Con il Decreto Crescita è comparsa per la prima volta nel quadro legislativo nazionale la figura del “marchio storico di interesse nazionale”, sconosciuto al diritto sovranazionale, che ha disciplinato invece la figura del marchio che gode di rinomanza. Un modo per tutelare il brand Made in Italy, e salvaguardare il frutto del lavoro di passaggi generazionali imprenditoriali. Ecco le regole per iscriversi al registro speciale del Mise
La sfida verso la valorizzazione, l’innovazione e la conservazione delle aziende storiche italiane, danneggiate e svalutate dai fenomeni di delocalizzazione degli stabilimenti da parte degli imprenditori e dagli agganci parassitari subiti a loro danno, ha portato il legislatore nazionale ad emanare il Decreto-Legge 30 aprile 2019, n. 34, meglio noto come Decreto Crescita, il quale, tra le varie misure, offre lo strumento amministrativo per accrescere la capacità attrattiva di quei marchi che sono presenti sul mercato nazionale da almeno 50 anni, siano essi marchi registrati o non, purché se ne possa dimostrare l’uso effettivo e continuativo.
La ratio dell’intervento normativo descritto si radica nell’esigenza di tutelare il Made in Italy, ovvero quello strumento utile per mantenere ed accrescere la competitività e il posizionamento delle aziende italiane nel mondo.
Il marchio di origine e il brand
Per definizione il Made in Italy è un marchio d’origine, identificabile in quelle indicazioni, apposte sul prodotto e/o sulla sua confezione, consistenti nella dicitura “Made in…”, “Product of…” o in espressioni di significato equivalente, che attribuiscono l’origine del prodotto ad un determinato Stato di produzione.
Precisamente, il marchio di origine assolve ad una duplice funzione: quella di fornire al consumatore un’informazione aggiuntiva sul prodotto che intende acquistare, nonché quella di prevenire pratiche fraudolente da parte di produttori e importatori.
Molto spesso, nella prassi quotidiana, si tende ad identificare il marchio Made in nelle denominazioni merceologiche di diritto comunitario, quali la DOP e IGP, le quali, invece, si caratterizzano per specifiche peculiarità.
Ed infatti, il Codice della Proprietà Industriale ha introdotto nel nostro ordinamento la distinzione fra diritti di proprietà industriale tutelati e non. I primi sono retti da un titolo che può essere il risultato di una procedura di brevettazione oppure di registrazione; i secondi sono oggetto di una protezione conferita sulla base della ricorrenza di taluni presupposti espressamente previsti non necessariamente nello stesso Codice della Proprietà Industriale.
Tutelati sono i diritti di proprietà industriale che hanno per oggetto le cosiddette Denominazioni di origine Protette come DOP e IGP, richiamate in precedenza, il cui presupposto di tutela è l’esistenza di un collegamento dimostrabile tra una determinata caratteristica del prodotto e un determinato luogo di produzione, spazialmente delimitato.
Altro, invece, è tutelare il Made in Italy, qualificato dalla Corte di Giustizia il 7 novembre 2000, nel corso del procedimento C- 312/98 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli ed alimentari, come denominazione di origine geografica semplice.
Il fenomeno della contraffazione
È evidente come una regolamentazione a tutela del Made in Italy, destinata a identificare le produzioni realizzate in Italia, non potrebbe essere ricondotta nell’ambito degli istituti afferenti le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche dedotte all’art. 29 e ss. del Codice della proprietà industriale, in quanto queste ultime presuppongono l’esistenza di un nesso di casualità, esclusivo o essenziale, tra il prodotto e l’area geografica considerata.
Oltretutto, se il Regolamento comunitario ha ad oggetto solo le indicazioni geografiche per le quali esiste un nesso diretto tra una particolare qualità, la reputazione, o un’altra caratteristica del prodotto da un lato, e la sua origine geografica specifica dall’altro, e se tali indicazioni non possono essere tutelate in forza di una disciplina nazionale di uno Stato membro, si può concludere che una normativa nazionale può legittimamente proibire l’uso ingannevole di un’indicazione che non implica alcun rapporto tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica [FLORIDIA G., La disciplina del “made in italy”: analisi e prospettive, in Dir. ind., 2010, p. 341].
Ebbene, sulla scorta di tale analisi e sulla base dei risultati dell’export è emersa l’importanza mondiale che il brand ha acquisito negli ultimi anni, fino al punto tale da essere soggetto quotidianamente a fenomeni criminali di rilevante gravità.
