PRETESTI
Considerazioni impolitiche sul Next Generation EU

Analisi di come viene utilizzato il nuovo strumento a sostegno degli investimenti finanziato da obbligazioni emesse dall'Unione. E come spesso la narrazione nasconda la realtà

Oliviero Pesce

1) Secondo l’opinione corrente, il Next Generation EU è stato un grande successo per l’Unione; una innovazione epocale, che, a fronte delle minacce del Covid 19 e della recessione da esso indotta, ha annunciato e messo in atto un grande piano di investimenti, in larga parte incentrato sulla transizione verde – una grande chiamata alle armi per una causa ineludibile, anche se controversa – e, per la prima volta dopo il Patto di stabilità (che prevedeva una subito dimenticata crescita), basata sul dare piuttosto che sull’imporre austerità.                                                                                    

Fondata su di una assai rilevante emissione di obbligazioni comuni dell’Unione europea, da erogare ai paesi membri, su di un periodo di sei anni, in parte come prestiti, di durata trentennale e a tassi di interesse bassissimi, in parte come sovvenzioni. Contestuale innovazione, altrettanto epocale. A tale politica, si è accompagnata, sempre più rilevante, una nuova, e più accattivante, narrazione. I recalcitranti si sono affrettati a definire le misure, sia il NGEU sia le emissioni, straordinarie, in tutte le accezioni del termine, e quindi, per definizione, irripetibili.

2) Ma, se si guarda un po’ meglio, le sovvenzioni non sono tali. Sono semplicemente prestiti a tasso apparentemente zero; in realtà al tasso delle obbligazioni emesse dall’Unione europea. Essa infatti dovrà rimborsarle per intero e con gli interessi. Ora, mentre in un paese con centinaia di migliaia o milioni di abitanti, chi ottiene un sussidio può sperare di non essere lui a rimborsarlo, ma la fiscalità generale (ovvero le tasse altrui), in un gioco interstatale a 27 è molto probabile che, con qualche travaso, siano gli stessi percettori dei sussidi a doverli rimborsare. Tassonomicamente, hanno l’indubbio vantaggio di non essere inclusi tra i debiti degli Stati membri.                                                                                          

3) Inoltre il programma, di 806,9 miliardi di euro stanziati, sarebbe dovuto essere un programma corale, svolto da tutti gli Stati membri su di un periodo di sei anni: ma solo sette Stati membri (sui 27) si sono impegnati a utilizzare il totale di sovvenzioni e prestiti messi a loro disposizione per intero e il programma si è ridotto a poco più di 500 miliardi, il 62% del possibile. I prestiti concedibili in base alla parte più sostanziale del NGEU, il Dispositivo europeo per la ripresa e resilienza, 385,8 miliardi di euro, sono stati richiesti solo per 165,6 miliardi. Infatti numerosi stati membri non hanno voluto peggiorare la propria situazione debitoria, e, malgrado il rimborso dei prestiti inizi solo a partire dal 2028 e sia scaglionato sui successivi trent’anni (sino al 2058: da oggi, fa 35 anni), i fondi allocati sono stati solo 500 miliardi di euro. Anche se la Commissione si è salvata in corner, e intende fare uso del saldo inutilizzato delle proprie emissioni obbligazionarie per finanziare il programma REPowerEu, relativo a interventi “verdi” nel settore dell’energia, mediante misure finanziarie e legislative per costruire in Europa le infrastrutture e il sistema necessari alla prevista transizione. Anche questi fondi, ovviamente, andranno rimborsati.

4) I 500 miliardi, su di un periodo di sei anni, sono – se verranno erogati per intero – 83,3 miliardi l’anno, pari allo 0,57% del Pil 2022 dell’Unione europea, di 14.500 miliardi di euro. Gli 800 miliardi, sempre su sei anni, sono pari a 133,3 miliardi l’anno; sul Pil, lo 0,92%. E il programma REPowerEu non farà neppure parte per intero del medesimo sessennio. Fintantoché gli egoismi nazionali – nascosti dalla foglia di fico del tenere i conti in ordine – faranno sì che i necessari beni pubblici europei, inclusa magari una difesa comune, si possano creare con fondi pari allo zero virgola del Pil dell’Unione, essa non sarà che un Cavaliere inesistente. Di tale aspetto, naturalmente, la narrazione non fa cenno, salvo che per rarissimi interventi illuminati.                                                                                                      

5) I fondi non sono stati allocati in misura equiproporzionale, ma in base allo stato di salute e all’indebitamento dei paesi interessati. Sotto questo aspetto, hanno ricevuto molto di più di quanto sarebbe loro spettato: la Grecia (16,68% del Pil), la Romania (12,15%), la Croazia, che pure non ha richiesto prestiti, e, tra i grandi paesi, l’Italia (10,79% del Pil). Malati europei, anche se non è politically correct fare menzione di questo aspetto, i quali dovrebbero essere grati. I paesi che hanno richiesto di utilizzare i prestiti oltre alle sovvenzioni, sono stati soltanto Italia, Polonia, Grecia, Romania, Portogallo, Slovenia e Cipro. In rapporto al Pil, hanno goduto del Piano in misura inferiore all’1% Germania, Olanda, Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda e Lussemburgo; in misura appena superiore il Belgio. Questi ultimi Stati, forse qualche ragione nel richiedere parsimonia ai beneficati, la hanno. Tutti questi aspetti, dalla narrazione vengono dimenticati.

