallanti affrontano un tema molto dibattuto, sul quale le opinioni si contrappongono nettamente. E cioè l’impatto dell’automazione sull’occupazione e, per conseguenza, sulla distribuzione dei redditi. Gravina e Vallanti propongono un’analisi panel di 35 Paesi OCSE e 17 industrie nel periodo 1995-2007. Gli autori utilizzano una misura specifica di stock di capitale robotico mettendolo in relazione, sia a livello descrittivo che econometrico, con i gap salariali. Dai risultati emerge che l’effetto della robotizzazione sui differenziali salariali appare tanto più forte quanto più flessibile, o meno stringente, è la regolamentazione dei mercati del lavoro nei vari Paesi analizzati. Ciò porta gli autori a ritenere che la questione della robotizzazione dei processi produttivi e le conseguenze economiche e sociali che da essa ne conseguiranno rappresenterà nel prossimo futuro un punto centrale nell’agenda dei governi e alimenterà il dibattito fra gli studiosi.

Aliprandi, Andreano, Benedetti, Pandimiglio e Piersimoni si occupano del rapporto tra crescita economica e disuguaglianza nei redditi anche per valutarne le implicazioni per la ben nota curva di Kuznets di cui molto si è discusso. Gli autori si riferiscono all’Italia e utilizzano dati municipali, aggregandoli anche a livello provinciale e regionale. Il principale risultato è di associazione positiva tra reddito medio pro-capite e disuguaglianza (anche se rileva la dimensione spaziale considerata). Questa era l’ipotesi di Kuznets per la fase storica di transizione dall’agricoltura all’industria che, come suggeriscono gli autori, può essere accostata all’attuale fase di transizione verso un’economia dei servizi e della conoscenza. Il problema qui posto in evidenza è quello del probabile impatto negativo sulle disuguaglianze del modello di sviluppo oggi prevalente, la migliore conoscenza del quale appare necessaria per adottare misure che consentano di ottenere redditi medi crescenti e disuguaglianze non crescenti. 

A questi lavori e sullo stesso tema in questo numero si affianca l’intervento del Presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo. Oltre a sottolineare che la disuguaglianza è un fenomeno multidimensionale, Blangiardo ci ricorda l’importanza dei dati per conoscere la disuguaglianza nelle sue molteplici caratteristiche e anche per valutare gli effetti che hanno le politiche dirette a contrastarla. A questo riguardo, l’autore illustra le iniziative prese di recente dall’Istat per migliorare la sua base informativa che permette di acquisire conoscenze sull’impatto di misure di contrasto delle disuguaglianze e della povertà, soprattutto nel periodo pandemico, quali sono state quelle di sostegno ai redditi. Tale impatto sembra essere stato, nel nostro paese, in grado di migliorare soprattutto la situazione economica di coloro che si collocano nei decili più bassi della distribuzione dei redditi. Del resto questo sembra essersi verificato in molti altri paesi, come mostra Stancheva (2021). Ma la stessa Stancheva sottolinea l’importanza di interventi in grado di incidere su povertà e disuguaglianza anche nel medio-lungo termine. E dai contributi che pubblichiamo in questo volume di Economia Italiana possono venire suggerimenti utili per il disegno di tali interventi. 

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