L'Europa non ha bisogno delle restrizioni del Patto di stabilità ma di crescita. Finanziandosi col debito, certo, ma anche diventando committente e proprietaria dei beni pubblici europei, dai porti alle autostrade, capaci di produrre introiti in grado di sostenere l'investimento
Anche se rimane impregiudicato il problema della natura giuridica dell’Unione europea e della sua governance – federale o confederale, comunitaria o intergovernativa – recenti accadimenti (l’attuazione del NGEU, il SURE, le proposte per un MES sanitario altrimenti incondizionato) hanno riportato l’attenzione sulle dimensioni del bilancio dell’Unione, sulla sua gestione, e sulle sue reali funzioni.
Già nel 1977 il Rapporto MacDougall (Rapporto predisposto da un Gruppo di esperti indipendenti organizzato dalla Commissione, pur se con le normali clausole di stile per cui “le opinioni espresse sono responsabilità esclusiva del gruppo e non della Commissione né dei suoi servizi”), prevedeva che nel tempo ci si sarebbe potuti aspettare un bilancio pari al 20-25% del prodotto lordo complessivo degli Stati membri, anche se ci si sarebbe dovuti accontentare, più realisticamente, di fermarsi attorno a un 5-7% (7,5-10% ove vi si fosse aggiunta la difesa) o a un 2-2,5% se ci si fosse posti invece obiettivi più “modesti”.
Sono passati 44 anni, e siamo ancora a un irrisorio 1%. A questo, qualora il NGEU venisse utilizzato per intero, nei prossimi sei anni si aggiungerebbe un modesto 0,7% del prodotto lordo (e questa, per vari ordini di motivi, – richieste da parte degli Stati membri dei prestiti offerti dall’Unione, accettabilità dei progetti, capacità di eseguirli correttamente – è solo un’ipotesi).
Tuttavia, è ormai opinione corrente, concretizzatasi in disposizioni concrete, anche se di dimensioni ben meno rilevanti di quanto non si sostenga, che l’Unione, se vuole raggiungere i propri scopi, debba fare di più e debba dare indirizzi europei all’azione degli Stati membri. Con il suo modesto bilancio, infatti, e prassi che ne prevedono il pareggio, dotare l’Unione europea di risorse proprie e perseguire l’autonomia strategica restano chimere. E resta una chimera il raggiungimento di una vera convergenza tra Stati membri il cui pil pro capite si situa tra 83 e 60mila euro l’anno a un estremo e a meno di 10mila euro all’altro.
Appare quindi necessario rendere permanenti per il futuro misure analoghe al NGEU. O meglio, affrontare immediatamente il punto delle dimensioni del bilancio; e fare in modo di dotare di risorse proprie l’Unione, non mediante l’introduzione immediata di nuove imposte o tasse, ma rendendola committente e proprietaria di beni pubblici europei (tratte delle reti stradali e ferroviarie, aeroporti continentali, porti da non vendere alla Cina, brevetti scientifici) capaci di creare flussi di introiti (tariffe, prezzi, royalties) superiori ai costi di investimento, per cifre rilevanti.
Con tale approccio, mentre verrebbe dato un forte impulso alla crescita, non si porrebbero problemi di mutualizzazione del debito, né di aggravamento della situazione debitoria degli Stati membri che più necessitano di assistenza finanziaria; la proprietà degli investimenti effettuati si porrebbe in capo all’Unione e le relative passività sarebbero garantite da beni reali considerati investimenti prioritari per l’Unione stessa e dai flussi di reddito da essi derivanti. Mentre si tornerebbe a una corretta distribuzione dei compiti tra la Commissione e l’Unione, titolari di funzioni politiche, e la BCE, che per anni ha svolto, e continua a svolgere, funzioni di supplenza che è bene siano state assunte (o avremmo rischiato il disfacimento dell’intero sistema), ma che non le sono necessariamente proprie.
Ne discendono alcuni corollari.
In primo luogo, il principio del pareggio del bilancio, essenziale per un bilancio di puro funzionamento, non si giustifica per gli investimenti. E ciò – malgrado la prassi richiamata innanzi – è chiaro in base agli articoli 317 e 318 TFUE. Come la CECA e l’Euratom, anche l’Unione potrebbe finanziarsi col debito; è sufficiente una volontà politica in tal senso, senza necessità di modifiche dei Trattati.
In secondo luogo, l’Unione dovrebbe mettersi in grado, con l’ausilio dei propri organi tecnici, inclusa la BEI, di gestire direttamente una parte assai più rilevante del proprio bilancio, oggi demandata in gran parte alle amministrazioni e organismi nazionali. Sarebbe poi necessario introdurre, a favore dell’Unione, a più lungo termine, una reale autonomia impositiva. Mentre prevedere tempestivamente l’assunzione delle misure proposte, mediante accordi politici vincolanti, eviterebbe i tempi e le incognite del processo autorizzativo che abbiamo dovuto sperimentare per il NGEU: ci è voluto infatti più di un anno e mezzo tra l’avvio del processo e la raccolta e l’erogazione dei fondi relativi ai primi progetti approvati, mentre altri sistemi economici, e la BCE, agivano con ben altra immediatezza.
È preoccupante notare come si torni a parlare con troppa frequenza di restrizioni e del Patto di stabilità e crescita, disattivato a causa della crisi scatenata dal Covid nel marzo 2020 e che sarà ripristinato dal gennaio 2023. Ma lo NGEU non sarà erogato per intero se non nel 2026, e i relativi rimborsi andranno sino al 2056; mentre è opportuno e realistico che in un sistema comunitario viga una sorveglianza reciproca e istituzionale, e che si dia un peso sostanziale alla differenza tra «debito buono» e «debito cattivo», introducendo una «golden rule», tornare intempestivamente ad approcci restrittivi vorrebbe dire non aver appreso nulla dall’esperienza della crisi del 2008; né aver capito che, del Patto, non si può prendere in considerazione solo la stabilità, trascurando completamente l’aspetto dello sviluppo.
In quest’ottica sarebbe utile mettere in luce come non abbia senso – in alcune norme – il criterio di un raffronto tra il pil (un flusso) e il debito (un monte); il debito andrebbe messo a raffronto con gli assets che lo bilanciano; il pil con gli interessi passivi che gravano il debito. Queste cose Luca Pacioli, che ha inventato la partita doppia, le sapeva già nel Quattrocento. Vedremo, dopo i risultati delle recenti elezioni tedesche e delle prossime elezioni francesi, quali coalizioni potranno determinarsi per dare una nuova spinta all’Unione europea, e forse i risultati tedeschi e il vertice del governo italiano possono far ben sperare.