Sofferenze bancarie
Un'industria cresciuta troppo in fretta

intervista con Maria Teresa Bianchi

Nel 2019 le transazioni sugli Npe si sono ridotte al minimo. Anche se molto è stato smaltito, il problema dei crediti a rischio non è superato, e dopo i casi Carige e Mps, si profila anche quello della Popolare di Bari. Un bilancio sull'industria nata per lavorare su quei crediti, nell'intervista con Maria Teresa Bianchi, presidente di Rev, la bad bank che si occupa delle sofferenze delle prime quattro banche fallite

di Paola Pilati

Dai 341 miliardi del 2015 ai 165 miliardi di metà 2019: è questa la fotografia che descrive il rapido dimagrimento degli Npe (non performing exposures) del sistema Italia, scattata nell’ultimo Rapporto PwC. Questo non vuol dire che i rischi nei portafogli delle banche siano in fase di esaurimento. Su un altro fronte del rischio bancario si è appena acceso un faro: quello degli Utp, gli “unlikely to pay”, cioè quei crediti che la banca classifica come probabili inadempienze.

Gli Utp ammontano a 73 miliardi, e finora sono rimasti in ombra, visto il grado inferiore di pericolosità. Ma c’è un fatto: sono concentrati nei bilanci delle prime dieci banche italiane. Per migliorare la qualità del proprio patrimonio, obiettivo richiesto dalla Bce e dall’Eba, le banche potrebbero essere spinte a disfarsene. Alimentando così con nuovo carburante il mercato del recupero crediti, affollato di operatori italiani e stranieri pronti a contendersi i pacchetti di titoli scadenti. Senza contare, poi, che nel mondo bancario le crisi non sono tutte alle spalle: l’ultima esplosa, la Popolare di Bari, si appresta a riversare sul piatto delle bad bank il suo carico di Npe. E forse non sarà l’ultima. 

Su questi temi abbiamo ragionato con Maria Teresa Bianchi, docente di economia aziendale alla Sapienza di Roma, e presidente di Rev, la bad bank controllata dalla Banca d’Italia a cui sono stati affidati 10 miliardi di Npe provenienti dalle quattro banche messe in risoluzione nel 2015 (Etruria, Banca Marche, CariFe, CariChieti). Ecco l’intervista.

Il 2019 è stato l’anno più magro degli ultimi tre sul fronte delle transazioni di Npe: secondo il Rapporto PwC sono ammontate a 38 miliardi. Come lo spiega?

«Sul fronte delle cessioni, è vero che le banche hanno già espulso la gran parte di quello che avevano in bilancio. Anche se quest’anno però ci sono state nuove operazioni importanti, da Carige a Montepaschi, che hanno ceduto portafogli consistenti. Ma ora il mercato è soprattutto impegnato in un’altra fase: quella del recupero dei crediti. È quello che sta facendo Rev, con plusvalenze ragguardevoli».

Può dare qualche cifra?

«Non posso dare numeri fino alla chiusura ufficiale dei conti. Ma se devo analizzare lo scenario del mercato che abbiamo sotto gli occhi in questo momento, devo osservare che si sta allargando al tema degli Utp. Tema diverso dagli Npe, perché per gestire quei crediti servono soggetti in grado di fare servizio bancario, cioè decidere se e in che misura fare nuova finanza con i soggetti coinvolti. È per questo che su questo fronte possiamo assistere all’arrivo di nuovi player: le Sgr».

Il mercato è già molto affollato. Lo smaltimento dei crediti incagliati ha attirato in Italia player dall’estero, ha fatto nascere una vera e propria industria dedicata. Tutto troppo in fretta. Tanto che uno degli aspetti critici è la carenza di personale specializzato. Che ha determinato in alcuni casi il passaggio di mano in mano di pacchetti di crediti acquisiti da altri incapaci di digerirli. C’è insomma l’impressione che gli Npe si trasformino in una bolla pronta a scoppiare. Che ne pensa?

«È vero, alcuni player si sono gonfiati acquistanto molti crediti, ma non hanno sistemato a dovere la macchina operativa necessaria per gestirli. Lo dico sulla base della nostra esperienza con Rev. Ci siamo trovati con 10 miliardi di portafoglio, e quando il nostro socio ha modificato la nostra strategia, e ci ha detto che non si trattava di cedere nell’immediato, ma di gestire, noi abbiamo dovuto strutturare una macchina operativa, e creare all’interno dei sistemi per gestire i nostri portafogli. Abbiamo anche modificato il portafoglio: parte viene gestito in house, parte è stato ceduto a servicer esterni».