Se dall’olio extra-vergine d’oliva passiamo ai pomodori San Marzano, o ancora all’aceto balsamico di Modena, il “prodotto” Made in Italy è stato più volte leso da frodi e contraffazioni, ovvero quel fenomeno criminale che ha subito una profonda evoluzione nel corso degli ultimi vent’anni, fino a configurarsi come “ogni uso non autorizzato degli elementi distintivi di un prodotto”.
Nello specifico, per contraffazione si intende la violazione dei diritti di privativa vantati dall’imprenditore sui segni distintivi dei propri prodotti o servizi. L’azione viene di norma promossa contro i terzi che fanno un uso illecito, o appunto contraffattivo, del marchio o comunque di segni interferenti con la sua sfera di rilevanza.
Una volta che venga promossa l’azione, ne deriva l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti, ciò attraverso la distruzione delle cose materiali con la quale è stata attuata la contraffazione; qualora poi risulti esservi stato dolo o colpa del contraffattore, il titolare del marchio otterrà altresì il diritto al risarcimento dei danni.
L’esigenza sempre più avvertita di stigmatizzare il comportamento di coloro che acquistano volutamente prodotti contraffatti incentivandone la produzione ed il commercio, ha spinto il legislatore nazionale ad introdurre sanzioni severe a carico di chi acquista prodotti recanti marchi contraffatti, andando a dar vita a diverse stratificazioni normative nell’intento di garantirne una tutela effettiva. [Le misure esposte sono parte della Legge 99/2009, recante disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia. FIANDACA G. – MUSCO E., Diritto penale, Parte speciale, Bologna, 2012, p. 582]
La delocalizzazione
Come anticipato, un ulteriore fenomeno che si è posto alla base dell’intervento normativo in esame, oltre alla contraffazione, è la delocalizzazione dei brand legati al Made in Italy, effettuata per varie ragioni, tra cui la convenienza di approvvigionamento delle materie prime da parte degli imprenditori, la quale ha arrecato considerevoli danni alle produzioni nazionali. [È nota alla cronaca la vicenda Pernigotti, ovvero quell’episodio che si avviò allorquando il 6 novembre 2018 la Toksöz, che deteneva l’azienda, annunciò la chiusura dello stabilimento di Novi Ligure, ma non la dismissione del marchio. Tale accadimento spinse il MISE a raggiungere un accordo per scongiurare l’esubero dei dipendenti.]
Elemento in comune alle fattispecie descritte è il bene su cui si è realizzata la condotta criminale, ovvero il marchio, il quale per definizione appartiene alla disciplina dei segni distintivi e quindi quegli strumenti che hanno da sempre costituito un pilastro fondamentale per le imprese nazionali.
In linea generale il marchio, così come la ditta e l’insegna, rientrano tra i segni distintivi tipici dell’imprenditore, meglio noti come “collettori di clientela”, in quanto finalizzati a favorire la formazione e la conservazione della stessa.
Intorno ad essi finiscono perciò col ruotare diversi e confliggenti interessi, sia dell’imprenditore, sia della moltitudine di soggetti che con esso entrano in contatto.
Sotto il primo profilo l’imprenditore, infatti, si manifesta ai terzi attraverso questi segni, avvalendosi dei quali egli si fa riconoscere all’esterno e fa conoscere i suoi prodotti e i suoi servizi. Ed è fin troppo evidente che l’esasperazione del messaggio pubblicitario attraverso gli strumenti di comunicazione mediale, che caratterizza l’epoca in cui viviamo, ha fatto crescere l’importanza di tali segni, i quali da strumenti per rendere più efficace l’esercizio della concorrenza hanno finito per diventare strumenti distorsivi della concorrenza, perché il consumatore, lungi dal preferire il prodotto o il servizio per le sue qualità intrinseche, lo sceglie piuttosto per la notorietà del segno distintivo o per le sembianze accattivanti o suadenti di esso.
A questo si contrappone l’interesse di quanti con essi entrano in contatto, quali ad esempio i fornitori, finanziatori e soprattutto i consumatori, a non essere tratti in inganno sull’identità dell’imprenditore o sulla provenienza dei prodotti immessi sul mercato [BUONOCORE V., Impresa, (dir. priv.), Annali I, 2007, in Enc. dir.].
Su tutti questi interessi domina infine il più ampio e generale interesse a che la competizione concorrenziale si svolga in modo ordinato e leale.
Marchio come strumento giuridico
Il quadro degli interessi coinvolti evidenzia l’importanza del marchio, il quale, per definizione, è lo “strumento giuridico guida” per il consumatore, veicolandolo nella scelta del prodotto sul mercato.
