approfondimenti/Mercato finanziario
Come scongelare la liquidità degli italiani

La complessa e tortuosa strada per incrementare l’allocazione “produttiva” del risparmio degli italiani. Che cosa fare dal lato della domanda, e che cosa serve da quello dell'offerta 

Andrea Battista
Battista

Cominciamo queste riflessioni con la breve e del tutto libera ricostruzione di una importante storia.

Ci permettiamo qualche licenza narrativa e approssimazione ma non ci sembra che queste possano alterare il senso dei fatti.

Per il risparmiatore italiano per un lungo periodo investire il proprio gruzzolo di risparmio – grande o piccolo che fosse – era sostanzialmente sinonimo di destinarlo ai titoli di debito emessi dalla Repubblica italiana.

Sembra un’altra epoca storica, in realtà è passato qualche anno o al più un paio di decenni.

Certo, questa semplice strategia di allocazione del risparmio comportava poca o pochissima diversificazione e il c.d. country bias era pervasivo e indiscutibile. È difficile dire che non fosse un comportamento comunque razionale, anche se è opportuno fare qualche precisazione anche nel quadro di una ricostruzione così sintetica.

Nei momenti di tassi reali negativi, investire in titoli pubblici a tasso fisso ha comportato sistematica distruzione di valore; vi sono stati i periodi di rally di borsa, che la gran parte dei risparmiatori ha quindi inesorabilmente mancato.

Ma in media e complessivamente è difficile affermare che non sia stato un comportamento razionale, indotto da precisi incentivi e in particolare da elevati tassi di interesse. Si precisa: un comportamento razionale “ex ante”, anche senza necessariamente sposare la tesi ovviamente errata che lo Stato non può per definizione fallire.

Al policymaker andava bene così, altrettanto razionalmente. 

Risolvere infatti il problema del collocamento dei titoli dopo il divorzio tra Tesoro e banca centrale è stato per molto tempo uno snodo chiave della politica economica. La lunga discesa dei tassi di interesse e i relativi capital gain hanno reso ciò che era ex ante razionale anche un successo ex post.

Perché muoviamo da questa storia? 

Per sostenere che il limitato utilizzo a fini di investimento produttivo del risparmio privato ha radici profonde nel nostro paese, in una lunga vicenda di fattori in primis strutturali (il cronicamente elevato debito pubblico finanziato con risparmio interno) e quindi “per derivazione” culturali. 

Narrazioni e abitudini hanno spesso conclamati effetti di lungo termine. 

È velleitario sperare di cambiare queste abitudini in poco tempo e in particolare mediante automatismi fiscali e normativi, come se gli individui risparmiatori fossero una semplice “scatola nera” pronta a elaborare ogni tipologia di input trasmesso dai policy maker.

Nel comportamento delle persone comuni, che non sono trader professionisti e neanche dilettanti, è ragionevole assumere una certa “rigidità” nel tempo dei comportamenti individuali. 

L’incentivo fiscale da un lato e l’evoluzione del quadro regolamentare dall’altro può servire a controbilanciare questa naturale inerzia. Probabilmente rappresentano condizioni spesso necessarie ma non sono ovviamente sufficienti.

L’eccesso di intervento normativo/regolamentare, la continua ricerca della riforma perfetta e la mancata stabilità del quadro fiscale difficilmente possono accelerare il processo ma forse in alcuni casi avere effetti controproducenti, come il clamoroso caso degli interventi sui PIR avvenuti all’inizio di questa legislatura.

L’evoluzione del quadro regolamentare in tema di finanza per la crescita negli ultimi 8-10 anni è stata rilevante ma non ha innescato – né poteva farlo – meccanismi automatici, perché i comportamenti si adeguano nel tempo e con modalità a volte non ovvie e prevedibili. 

Se pensiamo non solo ai PIR ma a tutta la gamma di strumenti finanziari teoricamente disponibili, questi consentono diversificate iniziative imprenditoriali, mentre dal lato della domanda gli incentivi fiscali appaiono persino generosi – si pensi all’elevato tetto di investimento nei PIR ovvero alla deduzione riconosciuta alle persone fisiche per l’investimento in start up. 

Non vi sono ovviamente solo i meccanismi dal lato della domanda che si devono adeguare ma anche quelli dal lato dell’offerta di strumenti di investimento.

L’industria deve giungere a sviluppare opportuni prodotti, diversificati per diversi segmenti di clientela. 

Pensiamo ai normali limiti di investimenti minimo negli strumenti di private debt e private equity, che li rendono in prima battuta accessibili a un numero limitato di soggetti. Solo di recente si è iniziato a osservare sul mercato qualche strumento di più facile accessibilità anche al pubblico retail.

Se questa ricostruzione è ragionevolmente corretta, ne conseguono alcune dinamiche di fondo e qualche relativa linea guida.

In primis è bene perseguire una certa stabilità regolamentare nel medio termine e rifuggire dall’idea di inserire continue modifiche nel quadro di riferimento, ad esempio per provare a utilizzare la c.d. “montagna” di liquidità che giace oggi sui conti correnti in risposta allo scenario di incertezza.

Può bastare, al più, agire con mirati e chiari fine tuning regolamentari, se del caso.

Sul lato della domanda, è fondamentale concentrarsi sulla educazione finanziaria degli individui, il nostro vero tallone di Achille, anche in ottica comparativa con i paesi di riferimento, su cui si deve agire con decisione nel medio termine.

Solo l’opportuna conoscenza può condurre ad una robusta – per quanto graduale – evoluzione dell’appetito per il rischio, evoluzione che deve essere consapevole, come le normative ormai peraltro richiedono in tema di risparmio.

L’offerta deve diversificare gli strumenti offerti e allargare gradualmente le opzioni per il risparmiatore.

Questo approccio è nel suo complesso piuttosto faticoso e inevitabilmente graduale, dà molto spazio all’azione e meno alla riflessione volta a individuare possibili killer application, ahinoi inesistenti.

Di conseguenza è una filosofia meno “spendibile” sul mercato della politica, perché sostanzialmente lascia il grosso dello spazio agli operatori privati e alle dinamiche di mercato, conferendo minor ruolo all’agone delle idee di politica economica e alla ricerca della proposta destinata a passare alla storia. 

La fase di disegno e riforma c’è stata negli anni recenti e il quadro esistente di incentivi e di regole non pare affatto penalizzante, rispetto ai nostri benchmark di riferimento, per quanto ovviamente non perfetto e per definizione migliorabile.

Siamo convinti che l’impostazione individuata, di certo meno esaltante nel breve periodo, potrà essere nel tempo più produttiva e utile per l’economia e quindi per la società nel suo complesso.
  

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