Nell’ambito di tre controversie incardinate in Polonia da una società di servizi cessionaria dei crediti derivanti da tre posizioni di credito al consumo, la società, attesa la chiusura anticipata dei prestiti, chiedeva alle banche erogatrici la restituzione pro quota delle commissioni a suo tempo pagate dai consumatori affidati. A seguito del rifiuto delle banche, si rivolgeva al giudice per ottenere ordinanze di ingiunzione, che venivano opposte dalle banche debitrici. Poiché l’opposizione verteva sulla possibilità che nella restituzione dovessero essere comprese tutte le commissioni ovvero solo quelle aventi natura recurring (e non soltanto queste ultime, che risultano essere state corrisposte), il giudice adito ha ritenuto di sospendere il giudizio e di rivolgersi alla Corte di Giustizia europea per acquisire l’orientamento su quale debba essere considerata l’interpretazione corretta, atteso che la questione era diversamente decisa dalle corti nazionali, pur con una maggioranza per la posizione che lascia fuori dalla retrocessione le commissioni up front.
La tutela del consumatore in caso di estinzione anticipata era definita dall’art. 8 della prima direttiva sul credito al consumo nei termini che seguono: in caso di estinzione anticipata, «in conformità alle disposizioni degli Stati membri, egli deve avere diritto a una equa riduzione del costo complessivo del credito».
Nel vigente art. 16 della seconda direttiva (n. 2008/48), si dice che egli «ha diritto ad una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto».
Ne segue che l’oggetto della decisione interpretativa chiesta alla Corte, con rinvio pregiudiziale, consiste nello stabilire se nei costi dovuti per la restante parte del contratto siano da conteggiare (e da restituire pro quota) tutti i costi indistintamente, ovvero solo quelli che si riferiscono ad attività durevoli nel corso del contratto, per i quali la mancata retrocessione creerebbe una situazione di indebito in capo alla banca.
La Corte di giustizia ha optato per la prima alternativa, in virtù delle seguenti motivazioni:
a) l’applicazione della normativa sul credito ai consumatori non è ostacolata dalla circostanza che le parti in causa siano professionisti, giacché l’ambito di applicazione della direttiva 2008/48 «non dipende dall’identità delle parti della controversia di cui trattasi, bensì dalla qualità delle parti del contratto di credito». Infatti i crediti pecuniari che costituiscono l’oggetto delle controversie di cui al procedimento principale sono derivati da contratti di credito al consumo conclusi da tre consumatori e dalle tre parti convenute nelle cause riunite nel procedimento principale;
b) l’art. 16 della direttiva assegna al consumatore che rimborsa anticipatamente il diritto di godere di una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi «per la restante durata del contratto». La nozione di «costo totale del credito» (di cui all’art. 3, lett. g dir.) non contiene alcuna limitazione relativa alla durata del contratto di credito al consumo e la dizione «restante durata del contratto» potrebbe essere interpretata sia nel senso che i costi interessati dalla riduzione del costo totale del credito sono limitati a quelli che dipendono oggettivamente dalla durata del contratto; sia nel senso che sono limitati a quelli presentati dal soggetto concedente il credito come riferiti ad una fase particolare della conclusione o dell’esecuzione del contratto. Le traduzioni adottate nelle discipline dei diversi paesi non aiutano a risolvere i dubbi;
c) occorre quindi avviare un procedimento interpretativo che non si limiti al tenore letterale, ma tenga conto del contesto e degli obiettivi perseguiti dalla norma; il contesto è dato dal menzionato passaggio dalla prima alla seconda direttiva e dalla sostituzione, da parte di quest’ultima, della nozione generica di «equa riduzione» con quella, più precisa, di «riduzione del costo totale del credito», con l’aggiunta che tale riduzione deve riguardare «gli interessi e i costi»; l’obiettivo è quello di garantire la tutela del consumatore contraente debole con disposizioni che «non possano essere eluse attraverso particolari formulazioni dei contratti»;
d) l’effettività della tutela risulterebbe sminuita qualora la riduzione del credito fosse limitata ai costi recurring, dato che «i costi e la loro ripartizione sono determinati unilateralmente dalla banca e che la fatturazione di costi può includere un certo margine di profitto»; inoltre, la banca, per ridurre l’ammontare della restituzione, «potrebbe essere tentata di ridurre al minimo i costi dipendenti dalla durata del contratto»;
e) del resto, rimborsare pro quota tutti i costi anticipati non produce penalizzazioni sproporzionate al soggetto concedente il credito, i cui interessi sono presi in considerazione, da un lato, dall’art. 16, par. 2 della direttiva, che prevede un indennizzo del mutuante per gli eventuali costi direttamente collegati al rimborso anticipato del prestito; e, dall’altro, dal par. 4, lett. b) del medesimo articolo, a tenor del quale gli Stati possono prevedere che «il creditore può eccezionalmente pretendere un indennizzo maggiore (al limite massimo dell’1% del credito rimborsato) se è in grado di dimostrare che la perdita subita a causa del rimborso anticipato supera detto importo».
«Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione pregiudiziale dichiarando che l’art. 16, par. 1, della direttiva 2008/48 deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore».
Si è di fronte a una sentenza interpretativa di una norma comunitaria che non solo vincola il giudice del rinvio, ma che esplica i suoi effetti anche oltre questo perimetro, proprio perché si è pronunciata su elementi di diritto: altri giudici, nonché le amministrazioni nazionali, «saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come interpretate dalla Corte, determinando conseguentemente anche i diritti di cui i singoli possono godere»; essa inoltre «obbliga gli Stati membri ad adottare tutte le misure idonee ad adeguare il proprio ordinamento alla norma di diritto dell’Unione così come interpretata dalla Corte, pena la violazione del principio di leale collaborazione e conseguente obbligo di risarcire i danni».
Quanto agli effetti nel tempo di una decisione interpretativa pregiudiziale, si è di fronte a una efficacia ex tunc, in quanto essa definisce la portata della norma dell’Unione così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata fin dal momento della sua entrata in vigore, cosicché deve essere applicata anche a rapporti giuridici sorti e costituiti anteriormente alla sua pronuncia.
L’impostazione fatta propria dalla decisione in commento diverge da quella seguita dagli intermediari italiani e dalle stesse autorità di vigilanza, nonché dagli intermediari di altri paesi comunitari, Polonia compresa, stando almeno al menzionato rilievo per cui la Corte avrebbe seguito l’opinione minoritaria. Al di là della circostanza che la tesi scartata dal giudice europeo appare più convincente – e si cercherà di spiegarlo più avanti – non v’è dubbio che essa sia stata seguita dalla Banca d’Italia, cui spetta il compito di emanare disposizioni di corredo dei principi racchiusi nelle norme primarie, di ispirazione per lo più comunitaria.
Così nella nota del 10 novembre 2009 la Banca d’Italia spingeva sulla necessità di chiarire in contratto la natura ricorrente o meno delle commissioni applicate, ai fini ovviamente della retrocessione in caso di rimborso anticipato; analogo rilievo si poneva in luce in quello del 7 aprile 2011; negli “Orientamenti di vigilanza” sui finanziamenti contro cqs si precisa in modo ancor più chiaro che «le Disposizioni [quel complesso di norme primarie e secondarie che disciplinano l’operazione] richiedono che la documentazione precontrattuale e contrattuale indichi in modo chiaro i costi applicabili al finanziamento; in relazione al diritto del consumatore al rimborso anticipato, vanno anche indicate le modalità di calcolo della riduzione del “costo totale del credito”, specificando gli oneri che maturano nel corso del rapporto (c.d. “recurring”) e che devono quindi essere restituiti al consumatore se corrisposti anticipatamente e in quanto riferibili ad attività e servizi non goduti» (par. n. 12).
Nel senso ora detto si sono orientati l’Arbitro Bancario Finanziario e la giurisprudenza ordinaria: il problema era nella valutazione della natura della commissione, ma sulla circostanza che solo le commissioni recurring fossero suscettibili di restituzione, con la conseguenza coerente che, qualora nei contratti di finanziamento per delegazioni di pagamento e cessioni di quinto stipendiale non venisse contemplata la ripartizione tra oneri e costi up front e recurring (ovvero fosse contemplata in modo confuso e non chiaro), in caso di estinzione anticipata il rimborso proporzionale avrebbe riguardato tutte le commissioni, automaticamente considerate, per opacità, recurring. Sulla medesima linea di pensiero si è attestata la dottrina.
La tesi che la Corte di giustizia ha giudicato non coerente con la ratio della direttiva è quindi quella alla quale aveva aderito non solo il diritto italiano, ma anche quello di altri Paesi, ritenendola ovviamente sufficiente a garantire gli interessi dei consumatori che estinguevano anticipatamente il prestito. Dopo oltre dieci anni di applicazione, la Corte di giustizia intende prospettare un’interpretazione contraria a quella che ormai si è consolidata nella maggior parte dei Paesi.
Tuttavia, giunti a questo punto e tenuto conto delle considerazioni sopra richiamate, poco sembra vi sia da fare per evitare di ribaltare la prassi finora seguita e aderire alla nuova tesi, con una serie di conseguenze significative. Giudici, amministrazioni e cittadini devono quindi rispettare l’interpretazione e il legislatore intervenire per trasfonderla in una disposizione di recepimento che fosse chiaramente orientata in questo senso. Ove si sia però convinti che l’interpretazione de qua sia suscettibile di essere “smontata”, forse ci si potrebbe attendere contenziosi nuovi per verificare se essa viene replicata dalla Corte di giustizia in analoghe fattispecie; insomma per accertare che una simile posizione non sia un incidente di percorso ma una convinta presa di posizione fondata, oltre che su orientamenti socio-consumeristici, su solidi argomenti giuridici.