Precisamente è il segno attraverso il quale si attesta la provenienza della merce da una determinata impresa “permettendo che la domanda a questo rivolta possa su questo effettivamente concentrarsi non disperdendosi su prodotti diversi”.
La disciplina del marchio è rinvenibile in via generale dalle norme del codice civile (artt. 2569-2574) e in via speciale dalle norme del Codice della proprietà industriale D.Lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005 (artt.7-28), come da ultimo modificate dal D.Lgs. n. 15/2019, di recepimento della direttiva (UE) 2015/2436 e dal D. L. n. 34 del 2019.
Le iniziative europee
L’originaria normativa sui marchi contenuta nel Codice del 2005 è stata, nel corso degli anni, in più punti modificata al fine di un adeguamento della stessa alla disciplina europea nel frattempo intervenuta.
A questo proposito, appare opportuno rilevare come sussista una competenza concorrente tra disciplina statale e disciplina europea sulla materia, ai sensi del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Sulla base delle previsioni del Trattato, parallelamente all’istituzione di un sistema di protezione europeo dei marchi – il cd. marchio dell’UE, valido in tutto il territorio dell’Unione europea, di cui al Regolamento (UE) n. 2017/1001/UE, come integrato dal Reg. delegato UE 2018/625 e attuato dal Regolamento di applicazione UE n. 2018/626 – il legislatore europeo è dunque intervenuto, da ultimo con la Direttiva (UE) 2015/2436, dettando norme di armonizzazione dei sistemi nazionali di protezione dei marchi d’impresa esistenti all’interno dei diversi Stati membri.
Le norme europee di armonizzazione riguardano i requisiti per la registrazione di un segno come marchio d’impresa, le tipologie di marchio, la legittimazione alla registrazione del marchio, le forme di tutela del marchio, le cause di estinzione del marchio e, tra esse, la decadenza (cfr. Capo II, Sez. IV, artt. 19-21 Direttiva (UE) 2015/2436).
Di fronte a questo scenario i tentavi di garantire una tutela del Made in Italy sul piano nazionale non sono mai mancati, si pensi ad esempio, tra gli ultimi interventi in materia, all’istituzione del Marchio Collettivo Italian Quality. Sennonché questi interventi sono sempre risultati fallimentari in quanto ciò che si è contrapposto alla loro esecuzione è stato il rispetto delle c.d. Libertà fondamentali proclamate dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
L’obbiettivo primario perseguito dal processo di integrazione europea, ovvero l’istituzione di un Mercato Comune attraverso la rimozione delle barriere tecniche e giuridiche tra gli Stati membri e l’applicazione di un Diritto Uniforme, ha molto spesso impedito l’accesso, nel nostro sistema giuridico, a quelle leggi ritenute essenziali per una tutela efficace e razionale del Made in.
Il Decreto Crescita
A questo stallo legislativo ha posto fine il Legislatore nazionale con l’art. 31 del Decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 2019, n. 58), denominato Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi, il quale ha introdotto, tra le varie misure, norme ad hoc per la tutela del Made in.
Con la disciplina richiamata è comparsa per la prima volta nel quadro legislativo nazionale la figura del “marchio storico di interesse nazionale”, sconosciuto al diritto sovranazionale, il quale di converso ha da sempre disciplinato, invece, la figura del marchio che gode di rinomanza.
La giurisprudenza nazionale ha definito il marchio di rinomanza come quello conosciuto da una percentuale altissima di consumatori, essendo stato oggetto di una consistente campagna pubblicitaria, tanto da consistere in uno strumento di richiamo per il consumatore.
Rinomanza e interesse nazionale
Secondo la giurisprudenza comunitaria, invece, è rinomato il marchio che è conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti e servizi da esso contraddistinti.
