In Filigrana

di Giuseppe G. Santorsola

Commissioni o fee per proteggere il risparmiatore?

La proposta comunitaria sulla distribuzione dei servizi finanziari, attualmente in discussione, porterebbe all'abolizione degli incentivi per la vendita dei prodotti alla clientela retail. Ma conviene al modello italiano di intermediazione del risparmio? Analisi del mercato com'è ora e come potrebbe diventare, con un'analisi comparata dei costi per paese e per patrimonio posseduto

Giuseppe Guglielmo Santorsola
santorsola

All’inizio del 2022 si è acceso un importante dibattito in merito al modello di servizio nelle scelte di business relative alla intermediazione del risparmio. La questione è in realtà più ampia in quanto la gestione delle risorse umane nel contesto della intermediazione finanziaria è in trasformazione dall’inizio del secolo, con una forte crescita dei rapporti contrattuali di non dipendenza quanto fondati su rapporti agenziali e di mandato senza rappresentanza.

Quasi 100.000 dipendenti in meno, ma circa due terzi di questo numero operano quali consulenti finanziari (albo OCF) o quali agenti o mediatori creditizi (albo OAM). Dato l’alto costo del lavoro (oltre 75.000€ pro capite), la soluzione commissionale è finalizzata alla riduzione dei costi operativi, soluzione indispensabile per il controllo complessivo della stabilità e della resilienza degli intermediari finanziari. Questo obiettivo è a monte della scelta di rivedere anche la struttura retributiva (o di remunerazione) delle reti commerciali.

Le considerazioni qui esposte si limitano peraltro solo ad approfondire il dibattito tra la soluzione commissionale e quella orientata verso il riconoscimento di soluzioni fee-only o incentive-based. Talune opinioni suggeriscono che la scelta non sia solo finalizzata alla riduzione dei costi o alla loro proporzionalità legata alla produzione di risultati in termini di fatturato o di stock di risparmio amministrato o gestito, quanto anche a consentire un più armonizzato accesso al mercato dei capitali con migliori condizioni competitive.

Dopo la pubblicazione di un report della KPMG e di uno studio di Oliver Wyman in materia, si è acceso il dibattito sulla validità o meno della proposta comunitaria di abolire gli incentivi. Il principale argomento di riferimento è costituito dalla consolidata tendenza della Capital Market Union, in particolare per quanto previsto dall’articolo 8 dell’Action Plan, che ha come obiettivo quello di creare un contesto più favorevole per far favorire gli investitori retail affinché abbiano una partecipazione maggiore al Mercato dei Capitali, nella convinzione che il grande risparmio a livello europeo possa contribuire con le proprie ampie risorse allo sviluppo sostenibile, l’orientamento che dovrebbe attrarre quantità progressivamente crescenti dei capitali per gli investimenti produttivi.

Le istituzioni di regolamentazione EBA, ESMA, EIOPA, nonché l’EFAMA hanno presentato al riguardo interessanti spunti di riflessione che guideranno inevitabilmente le soluzioni finali ma che hanno suscitato reazioni da parte degli operatori. Soprattutto da parte di quelli che vedrebbero influenzato il proprio modello di business, laddove prevale il modello banco-centrico rispetto a quello orientato ai mercati e governato in prevalenza da intermediari distributivi-indipendenti rispetto a quelli istituzionali che gestiscono le scelte di portafoglio del risparmio raccolto.

La direttiva MiFID è individuata da molti di questi ultimi soggetti quale strumento sufficiente per proteggere l’investitore retail. Altre forze in campo ritengono, sotto il loro punto di osservazione, che essa costituisca una scelta di principio apprezzabile che non concede sufficiente potere in assenza di regolamentazioni più frammentate con adeguati dettagli operativi. Per rendere effettivo l’ingresso nei mercati dei capitali agli investitori retail, la regolamentazione gioca un ruolo fondamentale in un contesto che – dati statistici alla mano – favorisce nettamente gli investitori istituzionali, il settore del private equity e le banche di investimento.

Le stesse statistiche evidenziano, per converso, che gli investitori retail hanno progressivamente abbandonato i principali capital markets “rifugiandosi” nel segmento del risparmio gestito accettandone i costi, ma non ritrovandone in numerosi casi adeguata soddisfazione in termini di risultati dell’investimento.

Una causa di tale atteggiamento è da rinvenirsi anche nella modesta trasparenza effettiva dei documenti che contengono l’insieme degli strumenti di comunicazione precontrattuale, nonostante le numerose modifiche intervenute nel corso degli ultimi anni per renderli maggiormente comprensibili, con migliore aderenza agli investimenti effettuati, soprattutto quando – nella maggioranza dei casi – la natura delle offerte è complessa, strutturata e fortemente condizionata dall’evoluzione spesso rapidissima degli scenari. È in questo contesto che si ipotizza che il sistema delle commissioni riconosciute alle diverse reti distributive e la presenza di inducement non sempre riconducibili all’opportunità di favorire migliori risultati per gli utenti finali (gli investitori retail appunto), non vada incontro alla tutela del contraente debole.

