Pubblichiamo in anteprima l'editoriale in uscita sul numero 1/2019 di "Minerva Bancaria". Per approfondire: convegno “Banking package: nuove sfide per le banche italiane”, il 14 marzo a Milano (https://rivistabancaria.it/wp-content/uploads/2019/03/Locandina_CER_Rap14-3-2019.pdf). Per iscriversi: redazione@editriceminervabancaria.it
Il 2019 si è aperto con il commissariamento di Banca Carige e la ricerca, per la banca commerciale ligure, di un acquirente in grado di allontanare lo spettro di una difficile scelta tra nazionalizzazione o liquidazione. Nello stesso periodo, la Popolare di Bari, è impegnata in un difficile aumento di capitale, richiesto dall’elevata percentuale di sofferenze nei suoi libri.
Nonostante gli indubbi progressi fatti nel 2017 e nella prima metà del 2018, nuove sfide sono dunque evidenti all’orizzonte per le banche italiane, in un contesto caratterizzato da una marcata riduzione delle prospettive di crescita economica nel paese, e da uno scenario internazionale indubbiamente più rischioso rispetto a un anno fa, come ben documentato dall’ultimo Global Financial Stability Report del Fondo Monetario internazionale.
L’Italia ha sperimentato una crescita economica minore della media dei paesi dell’area Euro negli ultimi 25 anni. Questo a causa soprattutto di una scarsa produttività, in particolare nel settore dei servizi, dell’inefficienza diffusa nella pubblica amministrazione centrale e locale, della lentezza della giustizia e di una specializzazione settoriale nella manifattura eccessivamente esposta alla maggiore concorrenza internazionale prodotta dalla globalizzazione. Le crisi finanziarie dei mutui subprime e dei debiti sovrani hanno avuto l’effetto di far perdere circa 10 punti percentuali di prodotto interno lordo in termini reali. Le due conseguenze immediate sono state un rapido e pericoloso aumento nel rapporto debito-Pil, già storicamente molto elevato e che oggi viaggia a livelli record (130%), e l’emergere di diverse situazioni di crisi in ambito bancario.
La banca italiana più antica, e una delle maggiori dal punto di vista dimensionale, il Monte dei Paschi di Siena, ha dovuto essere ricapitalizzato con denaro pubblico. Due banche locali di media dimensione, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca, nel ricco Nord Est, sono state salvate attraverso l’acquisto a costo zero da parte del primo gruppo bancario italiano (Intesa San Paolo), dopo esser state “ripulite” ancora grazie all’intervento pubblico, oltre che azzerando il valore degli azionisti storici. Già a fine 2015, 4 banche minori erano state soggette a risoluzione imponendo costi elevati ad azionisti e obbligazionisti, e durante tutto il periodo considerato altri interventi sono risultati necessari a favore di istituti operanti nel settore del credito cooperativo.
È senza dubbio vero che problematiche dello stesso genere si sono dovute affrontare anche in altri paesi, sia a seguito della crisi dei mutui subprime che della crisi dei debiti sovrani. Così come si può anche affermare che il costo totale degli interventi pubblici di ricapitalizzazione delle banche sono stati ad oggi minori in Italia rispetto, ad esempio, a Spagna e Germania, per non parlare dell’Irlanda e del Portogallo. Ma rimane il fatto che le banche italiane sono comunque afflitte da una forte incidenza di crediti deteriorati nei propri bilanci e dall’effetto negativo sulla redditività del livello eccezionalmente basso dei tassi di interesse.
Nel 2016, circa la metà dei crediti in sofferenza (NPL) nell’area Euro era riconducibile alle banche italiane. Parte della spiegazione può essere trovata anche in una cattiva gestione manageriale e in una insufficiente capacità di selezione dei prenditori di fondi, o addirittura nel riconoscere, spesso, l’esistenza di rapporti perversi a livello locale tra politica, sistema bancario e tessuto imprenditoriale. Ma una performance così deludente e grave non può non dipendere soprattutto dalla più intensa recessione economica sperimentata dal paese, nel 2008 e nel 2009, prima e, successivamente, dopo la crisi dei debiti sovrani.
