RIFLESSIONI SUL SISTEMA PAESE
Dal Made In Italy al Sense of Italy*

Non solo beni esportabili, ma servizi come il turismo. È questo complesso di elementi che rende competitivo il brand Italia. Ecco le ragioni - anche economiche - per passare dal "Made in" al "Sense of"

Mariano Bella

1.      C’è un rinnovato interesse, anche mediatico e politico-istituzionale, per il cosiddetto Made in Italy. Made in, tuttavia, esclude – letteralmente – il mondo dei servizi, per esempio turistici. Il solo turismo consumer contribuisce all’attivo della bilancia commerciale, alla voce servizi, per quasi 22 miliardi (nel 2019) come apporto della spesa degli stranieri in Italia al netto della spesa degli italiani all’estero. Poiché è sentire comune e diffuso che beni e servizi si ibridino reciprocamente per determinare i comportamenti d’acquisto e fruizione, credo sia necessario fare un passo ulteriore nella definizione del meta o super-brand Italia: si potrebbe – dovrebbe – passare dal concetto di Made in Italy a quello più pregnante di Sense of Italy (SOFI), che racchiuderebbe anche i servizi turistici e culturali che contribuiscono a rendere forte l’Italia come marchio, nell’ambito, appunto, del cosiddetto Country of Origin Effect (acquistiamo o scartiamo un prodotto o un servizio anche o soprattutto sulla base della nostra percezione del valore associato al Paese di provenienza).

         L’inclusione dei servizi nel suddetto aggregato dovrebbe essere culturalmente agevolata dalla circostanza che proprio negli anni post-pandemia manifattura e turismo hanno egregiamente giocato un ruolo di staffettisti nella corsa italiana al recupero delle perdite subite nel 2020. Senza trascurare il contributo dei sostegni pubblici a famiglie e imprese, il successo, abbastanza straordinario, se così si può dire, ottenuto in tale gara ha visto protagonisti nella prima frazione le esportazioni di beni e nella seconda, non ancora completata, i servizi turistici in senso lato.         

Immagino, poi, che l’errore sistematico – per difetto – che ha afflitto le previsioni sulla nostra economia da quasi un triennio a questa parte, e che si è tradotto, di conseguenza, in continue revisioni al rialzo delle previsioni macroeconomiche, sia dovuto anche a una grave sottovalutazione del ruolo dei servizi turistici come fattori di attivazione produttiva in ampi settori, contigui o distanti rispetto allo stesso terziario di mercato.

         Eppure, la tendenza culturale prevalente, assieme alla pubblicistica sull’argomento, tenacemente provano a tenere distinti gli ambiti dei beni esportabili e dei servizi, altrettanto esportabili (ma senza muoversi dall’Italia, come, appunto, il turismo). Alla radice di questi distinguo c’è la convinzione che la manifattura esportatrice vada valorizzata perché portatrice di investimenti, tecnologia e innovazione, con benèfici effetti di spillover anche sotto il profilo della conoscenza e della qualità del lavoro immesso nel processo produttivo. Al contrario, il turismo (inteso sempre come cluster di servizi di mercato) sarebbe connotato da processi di estrazione di rendita dal capitale ambientale e culturale di cui si dispone, popolato da troppe imprese piccole, anzi troppo piccole e troppo poco produttive, privo sostanzialmente di capacità generativa di effetti favorevoli su produzione, innovazione e conoscenza per il sistema.

         La sintesi di questa visione pro beni (Made in) e contro i servizi è la rappresentazione diacronica dell’andamento della produttività del lavoro negli ultimi trent’anni tra manifattura e servizi, crescente nel primo caso, stagnante nel secondo. Dimenticando di aggiungere a tali evidenze due numeri, quelli relativi alla perdita, nello stesso periodo, di circa 700mila posti di lavoro nell’industria e alla crescita di quasi 2,8 milioni di occupati nei servizi di mercato.