L’attività di consulenza indipendente (la pura advice) prevede invece un suo costo a carico del cliente finale ma abbatte i costi di distribuzione ex-ante, spostandone il loro sostenimento al momento in cui i portafogli suggeriti conseguano risultati e agganciandosi alla crescita del portafoglio nel lungo periodo.

Davanti a questo disegno si deve registrare (vedi il rapporto CONSOB SULLE SCELTE DI INVESTIMENTO DELLE FAMIGLIE ITALIANE, CULTURA FINANZIARIA, INNOVAZIONE E SOSTENIBILITÀ) un rifiuto da parte dello stesso investitore retail nel riconoscere il costo della consulenza nei suoi confronti, continuando a ritenerlo non accettabile in funzione di un bias comportamentale che lo individua come un costo ulteriore rispetto all’abitudine di pagare costi di sottoscrizione e costi di gestione definiti a monte nei contratti.

Pertanto, qualora effettivamente dovesse essere introdotto un divieto di incentivazione a livello di Unione Europea, l’impatto varierebbe quindi a seconda della normativa secondaria degli Stati membri, in base al prevalere dei modelli di distribuzione esistenti nei vari paesi.

Nel sistema banco-centrico (italiano, tedesco e francese), si correrebbe il rischio che, al venir meno delle incentivazioni, venga meno anche la convenienza della vendita di prodotti di terzi e le banche dovrebbero reagire privilegiando un’architettura chiusa, soluzione che comporterebbe il ritorno alle scelte del passato, prima della diffusa cessione delle società di gestione del risparmio e dell’allargamento dei contratti di contratti di distribuzione di prodotti gestiti da terzi, in particolare stranieri ed estero-vestiti.

Spostarsi verso un modello indipendente nell’area della gestione del risparmio, la soluzione largamente presente nel mercato statunitense e in quello britannico, è ipotesi per la quale le banche italiane non appaiono preparate né dotate della necessaria esperienza. Il settore italiano è notoriamente specializzato nel segmento della raccolta del risparmio e non in quello della sua gestione, con rare eccezioni nelle aree del wealth management e in quelle superiori HNWI e UHNWI.

Dobbiamo quindi domandarci se sussistano spazio e convenienza per lo sviluppo di sistemi orientati alla consulenza indipendente nei riguardi della citata clientela retail, profilo verso il quale si orientano alcune società di distribuzione che però risultano costose ed orientate in modo palese verso il sistema commissionale e verso il pagamento di management fees che non hanno a che vedere con quanto suggerito dalle ipotesi di revisione in corso.

Il modello fee-only non sempre è però più conveniente per l’investitore dotato di basse potenzialità di investimento. Nell’orizzonte a 5 anni il costo complessivo di un investimento è, a volte, superiore a quanto si paga con il modello basato sulle retrocessioni.

L’obiettivo della proposta comunitaria (peraltro ancora in via di analisi) è eliminare il modello “commission-based remuneration” a favore di quello “fee-based remuneration”. In altri termini, l’iniziativa – non diffusamente condivisa – si propone di abolire gli incentivi inseriti nei costi degli strumenti finanziari per remunerare, in alternativa, l’attività del consulente finanziario che “raccomanda” in modo personalizzato e non generico, un prodotto anche al di fuori di un contratto specifico di consulenza. Resta ovviamente in essere nel testo della proposta il pagamento di una fee per ricevere un servizio di consulenza finanziaria “indipendente”. Verrebbero ad avvicinarsi, sotto il profilo della remunerazione, le diverse attività regolate nel contesto italiano dalla disciplina MiFID II in vigore e classificate nell’ambito della normativa che regola la struttura dell’Organismo dei Consulenti Finanziari.

Resta la convinzione che l’industry italiana della distribuzione dei servizi e degli strumenti finanziari sia contraria alle ipotesi qui analizzate, perché ne destabilizzerebbe gli assetti sia per le società sia per gli agenti, i mandatari e i dipendenti. Lo testimoniano i pareri espressi da Abi e Assoreti e, al contrario, da Ascofind e Nafop. È opportuno non solo considerare il diverso peso delle quattro associazioni in termini di rappresentatività delle forze in campo. Bisogna tenere conto anche del parere delle società di gestione italiane ed estero-vestite e delle case di investimento straniere, che si troverebbero anche esse costrette a riconsiderare le proprie strategie non dedicate alla fase distributive, salvo pochissime e note eccezioni. 

Nello studio della KPMG l’analisi evidenzia ipotesi che costringerebbero l’intera “industry” della distribuzione dei prodotti e dei servizi finanziari a rivedere profondamente strategie, assetti organizzativi e disciplina contrattuale dei rapporti con le diverse tipologie di soggetti che collaborano nel business. Tale ipotesi potrebbe con ogni probabilità incidere in senso negativo sull’obiettivo di “tutelare” il patrimonio dei risparmiatori retail che è a fondamento della direttiva MiFID attualmente in vigore. 