Occorre ora soffermarsi sul punto cruciale più volte accennato: perché il ragionamento della Corte non convince. Per brevità si procederà seguendo gli argomenti della sentenza, in apertura sintetizzati.
a) la Corte afferma che, quando si controverte fra banche e società cessionaria dei crediti derivanti da un’operazione finanziaria di consumo, cioè fra professionisti, ma è dell’operazione che si discute i criteri di restituzione in caso di estinzione anticipata; quando il giudice dovesse riconoscere la banca tenuta a restituire una somma a seguito dell’estinzione, questa andrebbe ai professionisti cessionari. Si badi bene, cessionari, non mandatari rappresentanti alle liti dei titolari del credito.
È un’affermazione processualmente discutibile e, se ritenuta scorretta, in grado di far cadere la legittimazione passiva della società di servizi cessionaria dei crediti e quindi l’intero giudizio;
b) la frase di dubbio significato che avrebbe necessità di essere chiarita è che il consumatore, in sede di rimborso anticipato, ha diritto «ad una riduzione del costo totale del credito, che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto». Orbene, il punto qualificante della frase è «per la restante durata del contratto», che sta a significare che sia gli interessi sia i costi – cioè le commissioni già pagate – debbono essere restituiti nei limiti in cui non hanno più ragion d’essere a seguito del venir meno del rapporto. Debbono essere quindi sensibili al trascorrere di quel periodo che il rimborso anticipato ha impedito trascorresse.
Del resto non si comprende come l’interpretazione possa essere diversa sol che si rifletta sul fatto che il meccanismo prodotto dall’art. 125-sexies tub e dall’art. 16 direttiva produce un esito restitutorio e la restituzione può aversi se colui che la chiede dimostra di aver dato qualcosa indebitamente: e l’indebito nella fattispecie in esame non può che aversi per quelle somme corrisposte a fronte di servizi durevoli, che cioè sono dovute «per la restante parte del contratto», quella successiva all’estinzione.
Non può conteggiarsi in restituzione una commissione up front per il semplice rilievo che è di per sé fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 16 della direttiva, perché non può residuare nulla da retrocedere «per la restante parte del contratto»;
c) non è affatto vero che fra la vecchia e la nuova versione sul punto in esame vi sarebbe una soluzione di continuità, quasi che «equa riduzione» e «riduzione del costo totale del credito», riferita a «gli interessi e [a]i costi», siano concetti che si elidono fra loro e la «riduzione del costo» potrebbe non essere «equa». Più semplicemente, la nuova formulazione declina la precedente in assoluta sequenza logico-giuridica, tanto è vero che l’interpretazione avversata dalla Corte si era delineata sotto il vecchio testo.
La rassegna degli interventi della Banca d’Italia sopra richiamata e gli orientamenti dell’ABF mostrano come le distinzione fra commissioni up front e commissioni recurring sia anteriore al passaggio dalla prima alla seconda direttiva, a conferma che, almeno sul punto, vi è stata assoluta continuità;
d) l’interpretazione criticata sarebbe elusiva della finalità della norma di tutelare i consumatori perché, trattandosi di normativa standard, la controparte, cioè la banca, potrebbe aumentare le commissioni up front e diminuire le recurring, in tal modo diminuendo – e magari azzerando – quanto da restituire in sede di estinzione anticipata. Questa è una possibilità. Ma non è corretto sostituire una lettura presuntamente eludibile con una interpretazione manifestamente illogica, confondere disposizione e prassi scorretta, che spetta ai controllori (e alla magistratura) scovare e reprimere.
Con l’interpretazione portata avanti dalla Corte, basta alzare i tassi, farvi rifluire le commissioni e nulla si retrocede: anche qui dunque è in agguato l’elusione;
e) del pari d’effetto, ma priva di sostanza giuridica, è l’ultima argomentazione spesa: il danno che si produce alle banche non è sproporzionato e in ogni caso a ristorarlo ci pensa l’indennizzo previsto dagli ulteriori paragrafi dell’art. 16 della direttiva. A parte che è tutta da verificare la prima affermazione, che pare smentita dai primi calcoli, specie con riferimento a intermediari dedicati all’operatività di cui si discute; ma l’indennizzo è stato oggetto di una cura “dimagrante” sia in termini di quantità sia in termini di presupposti per ottenerlo (e proprio dal legislatore comunitario), sicché sono rari i casi in cui vi si possa far riferimento.
Di fronte a questo quadro comunitario, la Corte immagina che il legislatore nazionale possa aprire, in controtendenza, un varco nella disposizione di recepimento immaginando che l’indennizzo possa essere dilatato (nel quantum e/o nei suoi criteri di erogazione) a ragione dell’aumento dell’importo da restituire al consumatore in caso di estinzione anticipata.
Una strada a dir poco in salita, che sconterebbe la necessità di dimostrare di volta in volta quel che, almeno in principio, accade in ogni controversia (rimborso pro quota di tutte le commissioni, qualunque sia la loro natura) e che comunque non sarebbe facilmente né rapidamente percorribile, dovendosi intervenire per norma primaria.