Le cause della grande crisi del nostro secolo sono state oggetto di molteplici analisi da parte della stampa e della letteratura economica. Ma l'opinione pubblica e la politica, così come la cultura economica dominante e l'establishment finanziario, non sembrano aver focalizzato le sue scaturigini. Vale a dire l'idea, avanzata da autorevoli economisti (J.E.Stiglitz, P Krugman, E Saez), secondo i quali la causa fondamentale delle crisi epocali risiede principalmente nell'eccessiva diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. In particolare, le grandi ondate di lungo periodo nel livello delle diseguaglianze sorte negli ultimi 100-150 anni, conclusesi con crisi economiche epocali, hanno accentuato drammaticamente l'influenza negativa sulla crescita mondiale da parte dell'andamento economico degli Stati Uniti. Ai fini della genesi delle grandi crisi, le disparità di reddito endogene alle altre economie (che pur hanno grande valenza in materia di efficienza economica e nel disegno del loro sentiero di ripresa) esercitano un'influenza recessiva di intensità trascurabile. In effetti, il “contagio” proveniente d'oltre oceano nei periodi legati alle grandi crisi, ha una travolgente prevalenza. Conseguentemente, il presente lavoro attribuisce particolare risalto all'andamento della distribuzione dei redditi negli USA, lasciando in penombra le diseguaglianze endogene in Italia e negli altri Paesi europei.
Nell’agosto del 2007 la BNP Paribas decideva il congelamento di tre fondi quotati alla Borsa di New York, preannunciando la grande crisi del nostro secolo. Nel giro di pochi mesi sarebbe esplosa l’enorme bolla finanziaria accumulata nel tempo, che, in rapida sequenza, avrebbe ben presto esteso i suoi effetti all’economia reale ed allargato la sua influenza all’intera economia mondiale.
Già negli anni ’30, F. D. Roosevelt aveva ben sintetizzato il pensiero di una parte della cultura economica del tempo: “Sapevamo che la grande diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza ha grande rilevanza etica e sospettavamo che avesse altrettanta rilevanza economica; ora quel sospetto è divenuto certezza”. Cominciava a maturare fin da allora la consapevolezza che la matrice dei fattori distorsivi in grado di soffocare lo sviluppo risiedesse in massima parte nell’eccessiva disparità della condizione economica delle diverse classi sociali.
Questo tema, trama di sottofondo nella lotta politica statunitense tra conservatori e liberals fin dal XIX secolo, ha visto sorgere negli ultimi 100-150 anni grandi ondate di lungo periodo nel livello delle diseguaglianze; ondate chiuse puntualmente da crisi economiche epocali, che hanno accentuato drammaticamente l’influenza negativa sulla crescita mondiale da parte del dell’andamento economico del Paese più importante del pianeta.
Ai fini della genesi delle grandi crisi, le disparità di reddito endogene alle altre economie (che pur hanno grande valenza in materia di efficienza economica e nel disegno del loro sentiero di ripresa) esercitano un’influenza recessiva di intensità trascurabile. In effetti, il contagio proveniente d’oltre oceano nei periodi legati alle grandi crisi, ha una travolgente prevalenza sulle rispettive situazioni interne.
Il primo periodo degno di attenzione è quello denominato Gilded Age,(1900-1929), corrispondente, in gran parte, alla Belle Epoque europea. La costante egemonia politica dei Repubblicani, retaggio del secolo precedente, si è tradotta in una politica economica basata essenzialmente sul libero mercato; privo di adeguate correzioni, il gioco della libera concorrenza ha generato progressivamente una grande diseguaglianza, culminata nell’esplosione della crisi del 1929.
Qualche anno più tardi, il rovesciamento del fronte politico consentiva ai democratici di lanciare il New Deal, gettando le basi della ripresa economica e di un incisivo processo di diminuzione delle disparità. Un processo consolidato nei venti anni successivi da F.D. Roosevelt e da H. Truman attraverso un ampio spettro di misure, tra le quali una nuova regolamentazione finanziaria, la legislazione antitrust ed altri provvedimenti orientati a combattere la povertà.. Il New Deal, iniziato nel 1933, estese nel tempo i suoi benefici effetti, conoscendo il Paese negli anni ’60, con i presidenti Kennedy e Johnson, una fase di grande prosperità, prolungatasi fino alla crisi energetica del 1973.