Emerge infatti, che, ove gli incentivi sono stati vietati, non viene fornita alcuna consulenza sugli investimenti agli investitori al dettaglio con un patrimonio inferiore a 100.000€. Anzi, nei paesi che hanno scelto di abolire le retrocessioni ai distributori è emerso un divario nell’accesso alla consulenza sugli investimenti e ad altri servizi. Una parte significativa della clientela retail del Regno Unito (dove il modello fee è operativo) non riceve consulenza in materia di investimenti. Non è dimostrato che le dinamiche registrate in alcuni Paesi si registrino anche in altri a seguito del divieto degli incentivi. Riporto quale dimostrazione dell’assunto una tabella desunta dallo studio KPMG e da un’accurata analisi della rivista ADVISOR), qui elaborata parzialmente utilizzando il Total Cost of Ownership (“TCO”), quale strumento per “cercare” di confrontare i due diversi modelli di business utilizzati in Europa.

ANALISI COMPARATA DI IMPATTO DEI COSTI A SECONDA DELLE SOMME OGGETTO DEGLI INVESTIMENTI
 
Chi può investire 10.000 euro: in Olanda e nel Regno Unito deve muoversi in autonomia e non riceve nessun servizio; in Francia, Italia e Spagna può essere “guidato” dalle banche e si trova a pagare un TCO per 5 anni di investimento che va dall’1,15% se sceglie fondi obbligazionari, al 2,04% se opta per fondi azionari.
 
Un patrimonio di 100.000 euro: in Olanda continua a non ricevere alcun servizio; in Francia, Italia e Spagna paga l’1,15% per i fondi obbligazionari e il 2,04% per quelli azionari; nel Regno Unito deve fare i conti con un costo, dopo 5 anni di investimento, del 2,23% se ha scelto un prodotto obbligazionario e del 2,51% se invece ha optato per un prodotto azionario.
 
Un investitore con 500.000 euro sostiene costi dopo 5 anni di investimento: in Francia, Italia, Spagna per un TCO dell’1,15% per i fondi obbligazionari e del 2,04% per i fondi azionari; in Olanda è dell’1,58% per i prodotti obbligazionari e dell’1,93% per quelli azionari; nel Regno Unito si arriva al 2,23% per le opzioni obbligazionarie e al 2,51% per quelle azionarie. 

Fonte: KPMG

Sembra evidenziarsi che il tema della tutela del cliente al dettaglio non possa essere conseguito con l’imposizione di un unico modello di servizio, perché se alla fine il mercato si livella su una struttura unica, non è certo che il cliente finale ne trarrà davvero beneficio.  Conviene puntare sulla trasparenza e sulla concorrenza.

Chi mi legge conosce la mia opinione che separa la attività di distribuzione di una gamma di prodotti e di servizi nel contesto di un’architettura chiusa o comunque con un silos di prodotti definito e l’attività di consulenza in ottica di brokeraggio in assenza di qualsiasi rapporto a monte con qualsiasi casa di investimento. La prima è un’attività da dealer che propone e negozia strumenti di cui ha la disponibilità oppure un preciso mandato per la sollecitazione verso il pubblico. La seconda è invece attività da broker che opera con la propria clientela di investitori, da questi remunerata senza un collegamento contrattuale con gli emittenti o le case di investimento.

Ulteriore distinzione, non opportunamente considerata nel contesto della nuova proposta, riguarda la fondamentale differenza fra la distribuzione di strumenti finanziari specifici (obbligazioni, azioni, OICR e altro) e l’attività di gestione patrimoniale, che è servizio di investimento e che meglio si lega all’ipotesi di una remunerazione fee-based e non commissionale. Tale distinzione è normativamente ben individuata (strumento versus servizio), ma è presente congiuntamente nei modelli di business della maggior parte dei protagonisti del mercato e viene remunerata con gli stessi criteri a seconda delle scelte dei singoli soggetti imprenditoriali.

Ulteriore differenza è costituita dal fatto che le società operanti con propri consulenti finanziari sono imprese (con tutte le conseguenze civilistiche del caso), mentre i consulenti indipendenti sono dei professionisti al più operanti in forma associata nel caso delle SCF. Non a caso, in quest’ultimo contesto, la governance di tali strutture impone che tutti gli amministratori siano abilitati alla professione (cioè iscritti all’OCF), anche in contrasto con altre regole di governance che impongono o suggeriscono la presenza di amministratori indipendenti. Tale ultima fattispecie pone problemi nel caso in cui una SCF si proponesse di quotarsi nei mercati oppure avesse una base societaria oltre i limiti previsti dalla normativa (casi presenti, ad esempio, nel contesto anglosassone).

Un modello unico non rappresenta un’efficace regola per leggere opportunamente una realtà obiettivamente frazionata in molteplici soluzioni e mi pare anche in contrasto con lo spirito originario della armonizzazione a fondamento dei Trattati della UE.

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