approfondimenti/Mercato finanziario
Nuove strategie di portafoglio
Come investire con i tassi negativi

Intervista a Paolo Moia, responsabile dell'Area asset management di Banca Profilo

Paola Pilati

Il volume di titoli di debito a tasso negativo in giro per il mondo ha raggiunto i 13 trilioni di dollari. Qualsiasi tentativo di rialzo dei tassi, come quello tentato dalla Fed l’anno passato, deve battere in ritirata. In Europa la corsa all’unico safe asset, il Bund, spinge il rendimento dell’ultima emissione al meno 0,26 per cento. In Danimarca si offrono addirittura mutui a tassi negativi, ovvero si paga il cliente per sottoscriverlo. Il cash viene penalizzato, e “i mercati continuano a far festa come non ci fosse un domani”, come ha scritto sul “Financial Times” un rappresentante dell’American Enterprise institute. Tutto sembra impazzito, irrazionale, indecifrabile. Per cercare delle spiegazioni, abbiamo scelto come Virgilio uno che con i mercati ha a che fare ogni giorno: Paolo Moia, responsabile dell’Area asset management di Banca Profilo.

«La verità è che viviamo ancora i postumi della crisi del debito del 2007/8», afferma Moia: «e la cosa paradossale è che ciò che si è fatto per attutire gli effetti della crisi del debito ha comportato l’aumento del debito. È accaduto che dal 2008 in avanti le banche centrali hanno comprato quantità enormi di titoli governativi, poi di corporate bond, quindi di high yield. E si sono comportate come un compratore dalle tasche profondissime, ma con nessuna attenzione al prezzo, che non è stata una variabile guida. Non guardare ai prezzi, ma alla quantità, ha comportato ha comportato un aumento anomalo dei prezzi delle obbligazioni e un’anomala diminuzione dei tassi. Le conseguenze si sono viste subito. Le aziende sono state incentivate a indebitarsi. Ma non l’hanno fatto per motivi “nobili”, come aumentare la capacità produttiva o investire in R&S. Hanno fatto invece finanza straordinaria, o usato quei soldi per il riacquisto di azioni proprie. Adesso abbiamo un sistema ipersensibile al debito e al suo costo».

L’anno scorso la Federal Reserve guidata da Powell ha provato a riportare i tassi sul cammino dei rialzi, ma ha dovuto subito frenare. Perché?

«Quando la Fed ha fatto capire che voleva riportare i tassi a livelli normali – non chissà dove – e che faceva sul serio, i mercati azionari sono subito crollati. E la Fed è stata obbligata a fare retromarcia. Il fatto che ci sia una quantità di debito enorme in giro, contratto non per finanziare progetti che poi saranno in grado di autoripagarsi, ma per fare operazioni speculative, fa sì che i tassi dovranno rimanere bassi. Altrimenti la bolla del debito scoppierebbe. Insomma: le banche centrali sono condannate a tenere i tassi bassi, perché il mercato è talmente indebitato che, se cambiasse direzione di marcia, provocherebbe una nuova crisi finanziaria. Ma i rischi non sono finiti qui».

Cosa intende?

«Siamo alla fine di un ciclo economico. La crescita rallenta, e tutta l’economa mondiale rischia di entrare in recessione l’anno prossimo».

C’è chi vede il segnale inequivocabile di recessione in arrivo nell’inversione della curva dei tassi Usa. Lei che ne pensa?

«Non è detto che l’inversione della curva sia un segnale giusto e immediato. Le spie che lanciano l’allarme sono altre, secondo me. Uno scenario peggiore, per esempio, viene dal rallentamento della crescita economica senza una contemporanea discesa dell’inflazione, come si vede negli Usa. In questo caso non ci sarebbe veramente più posto dove nascondersi nella gestione del portafoglio».

Perché?

«La gestione di portafoglio diventerà parecchio complicata di qui in avanti. Veniamo da anni in cui la gestione è stata abbastanza facile. Anni di crescita, in cui un portafoglio ben bilanciato e diversificato il rendimento lo otteneva, bastavano nervi saldi nei momenti critici, poi le cose si sistemavano. Ma se prima una buona dose di obbligazioni governative a lungo termine serviva a fare da copertura all’investimento azionario, ora non sarà più così. Dovremo adattarci, essere più tattici, più market timers».

Come sta cambiando le sue scelte?

«Secondo me si dovrà avere moltissima liquidità in portafoglio. Essere prudenti, e di tanto in tanto provare qualche sortita sui mercati quando si palesano delle opportunità. Io in questa fase sto lavorando alla ristrutturazione del portafoglio: non sono più convinto che un portafoglio ottimista e costruttivo sia la scelta giusta. Comincio ad aumentare moltissimo la liquidità, e nei prossimi mesi resterò liquido e al riparo: ogni tanto qualche acquisto, per poi ritirarsi dietro un cespuglio».

Questo vuol dire una gestione molto attiva.

«Sì. Negli ultimi anni è stata premiata una gestione non articolarmente attiva nell’asset allocation. Io ho fatto movimenti senza tassi di rotazione elevati: la gestione era più attiva al margine, su certi strappi di prezzo si alleggeriva e poi si rientrava. Ora invece sarà molto più attiva, non movimenteremo solo la frangia, ma il cuore del portafoglio».

Molti pensano che l’Europa, tra tassi negativi, inflazione al palo e invecchiamento della popolazione, si stia “giapponesizzando”. È d’accordo?

«Ad accomunarci al Giappne è solo l’insipienza dei gestori della politica economica. Il Giappone ha fatto grandi errori di politica economica a partire da anni ’90, rialzando i tassi quando avrebbero dovuto tenerli bassi, cercando di contenere il deficit publico quando era il caso di allentarlo. L’Europa sta seguendo esattamente la stessa ricetta: che senso ha congelare gli investimenti pubblici quando i governi si possono indebitare a tassi inferiori a zero? Questo vuol dire che i politici ci stanno dicendo che non sono in grado di far partire progetti, finanziati a costo zero, che possono tra 10 anni avere un ritorno positivo sul capitale. Se ci stanno dicendo questo, vuol dire che hanno sbagliato mestiere, che sono incapaci di attuare progetti di ampio respiro – come fu la missione lunare negli Usa negli anni ’60 – che possono portare grandi risultati in evoluzione tecnologica, guadagni di competivitvità e rendimento del capitale. Altro che invecchiamento».

Non crede che ci sia qualche segnale di cambio della politica europea in questo senso?

«Voglio vedere se la Germania, che ha un surplus bilancio, il debito in diminuzione, e un’economia che segnala recessione, si convertirà finalmente ad una politica fiscale attiva. Questa sarebbe la grande novità dei prossimi mesi. Ma, conoscendo i tedeschi, credo che ci arriveranno dopo aver sopportato una congrua dose di dolore».

Il nuovo QE annunciato dalla Bce è necessario?

«Sicuramente è necessario. Ma non è sufficiente. Non possiamo illuderci che sia la politica monetaria da sola a portarci fuori dai guai. Se non c’è una politica fiscale c’è da farsi poche illusioni: la ripresa della crescita dipende dagli investimenti pubblici».

Cosa si aspetta dalla nomina di Christine Lagarde al vertice Bce?

«Mi ha aperto alla speranza. Non essendo un banchiere centrale di professione, ma possedendo una professionalità più articolata e prestigio personale, spero possa suggerire un utilizzo più ampio degli strumenti di politica economica».