La parola al dottore commercialista
Composizione negoziata della crisi d'impresa: il bilancio a cinque mesi dall'introduzione è deludente
Francesco Andrea Falcone e Paola Piantedosi
Falcone
Piantedosi

Non decolla il sistema di misure pensato per rivoluzionare, almeno nelle intenzioni, il complesso modello di gestione della crisi d’impresa in Italia. A certificare lo stallo delle misure di riforma è Unioncamere, che ha tracciato, lo scorso 22 aprile 2022, un primo bilancio, non proprio lusinghiero, dell’applicazione della più recente di tali misure: la “composizione negoziata della crisi”, introdotta con la ormai consueta finalità di disincentivare il ricorso al giudice, in questo caso quello fallimentare, e prevenire, con l’ausilio di un esperto, il deflagrare della insolvenza nelle nuove forme liquidatorie del patrimonio aziendale, ove ne esistesse ancora uno.

In verità, l’entrata in vigore di una revisione organica del sistema di norme dettate in materia di crisi di impresa la si attendeva da alcuni anni e precisamente dal 2019, ma, a causa dei rinvii succedutisi a seguito della Pandemia da Covid19 e degli effetti da questa determinati sulla economia del nostro Paese, la piena attuazione della “Riforma Rordof” potrà completarsi solo questo anno.

La ratio della riforma sarebbe quella, nell’intento del legislatore, di risolvere una serie di distorsioni generate nel sistema dalla sovrapposizione delle originarie norme del diritto fallimentare italiano con le diverse rivisitazioni intervenute, ma pure con la nuova concezione d’impresa, assunta sia in Italia che globalmente, ed in specie con il superamento della raffigurazione stigmatica riconosciuta in danno del fallito.

La novella normativa si ripropone, infatti, principalmente la predisposizione di misure atte a garantire, per quanto possibile, la prosecuzione dell’attività e, segnatamente, la prevenzione del dissesto. Solo in ultimo, la liquidazione del patrimonio aziendale. 

La “Riforma Rordof” ha, inoltre, il pregio di assimilare in un corpo unico le disposizioni sul dissesto, racchiudendo in sé anche quelle intervenute nel 2012 con la Legge sul Sovraindebitamento, misura la cui applicazione ha trovato moltissime difficoltà interpretative e di merito, rispetto alla sua struttura teorica.

Nel perdurare della complessa gestione della riforma sulla crisi d’impresa, una delle sue misure ha, tuttavia, avuto introduzione già da cinque mesi, sebbene con risultati nient’affatto lusinghieri.

La composizione negoziata della crisi, entrata in vigore con il D.L. 118/2021, convertito nella legge n. 147 del 21 ottobre 2021 (G.U. n. 162 del 23 ottobre 2021),  è, di fatti, uno strumento teso a scongiurare in forma anticipatoria il ricorso al tribunale fallimentare, affidando a una figura terza, l’esperto, la funzione di aiutare l’imprenditore a superare le difficoltà, cercando di fare incontrare le esigenze del ceto creditorio con la reale condizione nella quale versa l’impresa, incentivata a ricorrere a questa forma stragiudiziale di risoluzione grazie a un sistema premiante sotto il profilo delle responsabilità penali.

L’accesso alla misura avviene mediante istanza telematica rivolta al sistema camerale italiano, che, a sua volta, ha il compito di provvedere a nominare la figura dell’esperto ed avviare una procedura, il cui esito, tuttavia, si rivela sin da subito incerto. E questo non solo per ragioni sottese alla labile connotazione dei poteri attribuiti al compositore della crisi, che potrebbero ridurlo alla dimensione di un advisor in luogo di quella propria di facilitatore.

A cinque mesi dalla introduzione della misura, infatti, solo 175 domande sono pervenute presso le Camere di Commercio Italiane ed il loro esito è pure alquanto incerto. 

Un numero troppo esiguo, quindi, che in parte dipende dalla complessità di accesso all’istituto, anche per il professionista, in ragione della richiesta esperienza pregressa e formazione specifica, ed in parte dalla reticenza dell’imprenditore ad ammettere e rendere pubblico il verificarsi di un’insolvenza.

L’accesso alla misura rilascia, infatti, necessariamente informazioni sul mercato che possono spaventare pure i creditori non già azionatisi. Inoltre, quasi sicuramente la composizione negoziata difficilmente può interessare grosse strutture imprenditoriali, le quali probabilmente preferiranno l’adesione ad un concordato, in ragione del più difficile buon esito di una mediazione preventiva con un più numero di creditori da raccordare.

Non può, poi, sottacersi l’oggettiva difficoltà a reperire i documenti necessari per richiedere la nomina dell’esperto, con particolare riferimento al certificato unico dei debiti tributari e di quelli contributivi, che, per legge, dovrebbero essere rilasciati entro 45 giorni dalla presentazione dell’istanza, ma che, nella prassi, sono resi disponibili con notevole ritardo rispetto al termine anche a causa del momento di difficoltà di numerosi uffici pubblici in uscita dalla crisi pandemica.

Ulteriore criticità è correlata all’inesistenza di poteri dissuasivi dell’esperto rispetto al ceto creditorio, soprattutto quando è composto da soggetti di natura pubblica.

Lo scarso appeal di questa misura risiede, dunque, non solo nei suoi limiti di funzionamento, ma potrebbe essere da ricercare anche nel disallineamento tra l’intervento legislativo e la fenomenologia della crisi. 

Occorrerebbe, in particolare, ripensare la figura dell’esperto, riconoscendo un tale ruolo ai professionisti che più da vicino conoscono l’impresa ed i suoi funzionamenti ed assegnando agli stessi maggiori poteri rispetto alle finalità di composizione tra le parti. 

Solo intervenendo significativamente su questo e gli altri vulnus della riforma si potrà, quindi, scongiurare l’acclararsi dell’inutilità anche di tale ultima misura.