Osservatorio Banche
Dagli extraprofitti ai prestiti a rischio

La discussione sui cd extraprofitti ha distratto l’attenzione sul peggioramento dello scenario economico finanziario delle imprese, da cui in Italia proviene la parte più rilevante della domanda di credito bancario

La soddisfazione degli azionisti delle banche italiane per la forte crescita del margine d’interesse  potrebbe essere raffreddata dalla crescita dei prestiti irregolari. Tutte le cifre e i confronti internazionali

Silvano Carletti
Carletti

Nei giorni scorsi è arrivata a conclusione la vicenda dell’imposta sui cd extraprofitti delle banche. Il testo approvato è molto diverso da quello proposto all’inizio di agosto, provvedimento scritto molto frettolosamente. L’imposta del 40% sulla differenza tra il margine di interesse ottenuto nel 2022 rispetto a quello del 2021 risulta confermata, ma l’ammontare massimo non potrà superare lo 0,26% dell’importo complessivo dell’esposizione al rischio su base individuale, aggregato che esclude i titoli di Stato.

Inoltre, in alternativa al versamento dell’imposta, gli istituti di credito potranno procedere ad un rafforzamento patrimoniale destinando a riserva non distribuibile un importo pari a due volte e mezza l’imposta dovuta. Se il provvedimento ha guadagnato qualcosa sotto il profilo della logica economica, ha perso molto in termini di gettito che si stima supererà solo di poco un miliardo di euro.

Per questo limitato risultato si è prodotto un danno reputazionale non secondario (la norma ha una valenza retroattiva), ma soprattutto si è distolta l’attenzione da quelle che sono le vere difficoltà da affrontare.

Nei primi giorni di settembre Eurostat ha certificato il forte rallentamento in atto nell’area euro su cui pesa il dato negativo della Germania. Prendendo atto di questo indebolimento congiunturale, le previsioni fissano allo 0,8% per il 2023 e all’1,3% per il 2024 la crescita ipotizzabile per l’eurozona, con una correzione al ribasso in entrambi i casi dello 0,3%.

In questo scenario (che potrebbe rivelarsi ottimistico) il dato dell’Italia è complessivamente meno brillante del dato medio europeo (+0,9% nel 2023, +0,8% nel 2024). La più recente previsione della nostra Banca centrale è meno favorevole (+0,7% quest’anno, +0,8% nel 2024, +1,0% nel 2025), con l’ulteriore avvertenza che se i rischi per l’inflazione sono bilanciati, quelli per la crescita sono orientati al ribasso.

Guardando con distacco alla situazione risulta poco comprensibile il confronto tra le energie profuse in una questione che sul piano quantitativo produce conseguenze limitate (l’imposta è pari a un ventesimo circa dell’utile netto conseguito nel 2022 a livello sistema) e le timide preoccupazioni che vengono espresse per lo sfavorevole evolversi del contesto di mercato, da cui potrebbero derivare ben più gravi impatti sui risultati di bilancio.

Prima di procedere oltre, è importante richiamare due aspetti che rendono la situazione delle banche italiane, non poco diversa da quella degli istituti di credito degli altri maggiori paesi europei.

Il primo riguarda la composizione del portafoglio prestiti concessi al settore privato non finanziario. Posto pari a 100 l’ammontare di questi prestiti ad agosto 2023, nell’insieme dell’area euro 57 erano riferibili alle famiglie e 43 alle imprese non finanziarie. La quota delle famiglie risulta in Spagna e  in Germania superiore al dato medio europeo (59% e 60%, rispettivamente); viceversa, Francia e soprattutto Italia si posizionano notevolmente al di sotto di quel riferimento (53% e 51%, rispettivamente). Sotto il profilo dell’evoluzione temporale, Germania e Francia non registrano sostanziali mutamenti rispetto al passato (media 2010). Per Spagna e Italia, invece, in questi 13 anni molte cose sono cambiate, con un incremento della quota delle famiglie rispettivamente di 10 e 12 punti percentuali.

Un secondo dato da tenere ben presente è quello della composizione per scadenza dei prestiti alle imprese: posto pari a 100 il totale dei prestiti alle imprese lo scorso agosto, nella media dell’eurozona 18% aveva una scadenza non superiore all’anno, 21% tra 1 e 5 anni con il restante 61% con scadenza superiore ai 5 anni. Per Francia e Germania la quota di prestiti con la durata maggiore è più ampia, rispettivamente 69% e 66%; Spagna e Italia  sono invece sensibilmente al di sotto del dato europeo (entrambe al 53% circa).

