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Come oscilla Il pendolo della regolazione

Vuoto normativo e carenza di supervisione sono linfa della crisi finanziaria. Così il legislatore decide di recuperare il tempo perso. E lo fa a colpi di leggi e documenti di consultazione. Come per la prestazione del servizio di consulenza. Che così resta in bilico tra independent e non-independent advice.

Marco Tofanelli
Tofanelli

Il mercato finanziario deve essere regolamentato, sicuramente; anzi, vi è chi addirittura afferma che non possa definirsi un mercato naturale, bensì locus artificialis, perché presupposto dell’esistenza dello stesso sarebbe la regolazione giuridica. In realtà, “artificiale o naturale che sia” (Guido Rossi, Il gioco delle regole, che ricorda anche come “in Italia, ad esempio, il mercato dei futures esisteva già quando ancora i giuristi discutevano l’ammissibilità di quel tipo di scambio”), il mercato deve essere ben supervisionato, attraverso un serio esercizio di poteri di vigilanza.

Si è visto che cosa può accadere se la vigilanza è soft.

E’ storia di pochi anni or sono, che richiamo come ricostruita da Claudio Gatti in un articolo per Il Sole 24Ore del 23 settembre 2008; gli Stati Uniti devono assicurare la crescita economica sostenendo i consumi ma, con la politica dei bassi salari, ciò può avvenire solo con il credito e, nella  filosofia del mondo del commercio finanziario, in specie in quello esasperato d’oltreoceano, creare bisogni, impedire che vengano pienamente soddisfatti, crearne di nuovi, ingigantire il bisogno di indebitarsi non basta: occorre rendere possibile trasformare i debiti contratti in beni che procurino profitto.

Così, nel 1999 viene ratificato il Gramm-Leach-Bliley Act, la più grande riforma bancaria dopo la grande depressione, con una forte limitazione dei poteri della Fed; e nel 2000, totalmente deregolamentato il trading di derivati ( in particolare, il trading di Cds) attraverso il Commodity Futures Modernization Act.

Ecco allora l’esplosione, siamo nel 2002, delle emissioni di titoli garantiti da prodotti sottostanti, per lo più, appunto, prestiti; le banche cartolarizzano i mutui residenziali, si liberano del rischio, sono poco incentivate a selezionare i debitori, i rischi vengono trasferiti sugli investitori.

Per gli Stati Uniti è un cerchio magico: la politica monetaria che inonda il mercato crea due grossisti, broker e arranger (le case d’investimento che impacchettano) portano a casa fees incredibili, gli investitori, in grande parte con capitali stranieri, trovano prodotti sempre più specialistici e su misura.

Nel 2006, Lehman Brothers, Bear Sterns e via dicendo dichiarano profitti per decine e decine di miliardi di dollari. Non è casuale che gli arranger avessero nel frattempo integrato verticalmente il business acquistando gli originator (ossia, i fornitori di mutui).

Ma ben presto i nodi vengono al pettine: i mutui di qualità non ci sono più e però occorre andare avanti, c’è bisogno di volumi sempre maggiori di materia prima, ossia di mutui da impacchettare e collocare; a partire dal 2005 i mutui ormai sono solo quelli “tossici”, ma nessuno infine, questo è stato il vero problema controlla.

Occorrono un anno di insolvenze e pignoramenti perché le tesorerie delle grandi banche diffondano l’allarme; e il mercato smetta di sottoscrivere. Le case di investimento si trovarono in portafoglio prodotti semilavorati di pessima qualità; neanche il mercato interbancario rifinanziò gli attivi immobilizzati.

Anche da lì, quindi, anche da un vuoto di normativa nei mercati finanziari, o meglio da una forte carenza di supervisione, si propaga la grande crisi.

Sicuramente, oltre le fondamentali riflessioni sulle dinamiche economiche, meglio, sulle cause macroeconomiche che hanno portato ai drammatici risultati dei primi 15 (per ora) anni del 2000, rilievo assumono anche quelle sulle iniziative normative che possano favorire o sfavorire quelle (o altre) determinate dinamiche. Perché le reazioni normative, mi occupo ora dell’Europa che in realtà c’entrava poco o nulla, sono improntate ad un larvale (neanche tanto) paternalismo, anche in ossequio al quale sembra si dimentichi “la riflessione”: nella disciplina del mercato l’iniziativa giuridica dovrebbe indirizzarsi ma anche limitarsi a sfavorire il comportamento opportunistico contrario agli interessi dell’investitore, tenendo sempre in considerazione tuttavia che il corretto funzionamento del mercato, inteso come funzionalità del mercato, in tutte le sue componenti, costituisce la migliore tutela dell’investitore.

