Le Pmi italiane rimangono sottocapitalizzate. Che cosa possono fare strumenti come gli incentivi fiscali, la Borsa, le banche, il risparmio privato? Ecco le risposte negli interventi di Riccardo Barbieri, Giorgio Di Giorgio, Carmine Di Noia, Andrea Ferrari, Stefano Micossi
Accademici ed esponenti di alto profilo delle Istituzioni si sono ritrovati per una tavola rotonda, organizzata dalla Rivista Economia Italiana, per il IX Congresso Nazionale AIDC, l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti.
Attualissimo il tema, illustrato in apertura dal presidente AIDC, Andrea Ferrari, il tasso di risparmio delle famiglie è tornato su livelli altissimi: i depositi bancari dei residenti ad ottobre hanno superato la quota di 1.700 miliardi di euro. D’altra parte, le imprese italiane rimangono sottocapitalizzate (pur con miglioramenti di rilievo negli ultimi anni) e non riescono a fare il salto dimensionale, né ad accedere al mercato dei capitali in modo significativo.
Un ruolo importante è quello dei dottori commercialisti, interlocutori privilegiati delle PMI. Questi hanno anche il compito di presidiare la governance e i controlli per far sì che le imprese siano obiettivi affidabili di investimento, anche diretto da parte dei risparmiatori, aiutandole così a fare il salto di qualità dimensionale.
Giorgio Di Giorgio, professore di Teoria e politica monetaria alla Luiss, ha coordinato la tavola rotonda stimolando un dibattito ricco di spunti. L’Italia cresce meno dell’Eurozona ormai da trenta anni. NGEU può essere un’occasione storica per rimettersi in pista. Le sfide che abbiamo davanti per il futuro includono nodi irrisolti, annosi e ben noti: si tratta di riforme strutturali del sistema pubblico: P.A.; giustizia civile; fisco. E di interventi settoriali specifici: infrastrutture sostenibili; trasformazione del sistema finanziario – troppo tradizionale, bancocentrico e ancora poco aperto a innovazione e digitalizzazione; sottodimensionamento delle PMI.
Come indirizzare bene le riforme? Riccardo Barbieri Hermitte, capo economista del Tesoro, ha sottolineato il ruolo positivo degli incentivi fiscali per ridurre la sottocapitalizzazione delle PMI, ma ha ribadito due esigenze: la prima è quella di avere un quadro fiscale stabile che mantenga nel tempo gli incentivi, questi hanno bisogno di essere ben compresi – tanto dalle imprese e dalle loro associazioni, quanto dai risparmiatori – e non possono poi cambiare con frequenza, dopo poco tempo. La stabilità del quadro fiscale è essenziale.
La seconda esigenza è che tutti i provvedimenti siano sempre inquadrati in un disegno di politica industriale. Si tratta di delineare una strategia industriale complessiva per il Paese, che individui le attività strategiche per la crescita, anche al fine di evitare di promuovere iniziative che si traducono immediatamente in un aumento delle importazioni, con scarsi risultati per l’evoluzione del tessuto produttivo. Un ruolo importante in questo lo avranno ovviamente gli interventi del PNRR. Decisiva, in questo, la riforma della P.A. che deve svolgere un ruolo più attivo, con una visione netta dell’evoluzione dei settori industriali.
Ad esempio, nel passato si pensava ancora agli incentivi sul diesel mentre in Cina si puntava tutto sull’auto elettrica. Occorre dunque una amministrazione capace di supportare le azioni e gli incentivi a sostengo delle decisioni di policy. Occorre, infine, promuovere lo sviluppo di operatori specializzati che possano analizzare le caratteristiche fiscali degli investimenti per dare i giusti consigli.
Di Giorgio ha chiesto ai partecipanti come recuperare il ritardo accumulato nella produttività. A questa domanda ha dato risposta Fabiano Schivardi, professore alla Luiss ed esperto a livello internazionale sulle PMI. Occorre partire da una premessa. In realtà, la situazione delle piccole e media imprese italiana è migliorata. La capitalizzazione è aumentata: il rapporto debito su capitale è sceso negli ultimi anni da 1,20 a 0,75, anche grazie agli incentivi fiscali. Tuttavia, gli imprenditori sono restii ad investire ulteriormente nella propria azienda familiare, dove c’è già gran parte della loro ricchezza. È un problema di diversificazione del rischio. Questa mancanza di investimenti e conseguentemente di scelte innovative, è alla radice della “calma piatta” della produttività delle imprese italiane, che negli ultimi 10 anni è rimasta ferma mentre quella delle imprese tedesche è cresciuta di 25 punti base.
