REGOLE E MERCATO
Corporate governance: i pro e i contro

Un confronto tra Consob, Assonime e Comitato per la Corporate Governance fotografa lo stato dell'arte nel governo delle società quotate in Borsa. Con un bilancio: molti sforzi ma pochi risultati ottenuti. Ma anche una risposta chiara da parte dell'autorità di vigilanza

Paola Pilati

Le regole delle corporate governance funzionano? Hanno cioè raggiunto l’obiettivo di dare maggiore trasparenza all’azione delle società quotate? Le hanno rese più aperte e sensibili alle istanze e alle aspettative di tutti gli azionisti, anche quelli che non hanno strumenti per farsi valere, e più aperte anche al contesto sociale in cui agiscono, cioè degli stakeholder? Insomma: darsi delle regole di corporate governance ha reso le società più attraenti sul mercato?

Erano queste le domande sottintese alla presentazione, in Consob, di tre rapporti sul tema: il decimo Rapporto dell’autority sulla Corporate governance curato da Nadia Linciano, il rapporto sullo stesso argomento confezionato dall’Assonime e quello firmato dal Comitato italiano per la corporate governance, nato proprio per promuovere il “buon governo” societario.

Ebbene, usando la metafora del bicchiere, la risposta agli interrogativi esposti è stata che il bicchiere è mezzo pieno per Consob e Comitato, è mezzo vuoto per Assonime.

L’identikit delle società italiane quotate in Borsa non è molto cambiato nei suoi tratti essenziali in dieci anni: la proprietà famigliare è sempre quella numericamente più rilevante (il 63 per cento dei casi), anche se in termini di capitalizzazione sono le società a controllo pubblico e quelle di cui non è possibile identificare un azionista di controllo quelle che pesano di più (rispettivamente il 35 e il 36 per cento).

È cambiato invece, proprio in virtù del codice di autodisciplina, lo spazio dato agli azionisti di minoranza e gli indipendenti, che è cresciuto, si sono diffusi i comitati per il controllo rischi e delle remunerazioni, che rafforzano e danno trasparenza alla governance (proprio sulle remunerazioni si è svolto uno scontro clamoroso tra azionisti di maggioranza e minoranza all’ultima assemblea di Tim). Il comitato sulla sostenibilità – uno degli ultimi impegni introdotti nel codice di autodisciplina – è già stato adottato in oltre il 50 per cento delle società.

Un vero boom è quello della rapida diffusione del comitato nomine (ce l’ha l’88 per cento delle quotate), che si sta dimostrando il terreno su cui gli azionisti non di controllo stanno imparando a esercitare al meglio il loro potere. Lo dimostra la battaglia in corso sulle nomine appena decise dal ministero del Tesoro per il vertice dell’Enel e in particolare del suo presidente: Paolo Scaroni, designato dal governo, viene contestato in quel ruolo dagli investitori istituzionali che presentano un altri candidato e che sono intenzionati a dare filo da torcere nella prossima assemblea, il 10 maggio.

Si può insomma concludere che le politiche per aggiornare la governance funzionano.

Ma lo spazio di intervento per le minoranze che le regole di governance via via introdotte nel codice consentono, insieme ai rispetto dei nuovi criteri ESG, non bastano per ridare smalto al mercato italiano. Come ha ricordato il presidente della Consob Paolo Savona, nonostante l’Italia abbia un tasso di risparmio più che abbondante, la Borsa resta anemica. E non è forse un caso che, come testimonia proprio la ricerca Consob, si siano rarefatti negli ultimi anni gli investitori istituzionali, il cui numero nella Borsa italiana è arrivato a 55 contro i 65 del 2020.  Non è un buon segno: sia di interesse per la borsa in generale, sia per le società italiane in particolare – soprattutto perché a sparire sono stati in primo luogo i soggetti istituzionali esteri. Una fuga che ci rende sempre più marginali rispetto al resto d’Europa.