È proprio il moltiplicarsi dei servicer che fa pensare a una crescita un po’ disordinata…

«Alcuni servicer sono effettivamente troppo affollati, non curano il cliente in maniera attenta, ci sono criticità perché alcuni player sono cresciuti molto velocemente con grandi quantità di crediti in pancia, ma senza una macchina operativa strutturata nelle competenze necessarie. Anche il fatto di tasferire nei servicer il personale che gestiva quei crediti nelle banche in crisi, spesso non basta: ci vuole un sistema operativo che consenta di fare monitoraggio minuto per minuto. Ritengo che questo mercato debba ancora essere correttamente dimensionato, ci vogliono uomini e macchine per governarlo».

Questa inefficienza ha dei riflessi sui prezzi di realizzo dei crediti?

«A incidere sui valori e sui tempi di recupero sono soprattutto altre inefficienze. Come le lungaggini dei tribunali: capita che tu abbia chiuso l’operazione, ma non puoi andare avanti perché un errore in un piano di riparto ti obbliga a ricominciare da capo. Sono le inefficienze di sistema quelle che incidono di più. Ma anche quelle legate a un sistema nato e cresciuto troppo velocemente arriveranno al pettine, e le sconteremo di qui a qualche mese».

Italy is the place to be”, era il tam tam del mercato sui nostri Npe. È ancora così? La capacità di recupero dà soddisfazioni: compro a 10 e vendo a 30?

«Compro a dieci e vendo a trenta è un po’ troppo ottimista. Ma i margini ci sono. La verità è che queste partite espulse dal sistema bancario spesso non sono state coltivate per nulla. E quando il soggetto debitore, che sperava di essere stato parcheggiato e dimenticato, si accorge che qualcuno vuole da lui qualche soddisfazione, il risultato si ottiene».

Torniamo agli Utp. Finora non sono stati presi in considerazione. A voi interessano?

«Noi non abbiamo Utp. Siamo stati creati con la mission di valorizzare al meglio le sofferenze che emergevano dalle quattro banche in risoluzione».

Come valuta il fatto che arrivino nuovi soggetti per gestirli, e si tratta di soggetti -come le Sgr- che hanno a che fare con il mondo del risparmio? Non c’è il rischio che alla fine delle catena quei titoli possano essere impacchettati e proposti ai risparmiatori?

«Certo, il rischio che gli Utp si trasformino in prodotti con un alto grado di rischio esiste. È evidente che bisogna stare molto attenti. Una Sgr investe denaro dei risparmiatori, e se creo un fondo dedicato agli Utp devo individuare bene chi sono i soggetti che possono investire. La faccia positiva della medaglia è che se un’azienda si trova in difficoltà, per questa via può trovare un soggetto con la capacità di finanziarla, e in grado di fare un business plan. Anche in questo caso chi ci mette i soldi deve sapere che il profilo di rischio è più alto. E chi può farlo: un semplice riparmiatore o un investitore istituzionale?».

Tra gli investitori istituzionali ci sono anche i fondi pensione, o le casse di previdenza, quindi in ultima analisi i risparmiatori. Non le sembra che anche per loro sia un investimento azzardato?

«Certo, infatti vedo più adatto un fondo di turnaround, o di private equity, più che una Sgr che investe i soldi dei piccoli rispamiatori».

Dalla sua esperienza, il sistema messo a punto per lo smaltimento dei crediti in sofferenza funziona, o c’è qualcosa da correggere?

«Secondo me occorre ripartire dall’origine del fenomeno degli Npe, cioè le crisi bancarie. Occorre vedere quali sono i nodi della crisi, a cominciare da come le banche gestiscono i crediti: quando si tratta di crediti problematici, li gestiscono in modo un po’ meno coerente di quanto fanno con i crediti in bonis. È su questo aspetto a monte che si dovrebbe lavorare, non a valle».

Cioè sul modo di fare banca.

«Purtroppo sì. L’esercizio del credito è un’attività tradizionale delle banche, ma oggi viene messa ai margini. E sentiamo dire che se banche non fanno finanza tecnologica, se non sono telematiche, saranno espulse dal mercato. Ma coltivare correttamente un credito che oggi può avere difficoltà, ma è ancora buono, può evitare che diventi Utp o sofferenza».

Il caso Popolare di Bari dimostra il vizio è diffuso. Anche lì ci sarà un bel pacchetto di Npe.

«Certamente sì. Suppongo che non se ne potranno occupare né Invitalia né la futura nuova banca del Sud. Verranno esplulsi, e dati a qualcuno».

A voi?

«Non è nei piani, ma siamo qua. Noi abbiamo una expertise, ma il nostro statuto dice che ci dobbiamo occupare delle sofferenze delle 4 banche. E modifiche dello statuto le può fare solo il socio, cioè la Banca d’Italia».