Era periodo della controversa presidenza Nixon (1969-1974) e, dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro (1971) e la crisi derivante dall’aumento dei prezzi del petrolio, gli Stati Uniti si trovarono a fronteggiare, specialmente dal 1976, un sensibile arretramento economico, aggravato dalla 2a crisi energetica del 1979.
Nel 1980, con l’elezione di R. Reagan, iniziava un secondo lungo predominio politico repubblicano, la New Gilded Age, che, a parte la parentesi di Clinton, 1992-2000, ricondusse l’economia degli Stati Uniti per venti anni nell’alveo dell’esaltazione del libero mercato, varando altresì una drastica riduzione dell’aliquota marginale massima dal 70% del 1980 al 28% del 1988. La liberalizzazione economica, la deregolamentazione finanziaria e gli sgravi fiscali contribuirono chiaramente alla ripresa reaganiana del 1986, aggravando, per contro, lo squilibrio del bilancio federale, accompagnato da forti tensioni sull’arco delle diseguaglianze.
Nel 2009, deflagrata la grande crisi del XXI secolo, il nuovo presidente Obama, ignorando le proteste dei conservatori per i rischi di inflazione, varava un programma di rilancio dell’economia, il New New Deal,. da molti osservatori considerato insufficiente, che riconduceva in pochi anni l’economia e l’occupazione su livelli molto prossimi a quelli precedenti. Tuttavia, il massiccio rifinanziamento dell’economia, non accompagnato da misure migliorative delle disparità reddituali, non è stato in grado di migliorare l’alto tasso di povertà, né di ricostituire una florida classe media.
In sintesi, i due grandi periodi dorati, dominati politicamente dai conservatori, hanno concluso il loro ciclo con due sconvolgenti crisi epocali, la cui matrice fondamentale è da ricercare, in massima parte, negli squilibri generati dall’enorme divaricazione nella distribuzione del reddito.
Il legame tra disparità nella distribuzione del reddito e crisi economiche secolari è stato oggetto di analisi da parte di non pochi studiosi di valore (G. Akerlof, R. Solow, E. Saez, A.B. Atkinson), tra cui spicca la lucida sistematicità delle ricerche storico-economiche effettuate dal Premio Nobel per l’economia J.E. Stiglitz. La sua lungimiranza, che fin dagli anni ’60,al tempo del suo dottorato, lo ha condotto su questo argomento, ha focalizzato mirabilmente il trade off tra le forti diseguaglianze di reddito e l’efficienza dei sistemi economici, rendendo così evidente la loro interazione con le grandi crisi economiche.
Anche P. Krugman, altro Nobel per l’economia, accademico della Princeton University, si è incaricato di dimostrare con analisi a vasto raggio come l’accentuarsi delle disparità dei redditi nel periodo 1980-2004, dopo aver cancellato la middle class, abbia costituito l’humus ideale per l’irruzione improvvisa negli Usa della crisi del 2008. Lungo lo stesso filone di pensiero, ma in un’ottica leggermente diversa, le criticità storiche operanti nei periodi economicamente perturbati ed i processi di formazione delle bolle speculative sono state scandagliate da Nouriel Roubini, che già nel settembre del 2007, dal podio del Fondo Monetario Internazionale, aveva ammonito, inascoltato, i responsabili mondiali dell’imminente crack in arrivo.
La linea teorica citata, destinata a costituire un pilastro per le nuove impostazioni economiche dei prossimi decenni, è incentrata su un’analisi approfondita degli avvenimenti storici dell’ultimo secolo, la cui logica può essere riassunta nel modo seguente: è noto da sempre agli economisti che un addensamento accentuato dei redditi verso l’alto provoca livelli di domanda aggregata insufficienti a sostenere gli equilibri della crescita economica; ne consegue che, in assenza di misure compensative, il sistema si avvia, inevitabilmente, verso la recessione e, non di rado, verso la deflazione.