Ora, nella produzione normativa e nel conseguente adeguamento dei comportamenti, un primo grande problema, che tocco e abbandono, deriva intanto dall’instabilità della regola, dovuta non solo al “pendolo” della regolamentazione, light and heavy, ma endogenamente alla dinamicità dei mercati stessi: ricorda Rordorf che “la velocità di ricambio delle regole (europee e nazionali, primarie e secondarie)” è stata “davvero eccessiva. Testimonianza forse di una qualche intrinseca difficoltà che i legislatori incontrano nel disciplinare realtà per molti versi sfuggenti, dinamiche e rischiose al tempo stesso, rispetto alle quali risulta assai problematico definire il giusto punto di equilibrio tra la preoccupazione di non incepparne gli intrinseci meccanismi di sviluppo e l’esigenza di tutelare il risparmio impedendo che se ne abusi” (I contratti del mercato finanziario, Libro dell’anno del diritto, 2012).

Inoltre, sia pur volendo giustificare con il difficile contemperamento di interessi l’incessante produzione legislativa, non si può non sottolineare la pervasività – forse frutto della reazione al vuoto; un pendolo economico politico più che un continuo difficile affinamento, mi sembra – minuziosa della normativa: in ossequio alla rinnovata ritrovata necessità di forme di intervento intrusive si piega qualsiasi altro principio: dal primo, la tutela del mercato nelle sue varie componenti, al rispetto dell’autonomia decisionale o al principio di proporzionalità, fino alla coerenza tra norme primarie e secondarie.

Mi limito a due esempi, di fonte diversa, ancora fortunatamente allo stato di consultazione.

Nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L 173 del 12 giugno 2014 sono state pubblicate le nuove disposizioni relative ai mercati degli strumenti finanziari (Mifid 2), le quali si applicheranno, unitamente alle misure di esecuzione, a decorrere dal 3 gennaio 2017.

L’Esma ha, quindi, pubblicato un primo Documento di consultazione recante Technical advice on Mifid II/Mifir (Esma/2014/549), nonché un Discussion Paper su progetti di Regulatory Technical Standards (Rts) e Implementing Technical Standards (Its) (Esma/2014/548), che costituiranno la base per la predisposizione di un successivo documento di consultazione che sarà verosimilmente pubblicato a cavallo con il 2015.

Cito solo la proposta di separare la prestazione del servizio di consulenza dalla prestazione del medesimo servizio di consulenza su base indipendente, imponendo l’impiego di personale distinto (inclusi insieme dipendenti e tied agents). Tale separazione implicherebbe la creazione di due reti separate all’interno di una medesima banca o Sim per la prestazione dell’una e dell’altra forma di consulenza, nonché l’affiancamento al cliente di due consulenti distinti qualora fosse al medesimo prestata consulenza in entrambe le modalità. Ma, le modalità che caratterizzano la consulenza su base indipendente sono estrinseche alla prestazione del servizio e non incidono, pertanto, sulla qualità dello stesso, né richiedono una diversa qualificazione professionale.

La stessa espressione usata, “independent e non-independent advice”, non appare fedele al dettato normativo e rischia di ingenerare confusione su un aspetto essenziale della prestazione del servizio di consulenza. L’espressione “non-independent advice” induce in modo fuorviante a ritenere che esista una consulenza non indipendente. Occorre invece che vi sia la massima chiarezza sul fatto che la stessa Mifid 2, a seguito di infinite consultazioni, contempla un unico servizio di consulenza che per definizione deve dare luogo a raccomandazioni sempre indipendenti, ossia formulate nell’esclusivo interesse del cliente, senza condizionamenti derivanti dalla eventuale ristrettezza degli strumenti finanziari raccomandati o dall’eventuale percepimento di commissioni dai produttori/emittenti.

Ed è ovvio che il grado di separatezza delle due predette modalità di prestazione del servizio di consulenza debba essere rimesso al prudente apprezzamento di ciascun intermediario, rientrando qui innegabilmente nell’organizzazione interna dell’intermediario, laddove si tenga mente al fatto che non v’è traccia legislativa alcuna di separatezza nella relazione cliente-ausiliario per la prestazione di più servizi di investimento, pur se soggetti a differenti regimi giuridici (collocamento e consulenza, negoziazione ed execution only, gestione e raccolta/esecuzione di ordini).

