Banche / Il Rapporto Cer
Com’è difficile sorvegliare i big del credito. Ma c’è una proposta per ripartire da zero
Paola Pilati

Rischi sottostimati. Banche piccole svantaggiate rispetto alle grandi, che possono adottare strategie più rischiose e redditizie. Briglia lenta sulle attività finanziarie, sebbene siano portatrici di alti rischi potenziali, e correttivi molto blandi su quello che è stato l’innesco del contagio: lo shadow banking, entrato nei radar dei regolatori solo dopo lo scoppio della crisi dei mutui subprime americani e che ancora fa la parte del leone non solo nei mercati anglosassoni ma anche in paesi europei molto finanziarizzati come Lussemburgo, Irlanda, Malta e Olanda. È questo il succo dell’analisi che l’ultimo Rapporto Cer sulle banche fa dell’edificio di regole che il G20 ha costruito dopo lo scoppio della crisi. Concludendo che non è robusto, che è eccessivamente complesso e poco trasparente, che in definitiva non ci tutela affatto dall’incubo mai sopito che il terremoto che ha sconvolto il sistema bancario dieci anni fa si possa ripetere e trovaci di nuovo senza un riparo.

Ma come è possibile che tutto il lavorìo intorno ai buchi del sistema che regge la nostra economia, cioè il denaro, abbia dato un risultato tanto scarso? Le migliori menti del pianeta messe in campo, le procedure di consultazione per disegnare autostrade regolate laddove c’era la giungla della finanza più selvaggia, le direttive, le autority… tutto questo è stato solo un grande gioco con troppi compromessi, che non ha davvero ridotto i rischi, e neppure fatto crescere la capacità di prevederlo?

«Secondo noi il sistema andrebbe rivisto completamente», afferma Carlo Milani, uno degli autori del Rapporto. «Partendo dal fatto che le grandi banche dovrebbero accettare di ridimensionarsi: pensiamo che la nostra più grande, Unicredit, è la più piccola della banche sistemiche, e che in Europa esistono banche che rappresentano due, tre, anche quattro volte il Pil del paese in cui operano. Facile capire perché sono loro che ispirano la regolamentazione». Ma perché sono proprio i giganti del credito che vengono additati come possibili produttori di disastri? Perché “dopo lo scoppio della crisi finanziaria molte analisi hanno messo in evidenza come i coefficienti di capitale aggiustati per il rischio non fossero correlati con la solidità di una banca”, scrive il Cer. In pratica, i risk-weighted asset perdevano affidabilità a causa dell’eccessiva discrezionalità concessa alle banche per calcolarli. Le grandi banche hanno insomma adottato modelli interni per la valutazione del rischio che alla fine hanno ottenuto il risultato di sottostimarli. Tutto legittimo e legale, visto che questa discrezionalità è stata concessa sotto l’accordo di Basilea 2. Insomma, l’adozione di modelli interni invece che di modelli standard ha finito per sottostimare la probabilità di default. Proprio il contrario di quello che si voleva ottenere.

Il passo successivo di Basilea 3 non ha, secondo il Cer, superato l’inconveniente. A dicembre 2017 sono state infine varate le nuove norme sui requisiti patrimoniali delle banche, una sorta di Basilea 4, con l’obiettivo di ridurre la variabilità delle valutazioni degli attivi ponderati per il rischio nella comparazione tra banche che operano in diversi regimi, e con differenti dimensioni e modelli di business. Soprattuto per limitare l’uso dei famigerati “modelli interni” da cui derivano le disparità tra diversi paesi europei. Tutto bene, dunque?

