RAPPORTO CONSOB
Corporate governance: cosa succede nella stanza dei bottoni

Dal capitalismo familiare agli investitori istituzionali. Dalla presenza femminile record al dissenso sulle retribuzioni dei manager. Ecco come funziona il governo delle società quotate

Paola Pilati

Nel nuovo Rapporto sulla Corporate governance, appena pubblicato sul sito della Consob, la fotografia del mondo delle imprese quotate, dei loro azionisti di controllo e degli amministratori non mostra grandi cambiamenti rispetto alle sue caratteristiche da sempre dominanti – dal capitalismo di impronta soprattutto familiare alla rete degli interlockings diffusi -, tranne che per alcuni dettagli. Che non sono secondari: vale a dire la manifestazione aperta di dissenso sulle remunerazioni da parte di un fronte degli azionisti e la crescita della presenza femminile in termini non solo quantitativi ma anche qualitativi.

Il capitalismo all’italiana si conferma a controllo prevalentemente famigliare: i principali azionisti di riferimento sono famiglie per il 64 per cento delle imprese quotate (144 imprese su un totale di 225, il 27,2 dell’intera capitalizzazione del mercato). Si tratta in prevalenza di imprese di minori dimensioni (incluse nell’indice Star o non incluse in alcun indice) e operanti nel settore industriale. Lo Stato, sia sotto forma di Tesoro o di enti locali, controlla il 10 per cento delle società, che hanno dimensioni maggiori della media e sono soprattutto nel settore dei servizi (dove arriva al 67,5 per cento dell’intera capitalizzazione del settore). Per il 19 per cento delle imprese, invece, non c’è quello che viene definito un “ultimate controlling agent”, l’ azionista che ha l’ultima parola: si tratta per lo più di imprese finanziarie.

Gli investitori istituzionali con una partecipazione rilevante sono in maggioranza stranieri: 65 contro 19 italiani, e se una volta a fare shopping sui listini la parte del leone era di banche e assicurazioni (55 partecipazioni nel 2011), ora queste si sono quasi dissolte (sono scese a 14) e il loro posto è stato preso da asset manager (in 40 aziende), private equity, venture capital e fondi sovrani (29 partecipazioni rilevanti), i nuovi protagonisti della scena finanziaria.

Nello stesso arco di tempo, 2011-2020, sono diminuiti i gruppi piramidali (era organizzato così il 16,2 per cento delle società quotate, ora solo il 10,7), e sono esplose via via le società “stand alone” (dal 73,8 al l’84 per cento), e ancora più vistoso è stato il cambio di peso in termini di capitalizzazione: i primi, che rappresentavano il 51,6 per cento della capitalizzazione totale del mercato, sono dimagriti della metà al 21,5; le seconde hanno acquistato peso dal 29,6 al 72,8. È il tramonto dei conglomerati.

La struttura del governo societario conserva in grande maggioranza il modello tradizionale (in 220 su 225 casi), con un consiglio d’amministrazione, un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza variamente assemblati. E con l’inveterata abitudine del fenomeno dell’interlocking. In media in ciascun board almeno due amministratori hanno anche incarichi in altre società quotate, che diventano tre nelle società più grandi, disegnando così un reticolo di relazioni e di legami personali che configurano quel potenziale rischio di sconfinare nella collusione.

È entrando nella stanza dei bottoni che si incontrano le prime sorprese. Non tanto per la presenza, ormai piuttosto abituale, di amministratori di minoranza e indipendenti, quanto per la diffusione dei piani di successione riguardanti il Ceo, gli amministratori esecutivi e altri vertici aziendali, abitudine che nel 2011 riguardava solo 7 società, oggi 67, cioè il 30 per cento del totale e il 77 per cento della capitalizzazione totale. Altra novità, la cifra record della presenza femminile nei consigli d’amministrazione: il 41 per cento, un livello mai toccato prima.

Su 2021 componenti degli organi sociali delle società quotate italiane 821 sono donne, dalle 184 che erano nel 2011. Merito delle leggi sulle quote di genere (come la Golfo-Mosca che chiedeva di aprire alle donne un terzo del board, elevato con la legge 160 del 2019 ai due quinti del board). Merito anche delle donne stesse, che hanno, più degli uomini a cui siedono accanto, un titolo di laurea (soprattutto in economia e giurisprudenza), sono più degli uomini professioniste e accademiche, sono preferite molto spesso più degli uomini per il ruolo di amministratori indipendenti (tre casi su quattro) o nominate in rappresentanza di soci di minoranza (in 71 società ad elevata capitalizzazione).

Cammino da fare ce n’è ancora molto. Sono solo 16 le donne che sono arrivate al vertice, conquistando la poltrona di amministratore delegato, e 30 siedono su quella di presidente di società quotate. Ma sono le donne che si dimostrano portatrici degli skill più importanti per le nuove sfide della modernità: le competenze in materia di sostenibilità e di digitalizzazione.

Una novità del Rapporto di quest’anno è infatti il censimento delle competenze in questi ambiti degli amministratori delle società medio-grandi appartenenti agli indici Ftse Mib, Mid Cap e Star, da cui emerge che a fine 2020 la quota di incarichi di amministrazione coperti da membri con competenze in materia di sostenibilità è pari al 14,6 per cento e del 16 per cento quanto a competenze digitali. Ebbene, sulle 139 società medio-grandi analizzate, le 78 che hanno istituito un comitato sostenibilità vedono le donne surclassare gli uomini in termini di presenza, come pure tra gli amministratori con competenze digitali.

Altro aspetto indagato dal Rapporto Consob è la partecipazione alle assemblee. Interessante, in particolare, il voto sulle politiche di remunerazione delle società quotate, che dal 2020 è diventato vincolante. Nel 2021 le politiche di remunerazione sono state approvate dai due terzi del capitale sociale, ma ha trovato spazio anche un certo dissenso: l’8 per cento del capitale sociale, in gran parte rappresentato dagli investitori istituzionali, le ha bocciate. E quando si è trattato di esprimere il voto – questo solo consultivo – sui compensi corrisposti l’esercizio precedente, i voti favorevoli sono stati sì la maggioranza, cioè il 66 per cento, ma il dissenso degli investitori istituzionali ha toccato il 36 per cento. Un avvertimento e un assaggio di quello che potrà accadere nei prossimi anni, una volta assimilata dagli azionisti l’abitudine a esercitare la nuova potestà sui super stipendi dei top manager?