Con riguardo specifico poi al tied agent, la deminutio della capacità lavorativa conseguente al fatto di dover scegliere tra la prestazione dell’una o dell’altra modalità di prestazione del servizio di consulenza contrasterebbe con il considerando 100 e con gli artt. 4(29) e 29 della Mifid 2. Quest’ultimo articolo, in particolare, prevede espressamente che “gli Stati membri permettono alle imprese di investimento di nominare agenti collegati per promuovere i loro servizi, procurare clienti o ricevere ordini dei clienti e dei potenziali clienti e trasmetterli, collocare strumenti finanziari e prestare consulenza rispetto agli strumenti e servizi finanziari proposti da tali imprese”. Da tale norma si desume chiaramente che l’estensione dell’attività consulenziale del tied agent è pari a quella del soggetto per cui opera, senza previsione della limitazione ad una sola modalità di prestazione della consulenza.

Veniamo all’Italia. Lo scorso maggio la Consob ha pubblicato un Documento di consultazione sulla “distribuzione dei prodotti finanziari complessi ai clienti retail”; mi limito alla raccomandazione agli intermediari di astenersi dal distribuire ai clienti al dettaglio prodotti con caratteristiche di “complessità molto elevata”, e di incanalare nel servizio di “consulenza evoluta” la distribuzione ai clienti al dettaglio di prodotti di “elevata complessità”.

Intanto, il Documento dimentica che il legislatore comunitario ha rifuggito sia l’opzione di limitare l’area degli strumenti finanziari accessibili agli investitori retail, sia l’opzione alternativa di affiancarvi un consulente. Unica limitazione prevista dalla Mifid, e ribadita a distanza di anni dalla Mifid 2, è il divieto del regime dell’execution only per i prodotti complessi.

Le “ulteriori misure” rinnegano, quindi, innanzitutto la libertà di scelta degli investitori retail in nome di un supposto buon paternalismo

Tali misure di gold plating presupporrebbero l’insufficienza della disciplina Mifid al fine di realizzare un’effettiva tutela degli investitori e del mercato. Nel Documento di consultazione, tuttavia, non si rinvengono dati sull’entità dei fenomeni di cui viene denunciata la scorrettezza, né sono indicate le categorie di intermediari interessate a tali fenomeni, né sono rilevati gli effetti potenzialmente sistemici dei medesimi; in esso viene solo descritta in via generale una non corretta applicazione della disciplina.

In ogni caso, l’adozione di misure di gold plating dovrebbe essere quanto meno subordinata alla verifica della sussistenza dei rigorosi presupposti prescritti dall’art. 4, dir. 2006/73/Ce, e dall’art. 6, comma 02, Tuf, fra cui l’analisi d’impatto della regolamentazione ai sensi della direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 gennaio 2013; analisi che, nella specie, non si rinviene

D’altro canto, anche i poteri di product intervention assegnati dall’art. 42 Mifir alle singole autorità nazionali sono circostanziati e legittimamente esercitabili solo nel rispetto di una pluralità di condizioni e limiti – neppure accennati nel Documento di consultazione – volti a preservare il level playing field, e comunque previa emanazione da parte della Commissione europea dei criteri e fattori che le Autorità nazionali dovranno prendere a tal fine in esame.

Inoltre, non si può fare a meno di accennare alla pericolosità di ogni tentativo volto a definire classi di prodotti complessi ai fini dell’applicazione di una disciplina nazionale avente carattere eccezionale rispetto alla Mifid. La stessa definizione di prodotto complesso – o, meglio, di classi di prodotti complessi sulla base di determinati indici – sconta un tasso molto elevato di aleatorietà che si manifesta già nella scelta di tali indici.

Particolarmente perplessi, poi, lascia l’imposizione di una determinata modalità di prestazione del servizio di consulenza, coniata con il concetto di “consulenza evoluta” e volta in definitiva a prefigurare i caratteri di un nuovo “tipo normativo” di consulenza di cui non si rinviene traccia nella normativa comunitaria. E, tra l’altro, i “caratteri” della “consulenza evoluta” sono così rigorosi da impedirne in fatto la prestazione. Le declinazioni implementative di un servizio, ossequiata la norma necessariamente “di principio”, dovrebbero essere lasciate alla libera concorrenza e, quindi, al mercato, con beneficio atteso per il cliente, in ossequio al principio della sostenibilità economica dell’attività, e non “create” in ambienti diversi dal mercato stesso.

Non può accadere, per dirla ancora con le parole di Rordorf che mi permetto nuovamente di citare, che “qualsiasi regola tecnica di organizzazione aziendale debba assurgere al rango di norma di diritto”; men che meno, aggiungo, se ultronea nei presupposti e negli effetti.

In definitiva, la tentazione di dare certezza giuridica ad ogni comportamento, sia pure volta a garantire finalità certamente necessarie, dovrebbe sempre essere supportata dall’ancoraggio solido ai principi che devono guidare la regolamentazione del mercato, specie in un’ottica di regolazione pervasiva, rifuggendo l’assolutismo normativo e vanificando così la portata dell’azione.