«Anche questa non è una riforma incisiva», dice Milani. «Intanto partirà dal 2022, e poi sarà a regime dal 2027. Di qui ad allora, cosa potrebbe accadere?». I fronti di incertezza qualche brivido lo danno. Il primo fronte è quello che vede aumentare la distanza tra sistema europeo e sistema anglosassone. Quest’ultimo più disposto a tagliare decisamente l’uso dei modelli interni, il nostro ostile a una cancellazione drastica. E in conclusione vincente. Vincente soprattutto negli interessi delle banche di grandi dimensioni: potranno continuare a sostenere minori assorbimenti di capitale – scrive il Cer – “adottando strategie più rischiose e redditizie nel breve-medio termine che possono spiazzare la concorrenza degli operatori che seguono approcci più prudenti”. Nella catena delle incertezze si materializza poi l’ombra dello “shadow banking”, entrato sotto la lente dei regolatori solo dopo lo scoppio della crisi dei mutui subprime e, nonostante la sua – giusta – demonizzazione, tuttora vivo e vegeto. «Anzi, in Europa il suo peso è addirittura aumentato», sostiene Milani, «visto che gli investitori si sono spostati dal sistema regolamentato a quello non regolamentato. È un fenomeno talmente sfuggente, che è difficile da quantificare. Ma è una mina che potrebbe scoppiare nel momento in cui la politica monetaria diventerà più restrittiva, perché si nutre e prospera con l’abbondanza di liquidità».

L’Italia, in questo quadro, appare come il classico vaso di coccio. Se è la banca che fa finanza quella che oggi veleggia indisturbata sui mari del denaro facile, la banca italiana, il cui modello di business è di stampo più tradizionale, soffre della pressione di una concorrenza che non è attrezzata a contrastare. Se poi la congiuntura internazionale virasse di nuovo in negativo («Ipotesi non remota, visto che altrove la ripresa è partita da tempo, osserva Milani), che ne sarebbe della fragile piantina della nostra economia, con le banche già caricate delle forti sofferenze del passato?

È per questo che, secondo il Cer, occorre lanciare il cuore oltre l’ostacolo, e rimettere mano dalle radici alla regolamentazione del sistema finanziario. Utopia? Certo il lavoro di un think tank non basta a spostare la barra di una nave così complessa e interconnessa con mille interessi e le pressioni di mille lobby. E il fatto che l’impostazione del Rapporto abbia a Bruxelles la sua sponda nel gruppo politico – di destra – Europa delle Nazioni e delle Libertà, rischia di togliergli benzina. Eppure contiene una proposta suggestiva per cancellare l’edificio delle regole e ricostruire un sistema più semplice. Si ispira a un’idea che l’ex governatore della Bank of England Mervyn King aveva affidato a un suo pamphlet: l’idea del banco dei pegni.

Come funziona? «Si basa sulla revisione radicale del ruolo della banca centrale, che deve funzionare appunto come un banco dei pegni a cui ciascuno può portare valori da valutare e scontare, ricevendo un controvalore in liquidità», spiega Milani. «Ciascuna banca sceglierà tra gli asset in portafoglio quelli da scontare presso la banca centrale, la quale ne valuterà il valore rispetto al rischio, così da tradursi nel quantitativo di liquidità che la banca centrale sarà disposta a versare se la banca dovesse averne bisogno. I titoli valutati dal banco dei pegni verranno a compensare le passività liquide della banca, in modo da offrire uno scudo in caso di crisi agli sportelli, e scongiurare crisi di liquidità. Questo spingerà le banche a ricomporre il proprio stato patrimoniale, risolverà il problema dell’assicurazione sui depositi, e spazzerà via le regole di Basilea, quelle sul tier1, il tier2…».

Naturalmente la messa a punto del sistema include un codice di valutazione dei titoli il più possibile condiviso tra le varie banche centrali (con il corollario di mettere fuori gioco gran parte del lavoro svolto oggi dalle agenzie di rating, che non ne saranno felici), oltre al fatto di pensare come regolarne gli effetti sulla finanza fuori dalle banche. Ma un risultato è certo: semplificherà la supervisione, che oggi, proprio per la estrema complessità dell’edificio regolamentare, rischia di trovarsi a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.