Con questi due numeri è abbastanza facile riconoscere che la produttività nel settore in rapida espansione conosca qualche inciampo. È meno pacifico che ci si ostini a non volere investire e valorizzare il nostro terziario di mercato, a cominciare dal turismo. Ecco, passare dal Made in al SOFI , costituirebbe, a mio avviso, il primo passaggio, certo di natura culturale, per mettere mano a delle politiche dedicate ai servizi per renderli più produttivi, considerandoli un’opportunità di crescita per il futuro di medio-lungo termine, piuttosto che una sventura. Non è scritto da nessuna parte che il turismo italiano non possa e non debba diventare un settore produttivo ad alta tecnologia, con imprese più grandi e più produttive, e con estroversione strutturale verso l’estero.

         E, al termine di questo provvisorio scrutinio dei problemi ideologici attorno alla dicotomia manifattura vs servizi, mi sento di affermare che sarebbe ora di superare pure tale assurda contrapposizione, proprio sfruttando il più ampio concetto del SOFI  e del suo operare presso i consumatori-acquirenti planetari, italiani inclusi: si viene in vacanza in Italia perché si è provato cibo, abbigliamento, profumi italiani e si cercano e acquistano tali beni all’estero perché si è fatta esperienza in Italia durante un periodo di lavoro o di svago. Bisogna valorizzare questa contaminazione benefica.

2.      Quali beni e quali servizi dovrebbero essere inclusi nel SOFI ? Una batteria di criteri è necessaria alla selezione, viceversa qualsiasi cosa può entrarvi (o esserne esclusa). Si noti, a latere, che anche quando si evoca il Made in raramente si procede, per logica ed evidenza empirica, a rispondere alla domanda “cos’è il Made in?” (pregevole eccezione è il Centro Studi di Confindustria che nel rapporto “Esportare la dolce vita” non si sottrae al compito di declinare con precisione cosa ne faccia parte e perché).

         Sono inclusi nel SOFI  beni e servizi in grado di suscitare emozione e riconoscimento nel campo del country of origin effect e si tratta di beni e servizi la cui fruizione è prevalentemente appannaggio dei consumatori finali (persone fisiche). Inoltre, vengono considerati segmenti appartenenti al SOFI  quelli per i quali il saldo della bilancia commerciale è largamente positivo. La questione del saldo ha rilievo perché prima dell’attrazione di acquirenti-fruitori stranieri, il SOFI  agisce come catalizzatore di desideri, propensioni ed acquisti degli italiani in Italia, riducendone le potenziali importazioni.

         Da un punto di vista macroeconomico, l’aggregato che indico con SOFI  deve essere largamente immune dalla dittatura della competitività. In altri termini, anche in presenza di eventuali incrementi nei costi di produzione e, dunque, nei prezzi finali, le quote di mercato detenute dai produttori/esportatori di tali beni e servizi non subirebbero ridimensionamenti apprezzabili. L’elasticità al prezzo dei volumi del SOFI  deve essere piccola in valore assoluto, certamente inferiore all’unità. L’elasticità al ciclo, al contrario, e in coerenza con l’idea di un aggregato in cima alle preferenze dei consumatori, deve essere largamente superiore all’unità (se il ciclo è positivo).

         Le elaborazioni effettuate, che mescolano dentro al SOFI  beni del Made in con i servizi turistici e culturali, comportano l’identificazione di un aggregato che ha un saldo commerciale rilevante in assoluto e in percentuale del PIL (105 miliardi di euro nel 2019); di più: tale saldo è costantemente positivo, al contrario del saldo commerciale totale. Sul saldo estero del SOFI  si può, insomma, contare, quasi a prescindere dal contesto internazionale. Anche al netto di una quota dell’energia importata, le evidenze di cui sopra non mutano in misura rilevante.

         Non si può caricare di troppi significati un esercizio parziale, approssimativo e preliminare. Tuttavia, le evidenze presentate indicano con sufficiente chiarezza che il meta-brand Italia va valorizzato, avendo cura di riferirlo non solo alla preziosa manifattura bensì anche ai servizi, in primis di tipo turistico-culturale.

         Acquisire e meditare nuovi concetti e nuovi linguaggi è il primo passo per impostare buone politiche.


  • Una versione più estesa di questa nota è in corso di pubblicazione su Economia Italiana, 2/2023.