A supporto di questa interpretazione, basta considerare il robusto miglioramento osservato, sia in termini di ammontare assoluto di NPL che di rapporto tra crediti deteriorati e totale dei finanziamenti erogati, nel 2017 e nei primi mesi del 2018. Tale rapporto è sceso nel terzo trimestre 2018 al 4,5% al netto delle rettifiche, rispetto al 6,3% di un anno prima, in concomitanza di un quadro macroeconomico appena più favorevole. Inoltre, determinante è stato: l’insieme di misure varate negli anni scorsi per velocizzare le cessioni: dalle procedure esecutive immobiliari, alla concessione di garanzie e non ultima la creazione di un vero mercato dei crediti deteriorati, sia con l’aumento dell’offerta da parte delle banche, grazie ad analitici database, costruiti su richiesta della vigilanza, sia della domanda, con la nascita e lo sviluppo di intermediari specializzati nell’acquisto di tali crediti.
Per quello che riguarda l’effetto sulla redditività dei tassi di interesse a zero o addirittura negativi, non vi è dubbio che questo sia indotto, in particolare, dal modello tradizionale di business bancario adottato dalla maggior parte delle banche italiane. Tale modello privilegia le relazioni commerciali creditizie rispetto all’erogazione di servizi di consulenza e di asset management e all’operatività finanziaria in proprio su strumenti finanziari e derivati. I cosiddetti rischi di livello 2 e 3, nel linguaggio regolatorio, associati a rischi sui mercati finanziari, sono infatti minori per le banche italiane rispetto a quelli presenti per le banche tedesche o francesi.
In assenza di un cambiamento profondo nell’approccio alla regolamentazione e alla vigilanza bancaria delle autorità europee, dalla Commissione all’EBA alla BCE, che inizi a considerare in maniera più bilanciata i rischi di mercato rispetto a quelli creditizi, le banche italiane (e quelle spagnole) continueranno ad apparire meno capitalizzate rispetto ad altri istituti europei. Se ciò rifletta effettivamente una loro reale maggiore rischiosità rimane tuttavia una tesi ancora tutta da dimostrare, come viene argomentato negli ultimi Rapporti Banche dal Centro Europa Ricerche.
Sicuramente, una caratteristica strutturale da superare nei prossimi mesi, per aumentare la solidità del Sistema bancario, in Italia ma anche in altri paesi dell’Eurozona, è la sua ridotta concentrazione. In uno scenario di forte competizione globale, in cui ancora per un certo periodo prevarranno tassi di interesse bassi, le economie di scala e di scopo sono necessarie per poter operare in modo profittevole. Una efficace unione bancaria in Europa richiede istituzioni bancarie solide, forti e veramente attive a livello internazionale, in diversi paesi dell’Eurozona, e al di fuori dei confini europei. Insieme a un migliore equilibrio tra banche medio – grandi, medie e piccole attive a livello locale in ogni paese, laddove tuttavia il concetto di locale dovrebbe superare quello oggi a volte utilizzato esclusivamente come sinonimo di “comune” o area geografica molto limitata.
In Italia, alcuni recenti interventi legislativi hanno già iniziato a riordinare il Sistema bancario in questa direzione. Nel 2015, una nuova legge ha richiesto alle banche popolari di maggiore dimensione (con una raccolta superiore agli 8,5 miliardi) di abbandonare la logica cooperativa di un voto per azionista (indipendentemente dal numero di azioni possedute) e di adottare la forma giuridica e le regole di governance standard per le società per azioni.
Nel 2016, una altra legge, questa volta più opportunamente emanata dopo un lungo e costruttivo, anche se a volte difficile, confronto con l’industria e l’accademia, ha richiesto alle banche di credito cooperativo e alle casse rurali di aderire ad un gruppo bancario cooperativo (istituto di nuova creazione in Italia) o ad uno schema di protezione istituzionale dotato di adeguate caratteristiche.
Entrambi gli interventi avevano l’obiettivo duplice di aumentare sia la stabilità che l’efficienza del Sistema bancario italiano, molto frammentato al pari di quello tedesco e francese, inducendo al tempo stesso una maggiore contendibilità degli assetti proprietari e facilitando le modalità di una eventuale nuova iniezione di capitale in caso di crisi. Il 2019 e il 2020 potrebbero essere gli anni giusti per verificare se l’evoluzione del Sistema bancario italiano seguirà effettivamente il sentiero tracciato con questi interventi normativi o rimarrà invece in uno stato non troppo diverso da quello odierno.