Indipendentemente dall’esatta definizione di esso, tutte le opinioni sono concordi nel ritenere che il marchio di rinomanza possa godere di una tutela ultramerceologica se non assoluta, quantomeno in relazione a quei prodotti che il titolare del marchio registrato potrebbe ragionevolmente avere interesse a sviluppare. Ciò in ossequio a quella che si è ritenuta essere la ratio della nuova normativa sui marchi, che sarebbe quella di proteggere il marchio non tanto nella sua funzione distintiva, ma in quella promozionale, a tutela degli interessi professionali degli imprenditori a che siano salvaguardati gli investimenti aziendali e pubblicitari effettuati per la conservazione e l’incremento del selling power del marchio. [MANFREDI C., Marchio celebre, marchio di rinomanza e decadenza parziale per il non uso, in Riv. dir. ind., III, 2009, p 247]
A differenza del marchio che gode di rinomanza, con il Decreto Crescita entrato in vigore il 1° maggio 2019 e convertito in legge con la legge di conversione del 28 giugno 2019 n. 50, è stato aggiunto nel Codice di proprietà industriale il nuovo articolo 11 ter, che introduce la categoria dei marchi storici di interesse nazionale, ed il nuovo art. 185 ter, denominato “valorizzazione dei marchi storici nelle crisi d’impresa”, che prevede disposizioni volte alla valorizzazione di tali marchi e agevolazioni economiche e fiscali per garantire la prosecuzione dell’attività produttiva nel territorio nazionale.
Il nuovo articolo 11 ter c.p.i., dispone che: “i titolari o licenziatari esclusivi di marchi d’impresa registrati dal almeno cinquanta anni o per i quali sia possibile dimostrare l’uso continuativo da almeno cinquanta anni, utilizzati per la commercializzazione di prodotti o servizi realizzati in un’impresa produttiva nazionale di eccellenza storicamente collegata al territorio nazionale, possono ottenere l’iscrizione del marchio nel Registro speciale dei marchi storici di interesse nazionale di cui all’art. 185 bis”.
L’iscrizione nel registro dei marchi storici di interesse nazionale conferisce al titolare del marchio o ai suoi licenziatari esclusivi il diritto di utilizzare, per finalità commerciali e promozionali, il logo “Marchio storico di interesse nazionale”, istituito con apposito Decreto, il quale specifica altresì i criteri per l’utilizzo del logo.
Ed invero, nella Gazzetta Ufficiale n. 46 del 24 febbraio 2020 è stato pubblicato il Decreto del 10 gennaio 2020 del Ministero dello sviluppo economico che disciplina l’iscrizione al registro speciale dei marchi storici di interesse nazionale e l’individuazione del relativo logo.
Le regole per l’iscrizione al registro speciale
Il decreto del MISE, che dà attuazione all’articolo 31, comma 1, lettere a) e b) del Decreto Crescita, stabilisce che l’istanza per l’iscrizione nel registro deve contenere:
La valutazione delle istanze di iscrizione al registro si conclude entro sessanta giorni nel caso di marchio registrato o entro centottanta giorni nel caso di marchio non registrato. L’iscrizione al registro ha una durata illimitata e non è soggetta a rinnovo.
Una volta ottenuta l’iscrizione, il titolare avrà la facoltà di utilizzare, per finalità commerciali e promozionali, il logo “Marchio storico di interesse nazionale” (raffigurato nell’allegato A al decreto).
Il logo non costituisce un titolo di proprietà industriale e può essere affiancato al marchio iscritto nel registro speciale senza alterarne la rappresentazione.
La definizione delle modalità applicative, degli aspetti procedurali e del termine di decorrenza per la presentazione delle domande di iscrizione al registro è demandata a un provvedimento del direttore generale per la tutela della proprietà industriale-Ufficio italiano brevetti e marchi del MISE.
Oltretutto, in aggiunta a quanto premesso, il Decreto Crescita ha istituito altresì presso il MISE un Fondo per la tutela dei marchi storici, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività produttiva sul territorio nazionale (nuovo articolo 185-ter del Codice della proprietà industriale).
Il Fondo opera mediante interventi nel capitale di rischio delle imprese iscritte al registro, a condizioni di mercato e nel rispetto della disciplina degli aiuti di Stato. L’impresa titolare o licenziataria di un marchio iscritto nel registro, o in possesso dei requisiti per l’iscrizione, che intenda chiudere il sito produttivo di origine o principale per cessazione dell’attività o per delocalizzazione fuori del territorio nazionale con conseguente licenziamento collettivo, deve notificare una serie di informazioni al MISE, che individua gli interventi da adottare mediante le risorse del Fondo. Il mancato rispetto degli obblighi di notifica comporta l’applicazione di sanzioni. [ASSONIME, Iscrizione al registro speciale dei marchi storici di interesse nazionale, a cura di Impresa e concorrenza, 2020]
Da quanto esposto si deduce quindi che per la prima volta nel panorama legislativo interno, dopo svariati intenti fallimentari e superando gli ostacoli predisposti sul piano sovranazionale, il Legislatore si è adoperato attivamente al fine di tutelare il Brand Made in Italy, di modo da salvaguardare il frutto del lavoro di passaggi generazionali imprenditoriali.