6) Lo NGEU è assortito da una fondamentale parte non finanziaria, per impegnare gli Stati membri ad effettuare una serie di riforme atte, si auspica, a far avanzare l’intera Europa verso tempi migliori e meglio raggiungibili obiettivi comuni. Le riforme sono stati discusse a fondo con i vari Stati membri; ma che tali riforme, che gli Stati avrebbero comunque dovute affrontare, siano viste come condizionalità loro imposte da Bruxelles, permette ai Governi più recalcitranti, o meno capaci, di fare vocale opposizione anche a quanto si sono impegnati a fare. E, come abbiamo visto, sulla politica, sempre più latitante, e persino sulle misure attuative (le policies), prevale ormai – a tutti i livelli – la narrazione.

7) Veniamo all’Italia. Paese essenziale per l’Unione europea, innanzitutto sul piano simbolico in quanto uno dei sei Stati fondatori, ma anche su quello assai più concreto dell’essere too big to fail, potrà fruire – se riuscirà ad utilizzare per intero i fondi del Next Generation EU – (Pnrr per gli Stati membri) – di fondi pari a 191,48 miliardi di euro, pari a loro volta al 10,3% del Pil italiano 2022 e, altresì, alla perdita di Pil dell’Italia nel biennio del Covid (1919 e 1920) rispetto ai trend del periodo. L’Italia produce all’incirca il 13% del Pil europeo, mentre la sua popolazione, in calo costante dal 2020 al 2023 (da 59,44 milioni di residenti del 2020 a 58,85 milioni nel 2023) è anch’essa pari al 13% circa di quella dell’Unione (di circa 448 milioni di persone). Ma, sugli 806,9 miliardi del programma inizialmente previsti, la sua quota è pari al 23,7%; sui 500 miliardi effettivamente allocati, del 38,3%.

Tuttavia l’Italia, con qualche frequenza, invece di essere grata per questo trattamento preferenziale, lamenta di essere lasciata sola. Anche rispetto alle immigrazioni, che certamente sono inferiori a quelle della Germania e della Francia e, per testa, anche a quella di paesi più piccoli, in particolare – dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina – della Polonia e di altri paesi dell’Est europeo. L’allocazione ricevuta, su sei anni, è pari, in media, a 31,9 miliardi di euro; ovvero all’1,7% del Pil di ciascun anno (a oggi di 1.909,2 miliardi di euro) e al 3,2% della nostra spesa pubblica annuale (nel 2022 di 998.487,54 milioni di euro).

Oggi si teme che, per stabilizzare il nostro debito pubblico, sarà necessario tagliare la spesa pubblica, nei prossimi anni, di un 10% (vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle). Se invece di effettuare, com’è d’uso, tagli a pioggia, o a carico della Sanità pubblica, si effettuasse una vera spending review, si eliminassero mance e sussidi concessi a varie lobbies, e si destinassero i risparmi così ottenuti ad investimenti fissi, capaci di incrementare il Pil e rendere più realistico il rientro del debito, avremmo un reale progresso.

8) In quest’ambito non è irrilevante ricordare che l’Art. 81 della Costituzione, che la  narrazione tende a dimenticare (ma non lo dimenticano i mercati), recita (le sottolineature sono mie):                                                                        

Primo comma. Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

Secondo comma. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.

Terzo comma. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.

Sesto comma. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale.

Si pensi, in quest’ottica, alla diatriba in corso sul Ponte di Messina, progetto avviato negli anni Cinquanta del secolo scorso e da allora mai attuato, forse per ragioni tecniche ineludibili. Questa norma dovrebbe aiutare a vietare progetti puramente «elettorali». Per finanziare questi ultimi sarà necessario fare ricorso al «pizzo di Stato» e «mettere le mani nelle tasche degli italiani». Non esistono alternative praticabili.

9) Chiudiamo con due codicilli, tra loro connessi. Sembra essere opinione corrente che la transizione verde troverà tra i maggiori oppositori il settore agricolo. In media, nell’Unione, l’agricoltura dà origine al Pil per 1,7%, e gli addetti al settore sono pari al 3% della popolazione attiva. Essi sono largamente sussidiati dal bilancio europeo, che per quasi il 40% ad essi è dedicato. Non dovrebbe essere troppo difficile assicurarsene la lealtà – anche tenuto conto del loro numero esiguo.                                         

Quanto all’Italia, il contributo al Pil dell’agricoltura è di circa il 2,2%; gli occupati del settore (815.000) sono pari al 3,45% del totale degli occupati (circa 23,6 milioni). È evidente, dalle due cifre, come la produttività degli occupati in agricoltura sia bassa: essi dovrebbero essere sussidiati, in cambio di prestazioni di interesse pubblico nel campo della gestione del territorio, anche sul piano idro-geologico, che essi occupano per il 48% dell’intera superficie del paese. Inoltre utilizziamo annualmente circa 500.000 immigrati regolari, mentre non sappiamo gestire, com’è ormai evidente, il problema degli 150-170.000 immigrati cosiddetti clandestini. Un loro impiego nella gestione del territorio, dopo adeguata formazione, nel ripopolamento dei paesi e delle zone che nel mondo moderno vengono vieppiù abbandonate, contribuirebbe a risolvere una serie di problemi sinora non adeguatamente affrontati, neppure dal Pnrr.