Non si possono incolpare per questo i consueti “ritardi” del nostro sistema-Paese. Pur se ancora indietro rispetto ai concorrenti europei, in Italia il tasso di scolarizzazione è comunque aumentato, il mercato del lavoro è stato reso più agile, le informazioni sui mercati e sulle società sono migliorate, c’è più concorrenza. Il vero problema sembra il modello imprenditoriale delle piccole imprese, rimasto agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Non basta più essere bravissimi nel produrre. Occorre capire i nuovi processi produttivi, informatizzandoli, scegliere meglio i mercati di sbocco, quali sono i materiali innovativi da utilizzare. I processi gestionali devono divenire più manageriali e più strutturati, consentendo l’ingresso di specialisti nelle aziende familiari.
In un mondo in cui “piccolo non è più bello” la sfida è quella di aiutare le medie imprese italiane a crescere. Non tutti possono crescere, ma c’è una solida struttura di medie imprese, competitive sui mercati internazionali, che vanno sostenute – partendo dai loro commercialisti – avviando un processo che ne faciliti l’acceso ai mercati.
Solo aprendosi al mercato e superando il capitalismo familiare le medie imprese potranno fare gli investimenti necessari per il salto dimensionale. Al contempo l’imprenditore originario potrà diversificare le sue attività e frazionare i rischi. Ai commercialisti si affiancheranno, poi, gli investitori istituzionali, che porteranno equity e spingeranno per un rafforzamento manageriale, mirato alle caratteristiche dell’azienda.
Carmine Di Noia, commissario Consob, ha affrontato il tema se le difficolta di accesso ai mercati dipendano dalla riluttanza delle imprese o piuttosto dalla mancanza di strumenti. La Borsa è il punto di arrivo finale, ma va considerato che oggi ci sono molti strumenti intermedi che possono indirizzare positivamente verso questo percorso. Fondi, private equity, venture capital, crowdfunding, e infine il mercato AIM, che si caratterizza per flessibilità e maggiore semplicità dei requisiti di accesso e di permanenza nel mercato. In un certo senso la Borsa perde di centralità a favore di altre fonti di finanziamento. Le funzioni tipiche di passaggio del controllo sono in disuso, non si vedono più OPA per questo; le funzioni di signalling, ovvero di visibilità e reputazione si possono ottenere anche con i minibond.
Sul binomio capitale/innovazione è intervenuto Stefano Micossi, direttore generale di Assonime. È chiaro che l’innovazione comporta rischi e questi devono essere finanziati con equity, e questo non è un ruolo per le banche (almeno in senso diretto). Non si può convogliare il risparmio delle famiglie agendo solo sugli incentivi fiscali. Questi hanno certamente avuto un ruolo, ma da soli non bastano (il caso dei PIR, prima esplosi poi rapidamente trascurati, ne è un esempio), occorre creare innanzitutto una cultura del capitale di rischio, far maturare una consapevolezza sul ruolo del capitale di rischio, ben diverso dal tradizionale investimento in titoli.
In questo scenario va considerato anche che il ruolo delle Borse è in fortissima trasformazione. Ci sono o stanno partendo nuove modalità di accesso al mercato, come il direct listing, ovvero la creazione di flottante prima della quotazione tramite una propria piattaforma di supporto alle negoziazioni; le SPAC (Special Purpose Acquisition Company), veicoli di investimento, costituito da un team di promotori al fine di raccogliere capitali sul mercato finalizzati alla successiva quotazione in Borsa; l’ingresso di esperti riconosciuti dal mercato nel Cda della società da quotare, i quali si ritiene siano in grado di portare l’azienda al successo e così attrarre gli investitori.
Per avviare le aziende al mercato dei capitali nelle sue varie forme vi sono altri due punti di attenzione, secondo Micossi. Occorre innanzitutto rivedere la struttura delle varie commissioni decisamente altissime. Considerando tutti gli attori del processo si raggiungono livelli certamente scoraggianti, che favoriscono il tradizionale credito bancario. Inoltre, va considerato il ruolo di progressiva marginalizzazione dei mercati azionari europei rispetto a USA e Asia che rende più difficili le varie azioni di acceso al mercato. Ciò è dovuto all’eccessiva frammentazione dei mercati europei, aggravata dal fatto che – nonostante l’uniformità prevista dalle norme UE – le pratiche applicative inseriscono ulteriori standard locali che appesantiscono la normativa.
Giorgio Di Giorgio ha riassunto infine l‘ampia discussione. C’è bisogno di una maggiore stabilità delle regole e di una loro semplificazione (anche in considerazione delle normative concorrenti su altri mercati); le imprese devono ricercare maggiore capitalizzazione e apertura sull’estero e curare di più la governance e i rapporti di proprietà e management. Infine, ha aggiunto Di Giorgio, non va trascurato il ruolo degli incentivi per portare le imprese sul mercato. Potrebbe essere utile studiare incentivi anche per le l’investimento in imprese non quotate, accanto ai quali ci sia una qualche forma di garanzia, sicuramente limitata, per gli investitori. Rispetto ai requisiti per la quotazione queste imprese potrebbero essere individuate in modo più semplice, guardando al rispetto di altri presupposti di trasparenza, come ad esempio la certificazione dei bilanci o il rating di legalità.