Partendo da questo assunto, gli eventi a cavallo delle due grandi crisi sono stato passati al setaccio degli strumenti dell’analisi economica, ricapitolati poi in una visione d’insieme. Ne emerge un quadro fortemente alterato da comportamenti e misure volti a compensare la domanda mancante, essenzialmente attraverso la deregolamentazione economica e finanziaria. In realtà, la diffusa ricerca di posizioni di rendita, lo smisurato estendersi di lobbies corporative, una deregolamentazione insensata ed altri provvedimenti del genere hanno creato importanti ostacoli allo sviluppo economico e sociale. E’ la situazione ideale per la formazione di imponenti bolle speculative di natura prevalentemente finanziaria, mentre restano irrisolti i problemi delle riforme strutturali che alterano fortemente gli equilibri naturali tra domanda globale, offerta produttiva e tassi di interesse.
L’angolo visuale degli studiosi in discorso non intende negare la validità della regola d’oro di Adam Smith, secondo cui “molto spesso i mercati, avvalendosi della spinta dell’interesse individuale, riescono a realizzare anche l’interesse generale”. Il ruolo positivo del mercato in funzione di motore e di regolatore di prima istanza degli equilibri economici è innegabile. La storia ha dimostrato, però, che, lasciato a se stesso, il gioco del libero mercato produce gravi guasti economici e sociali. La concorrenza perfetta è, in effetti, solo un’ipotesi di scuola e, come dice P. Krugman, le regole del mercato, senza incisive correzioni, non sono in grado di sciogliere i nodi delle posizioni oligopolistiche e delle nicchie costituite dalle rendite corporative, né di dare soluzione agli altri nodi strutturali.
A sostegno di questa tesi, un ampio panorama statistico in materia di diseguaglianze è reperibile ne “Il Capitale nel XXI secolo” di T. Piketty; un’altra vastissima messe di dati si trova nell’aggiornamento al 2010 della ricerca di T. Piketty-E.Saez “ Income Inequality …..1913-1998”. Altri dati al riguardo sono riportatinelle tabelle aggiornate al 2010 consultabili sul sito di E. Saez, nonché in numerose pubblicazioni della OECD e della World Bank.
Ai fini dell’oggetto della presente nota, ed in ragione dei motivi esposti in precedenza, presenteremo solo alcuni dati degli Stati Uniti, rinviando alle fonti citate per un panorama statistico più completo. Per gli stessi motivi, in merito alle diseguaglianze concernenti l’Europa, l’Italia e gli altri Paesi industrializzati ci limiteremo a qualche cenno relativo agli indici di concentrazione di Gini, contenuti nel Rapporto dell’OECD “Growing unequal?” del 2008 e nei suoi aggiornamenti.
Un dato statistico, particolarmente significativo per gli USA, concerne l’andamento nel tempo della quota delle diverse classi di reddito nel Prodotto Interno.Nel 1910 il decile più ricco percepiva circa il 41% del reddito complessivo, ma nel 1929 detta quota toccava il picco del 50%; nel decennio successivo, quello della Grande Depressione, la quotasi è stabilizzata intorno al 45%.
Poco prima dell’inizio della 2a guerra mondiale, il New Deal cominciava a dare i suoi frutti, la società civile statunitense registrava (tra il 1939 ed il 1945) una notevole compressione delle diseguaglianze, più o meno la stessa dell’Europa: la quota del primo decile diminuiva di ben dieci punti, restando poi vicina al 35% fino al 1950. Degno di nota che nel ventennio successivo gli Stati Uniti hanno conosciuto la fase più egualitaria della loro storia, oscillando detta quota tra il 30 ed il 35%
Nel corso degli anni ’70, nonostante il relativo impoverimento degli Usa, la percentuale del decile superiore cresceva dal 32 al 35%; dal 1980 la quota si impenna, portandosi tra, il 2000 ed il 2010, intorno al 50%. L’aumento accusato dalla disparità di reddito in questo lungo periodo di incubazione della grande crisi è dovuto in massima parte al primo centile, passato dal 9% degli anni ’70 a circa il 20% nel 2008. Sulla stessa linea, si constata che il reddito medio dell’1% più ricco era, nel 1979, circa 50 volte superiore a quello dell’ultimo 90%; nel 2010 tale rapporto era salito a ben 164 volte.