Dopo tanti sforzi di accountability il bilancio resta quindi deludente? Bisogna anche sottolineare che in parallelo allo slancio di apertura e di best practice (oltre all’obiettivo sostenibilità, l’altra mission recente introdotta nel codice di autodisciplina è quella del dialogo con gli azionisti) c’è stato anche uno slancio verso una maggiore presa sulle società: è cresciuta in media la quota di controllo detenuta dall’azionista principale e sono aumentati i casi di adozione del voto maggiorato, che dà più potere all’azionista di lungo corso, di fatto quello di controllo, sistema che è stato introdotto in Italia per convincere le imprese a restare qui invece di andare a conquistarselo in Olanda.

Secondo il rapporto Assonime presentato dal vicedirettore generale Marcello Bianchi la concentrazione del controllo societario è, alla prova dei fatti, cosa buona, perché chi ce l’ha si mostra statisticamente più efficace nel seguire le prescrizioni del codice di autoregolamentazione, in particolare quelle sulla sostenibilità.

Eppure a molti la possibilità di rafforzare il ruolo dell’azionista principale in patria non è bastata. Dal 2013 si sono volatilizzate dalla Borsa italiana società per 100 miliardi di valore, per la metà andate all’estero, per l’altra metà decidendo il delisting. Quelle che restano, subiscono un altro “divide”: solo a loro, in quanto società italiane, si applica il codice di autodisciplina, mentre le società straniere che popolano la Borsa italiana non ne sono soggette e sono molto cresciute di peso: solo tra le blue chips private non finanziarie le straniere rappresentano oltre il 60 per cento della capitalizzazione, ma il codice di autodisciplina non le riguarda.

In conclusione, dice Assonime, le prassi di governance ci sono, le società le applicano bene ma questo sforzo non è stato ripagato né nel migliorare l’immagine del mercato italiano né nell’aprire il mercato dei capitali per renderlo più abbondante. Anzi, quelle prassi mostrano un rovescio della medaglia: il quadro regolatorio viene visto come troppo rigido e oneroso rispetto agli altri mercati, ed è questo che condanna la nostra borsa al sottosviluppo.

Si indovina dunque una delusione strisciante verso la corporate governance. Nessuno lo afferma esplicitamente, ma il messaggio che arriva da parte del mondo delle società è che la fatica fatta per la trasparenza porta a risultati frustranti: pur essendo un codice di autodisciplina, e quindi libero, la giustizia ordinaria (in alcune sentenze della Cassazione) lo interpreta come obbligatorio e sanziona chi sgarra; la preoccupazione del rispetto formale degli obblighi del codice si trasformano in prassi troppo complicate e farraginose; alcune prescrizioni, come quelle della modalità di tenuta dell’assemblea, andrebbero lasciate alla libertà della società invece di essere troppo rigide (l’ha ricordato la presidente dell’Assonime Patrizia Grieco), e via dicendo.

Alla fine, c’è voluta la bacchettata della vicepresidente della Consob Chiara Mosca per raddrizzare la piega che aveva preso il convegno. «La buona governance non è compliance alle regole», ha ricordato. Quindi meno sofismi sulle procedure e più concretezza negli obiettivi che la corporate governance sottende. In secondo luogo, Mosca ha ricordato che prima del Codice Preda, testo fondante dell’autodisciplina in materia di corporate governance in Italia, ci sono i principi Ocse che dal 1999 a oggi, con aggiornamenti successivi, hanno eletto la corporate governance – e quindi trasparenza, accountability, dialogo con gli investitori – a obiettivo di policy per il miglioramento della crescita economica e per l’allocazione migliore delle risorse, a cui si è aggiunto di recente l’obiettivo di lungo termine che è la sostenibilità.

Anche il Codice Preda di autodisciplina è nato nel 1999. Rifletteva gli stessi principi dell’Ocse, aveva come molla il rendere più conveniente l’accesso al mercato. Era un’occasione di crescita, sviluppo, non di procedure e regole ulteriori. A voler leggere tra le righe, l’invito di Mosca alle società quotate è solo uno: anche se il codice di autodisciplina non è certamente l’unico ingrediente per la crescita del mercato, c’è una convergenza europea che ne vede l’utilità per obiettivi che prescindono, ma includono, la salute delle imprese stesse. Quindi, care società quotate, tocca anche a voi fare la vostra parte, senza lagnarvi troppo.