Gli occupati crescono, ma le paghe restano al palo. Lo certifica l’Ocse, nel suo Employment Outlook 2018: nell’area c’è più gente con un lavoro di quanta ce ne fosse prima della crisi, e i livelli di disoccupazione sono quasi tornati a dieci anni fa. Anzi, in alcuni paesi europei, negli Usa e in Australia, l’offerta di lavoro rimane inevasa. Eppure la remunerazione del lavoro – calcolata in termini di livello nominale delle buste paga – non cresce. Come mai?
Il primo imputato è la produttività, che viaggia a un ritmo di crescita che è la metà di quella pre-crisi (1,2 contro 2,3%), ma in alcuni paesi – Italia, Francia, Usa, Uk, Giappone – non raggiunge l’1%. Solo un gruppo molto concentrato di imprese che si muovono nelle regioni più avanzate della tecnologia registrano alti tassi di crescita della produttività, ma investono appunto molto in tecnologia, meno in lavoro.
La seconda ragione è che il passaggio della crisi ha cambiato il tipo di competenze richieste sul mercato ai lavoratori: servono persone più qualificate, più flessibili e creative, e questo taglia fuori molta gente in cerca di lavoro, o la condanna a lavori poco pagati. Infine, l’esperienza della disoccupazione ha indotto molti ad accettare paghe più basse di quelle che avevano in passato.
Per affrontare questi problemi servono soluzioni di policy. Le ricette si conoscono, e passano attraverso il training continuo, attraverso la collaborazione tra corpi sociali, evitando il declino dei sindacati, e rilanciando le trattative nel campo dell’impiego, che dimostrano di essere sempre il sistema più efficace per ottenere migliori condizioni di lavoro o almeno attenuare gli svantaggi (anche se i migliori risultati in termini di salario si ottengono a livello di azienda, e non di contratti collettivi).
Sebbene l’abbassamento dei livelli di retribuzione non abbia cambiato più di tanto gli standard di vita dei lavoratori, afferma l’Ocse, e questo grazie alla bassa inflazione che ha ridotto i salari reali non del 2,2 ma solo dell’1,2 per cento, è il mondo del lavoro che ha assunto connotati molto diversi nel giro di pochi anni. Prima di tutto, si è accentuata la divaricazione tra chi guadagna bene e chi guadagna paghe da fame: l’1 per cento al top della scala degli stipendi ha raggiunto remunerazioni che non si erano viste prima, mentre le famiglie nella fascia bassa dei redditi sono sempre più condannate a rimanerci. Servono quindi policy attive per evitare che i lavoratori con scarse capacità di aggiornamento rimangano intrappolati negli impieghi sottopagati o nella disoccupazione.
L’altro fenomeno è la sostituzione del lavoro con il capitale. Ma se la tecnologia elimina alcuni lavori (e lavoratori), l’evoluzione della tecnologia stessa rende necessarie nuove funzioni che devono essere svolte da nuovi lavoratori. Nel complesso, però, l’evoluzione tecnologica distrugge, non crea lavoro: le imprese superstar, quelle che si collocano alla frontiera tecnologica, tendono a ridurre la quota di lavoro, e questo è un trend dal quale non si torna.
In un mercato che ogni anno il 20 per cento dei posti di lavoro viene creato o distrutto, e in cui un terzo dei lavoratori viene “separato” dal suo posto di lavoro (o perché lo cambia o perché lo perde), l’insicurezza è forte. I governi devono farsene carico? Il rapporto dell’Ocse dice di sì: gli strumenti classici sono l’assistenza a chi perde il lavoro sotto forma di aiuti finanziari ma anche di politiche attive per ricollocarli. Ma con quali costi, e con quale efficacia?
Uno studio condotto tra il 2013 e il 2017 dall’Ocse, intitolato “Back to work” ha analizzato i risultati di queste policies in nove paesi riguardo il fenomeno del trasferimento del posto di lavoro, considerato una forma particolarmente distruttiva di perdita dell’occupazione. Riguarda infatti soprattutto lavoratori giovani, e impiegati di piccole imprese. Ebbene, la loro capacità di reimpiego varia da paese a paese, ma dipende anche da come viene affrontato il tema dagli stessi datori di lavoro e dal sindacato, e non solo gestito dall’intervento pubblico. Uno strumento che ha dimostrato la sua efficacia è stato lo “short time work scheme”,che sia in Giappone che in Germania ha funzionato come ammortizzatore nel periodo di maggiore crisi economica, con gli imprenditori che hanno contribuito ai suoi costi finanziando l’indennità di disoccupazione proprio per scoraggiare dei licenziamenti di massa.
Ma lo sforzo chiave resta quello di aiutare il lavoratore a trovare un nuovo impiego, e prima si prende coscienza che il lavoro che si svolge sta per diventare fuori mercato, prima si interviene a cercare una soluzione alternativa, meglio è. Il suggerimento che viene dal rapporto Ocse è dunque quanto mai lontano dalla prassi che conosciamo, in cui il rituale prevede l’intervento – pubblico e del sindacato – solo dopo che i lavoratori sono già fuori dal meccanismo produttivo. Un’azione in una fase nascente del problema renderebbe la crisi più gestibile, dice lo studio, e aumenterebbe la possibilità di esaminare alternative di impiego non solo a livello di gruppo ma anche livello individuale. In conclusione, i servizi per il reimpiego (ce ne sono in tutti i paesi, con ricette diverse) devono basarsi su una collaborazione dei diversi soggetti in campo per essere efficaci, dalla parte pubblica all’imprenditore privato.
Poiché non sempre è possibile il rapido passaggio da un lavoro a un altro, l’aiuto economico a chi ha perso il posto è uno strumento indispensabile, ma che deve rispondere al requisito chiave di non demotivare la ricerca di un nuovo lavoro. Il Rapporto Ocse dimostra comunque che questo strumento è andato via via riducendosi con l’uscita dalla crisi, e questo può aver indotto chi cercava lavoro ad essere meno selettivo, spiegando così la crescita dei lavori di scarsa qualità. Anche i vincoli di spesa pubblica sono una ulteriore spiegazione del fenomeno, ma di certo il sistema nel suo complesso non può fare a meno di un supporto a chi viene espulso dal mondo lavorativo, anche per tenere i disoccupati legati ai servizi per l’impiego e non perdere il contatto con loro. È per questo che la nuova Job Strategy dell’Ocse richiede un’azione chiara per estendere l’accesso alle forme di aiuto nella disoccupazione con servizi efficaci per trovare lavoro, e viceversa richiede agli assistiti un impegno attivo nel cercarlo.