Infine, un dato riguardante la distribuzione dei benefici della ripresa: secondo l’aggiornamento del lavoro di Piketty e Saez, le classi di reddito più elevate, impoverite dal forte calo dei valori di borsa, si sono riprese prontamente. Il primo centile ha percepito il 93% dei redditi supplementari generati dalla ripresa del 2010 e i primi dati disponibili per il 2011-2012 lasciano pensare che la percentuale del primo decile stia aumentando rispetto al 46% del 2010. Chiudiamo con l’andamento dell’indice Gini (variabile tra 0 e 1) dei redditi nei trenta anni precedenti la crisi: nel 1980 l’indice misurava 0,40, aumentato a 0,47 nel 2013, molto vicino ai livelli di Sud Africa, Brasile, Messico Cile e Perù.
Per quanto si riferisce all’Italia ed ai principali Paesi occidentali, la comparazione degli indici di concentrazione dei redditi mostra nel periodo considerato un andamento delle disparità quasi parallelo rispetto a quello degli USA, ma, come accennato, su livelli inferiori. Nel panorama degli indici di Gini relativi alle disparità dei Paesi industrializzati, quasi tutti in aumento di 2 o 3 punti negli ultimi 30 anni, quello attuale in Italia si situa intorno a 0,44, non molto distante dal livello degli USA ( gli indici relativi al reddito disponibile, al netto delle tasse e dei trasferimenti, registrano, normalmente, livelli inferiori).
L’approfondimento di questo aspetto merita grande attenzione, insieme all’analisi delle eccedenze delle rispettive bilance commerciali, specialmente in ordine all’esigenza di determinare i margini di miglioramento dell’efficienza del sistema economico dei singoli Paesi. Ma questo è un altro discorso, anch’esso di fondamentale importanza in merito alle possibilità di recovery dell’economia europea nei prossimi dieci anni. Un argomento che esula, comunque, dall’obiettivo del presente lavoro, volto, come detto, a dimostrare quale sia la causa principale della destabilizzazione del sistema finanziario internazionale. Essa non risiede nel global imbalance degli Stati Uniti, come taluni economisti sostengono, bensì negli squilibri interni e, in modo particolare, nell’eccessiva disparità di reddito. Al riguardo basterà ricordare, conclusivamente, che tra il 1977 ed il 2007, il trasferimento di ricchezza verso il primo decile, ammontante a circa 15 punti di Pil, è quasi 4 volte superiore all’enorme deficit commerciale di circa il 4 punti accumulato dagli USA nello stesso trentennio.
Concludiamo rilevando l’elevatissimo tasso di pericolosità dei problemi evocati, di cui la cultura economica corrente sembra non voler rendersi sufficientemente conto. Le diseguaglianze attuali nell’economia degli USA hanno raggiunto livelli difficilmente sopportabili e, in assenza di un’improbabile spontanea inversione di tendenza, sono destinate a crescere. Le forze politiche americane e quelle degli altri Paesi sorvolano tranquillamente il problema, i Mandarini di Stato lo ignorano o lo banalizzano, la stampa vi accenna raramente, solo en passant. Nel frattempo, l’Europa e l’Italia, così vulnerabili alle crisi epocali d’oltre oceano, si azzuffano sui decimali del fiscal compact e sulle barriere ai migranti. E non si avvedono di danzare inconsapevoli sul bordo di un’altra possibile catastrofe dell’economia. Come ha dimostrato N. Roubini, le grandi crisi americane non sono avvenimenti rari che si verificano una volta ogni ottanta anni; la storia degli Usa, come quella degli altri Paesi, è costellata di crisi, certamente meno importanti in ragione di circostanze contingenti. Ma, considerati i fattori in campo attualmente, in assenza di adeguati provvedimenti del nuovo presidente, il recente disastro finanziario potrebbe essere solo un assaggio di un nuovo crack, di dimensioni inimmaginabili, che si profila minaccioso all’orizzonte del prossimo decennio (o forse prima).