Un approfondimento curato dalla Banque de France arricchisce quest’analisi considerando anche la quota di prestiti alle imprese a tasso variabile e quanto raccolto sul mercato dei titoli di debito. Se ne ricava che sul totale dei finanziamenti alle imprese la quota a condizioni finanziarie definite era (fine 2021) pari al 47% in Italia, al 62% in Spagna, all’80% in Germania, all’83% in Francia. In definitiva, quindi, le imprese italiane hanno una sensibilità al mutamento del clima finanziario ben più ampia di quanto riscontrabile per le imprese spagnole, tedesche e francesi.

Dopo la rapida correzione delle condizioni monetarie imposta dalla Bce a partire dalla metà dello scorso anno, si comincia a percepire un (inevitabile) deterioramento della congiuntura macro, aggravato da fattori di natura non economica (tra cui ovviamente l’aggressione della Russia all’Ucraina e ora anche il conflitto Israele-Palestina). Le imprese italiane sono particolarmente esposte a questa negativa evoluzione sul versante degli oneri finanziari, su quello dell’andamento dei ricavi, su quello della disponibilità del credito (adozione di criteri restrittivi da parte delle banche). Non stupisce che le indagini presso le nostre imprese segnalino un crescente pessimismo.

In definitiva, la soddisfazione degli azionisti delle banche italiane per la forte crescita del margine d’interesse nel 2022, nell’anno in corso e (probabilmente) per una buona parte del 2024 potrebbe essere molto raffreddata dalla crescita dei prestiti irregolari. Se le imprese sono la principale destinazione del credito bancario, le banche continuano a essere il principale referente finanziario (spesso unico) delle imprese. Il processo di diversificazione delle fonti di finanziamento delle imprese, infatti, ha fatto molti passi in avanti ma, soprattutto nel segmento delle PMI, l’accesso al credito bancario resta l’opzione di gran lunga più importante.

Il rallentamento della dinamica economica non sembra invece avere ancora un posto centrale nelle scelte del mondo bancario italiano. Lo si intravede anche nelle semestrali al 30 giugno 2023 dei due gruppi maggiori: mentre il contributo più rilevante al miglioramento del loro risultato lordo è attribuibile alla crescita dei ricavi e in particolare del margine d’interesse, il restante 35% circa è dovuto alla riduzione delle rettifiche relative al portafoglio prestiti. Se il management dei due gruppi fosse seriamente preoccupato per l’evoluzione futura avrebbe mantenuto più elevato l’ammontare delle rettifiche. Optando per una conferma delle rettifiche sul livello dell’anno precedente, la crescita del risultato lordo di gestione sarebbe comunque risultata prossima al 50%.

Eppure segnali di malessere il mondo delle imprese comincia a manifestarli. La domanda di credito misurata a/a è in progressiva contrazione da fine 2022 e all’ultima rilevazione (agosto 2023) era oltre -6% a/a, anche perché il tasso d’interesse richiesto (nuove erogazioni) si è quadruplicato da luglio 2022 (da 1,3% a 5,0%).

L’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio Fallimenti di CERVED segnala che, dopo 18 mesi di calo, nel secondo trimestre 2023 sono cresciuti i fallimenti (+1,5%) e le liquidazioni in bonis (+26,1%) delle imprese. Il flusso dei nuovi prestiti deteriorati conferma da 4 trimestri un tasso annuo di crescita moderato (1,6-1,7%). Aumenta però quello dei prestiti che presentano ritardi nei pagamenti, anche se non ancora tali da richiedere una classificazione dei prestiti stessi come deteriorati (prestiti in stadio 2 della classificazione IFRS 9).

Nessuno di questi ultimi dati è su livelli preoccupanti. Il sistema delle imprese italiane ha peraltro conseguito nell’ultimo decennio un evidente rafforzamento patrimoniale, anche per effetto di un profondo processo di selezione. Rispetto alle esperienze passate le imprese italiane dispongono di un’ampia dotazione di liquidità (depositi per quasi 400 mld). Tuttavia è solida la tesi che ritiene esaurita o quasi la fase di inasprimento delle condizioni finanziarie, ma certamente non vicino un ridimensionamento sostanziale del costo dei finanziamenti.