intervista a Luca De Biasi, Wealth business leader di Mercer
Perché le Borse salgono se l'economia va male? Cosa succederà con la fine della pandemia? E su quali titoli difensivi puntare? Un esperto risponde
Nell’anno del Covid le borse hanno raggiunto nuovi massimi. I titoli tecnologici hanno bruciato i record precedenti, si è scatenata la caccia ai settori che hanno tratto dei vantaggi dalla pandemia e dalle nuove abitudini, dal lockdown allo smart work, l’annuncio dei vaccini ha infine elettrizzato ancora di più il clima. Visto dai mercati azionari, questo 2020 che segna la recessione economica peggiore dalla Seconda guerra mondiale è un anno di bonanza. Come è possibile un simile paradosso? E soprattutto, quanto ancora si potrà surfare sull’onda in crescita e sperare in nuove plusvalenze?
A chiarire lo scenario ci aiuta in questa intervista Luca De Biasi, Wealth Business leader di Mercer, società di consulenza e gestioni patrimoniali di livello globale.
Nel vostro recente survey sulle strategie di investimento dei fondi istituzionali in Europa (900 portafogli con un patrimonio di oltre un trilione di euro), segnalate la crescente consapevolezza dei rischi del cambiamento climatico e delle tematiche ambientali nelle scelte di questi investitori. Accanto a questo trend, che si muove con un orizzonte di lungo termine, ci sono i record borsistici che abbiamo sotto gli occhi. Sono due fenomeni collegati, oppure no?
«La scelta di seguire i criteri ESG si è sicuramente rafforzata con la pandemia. Soprattutto la “S” dell’acronimo, cioè il sociale, che era più assente rispetto ai fattori E e G, environmental e governance. Ora fattori come la sicurezza del lavoro, la diversità, l’inclusione, hanno preso importanza perché possono creare uno stigma etico sull’impresa. Basta vedere quanto uno sciopero nelle piattaforme distributive provochi un danno reputazionale. Ma c’è anche il fatto che durante la pandemia i fattori ESG hanno protetto meglio i portafogli perché sono riusciti a contenere il rischio. Quanto ai nuovi massimi del mercato azionario: questo fenomeno è un paradosso».
Che cosa intende?
«Il comportamento dei mercati è dovuto in larga parte al supporto dato dalle banche centrali, che sono intervenute e intervengono a fronte di fenomeni di volatilità del mercato o difficoltà dell’economia, e indirettamente a sostegno di asset rischiosi. Un intervento a cui gli investitori – quelli istituzionali, ma anche quelli retail e gli asset manager – si sono ormai assuefatti. Ma i mercati non possono andare così bene nonostante un’economia che crolla. Prima o poi questo gioco finirà. E qualcuno resterà con il cerino in mano».
Eppure l’intervento delle banche centrali è considerato vitale per tenere in piedi il sistema…
«È un gioco pericoloso. Con i tassi obbligazionari negativi, per avere un rendimento positivo si deve puntare sugli asset più rischiosi, con la diffusa consapevolezza sul mercato che tanto poi qualcuno interverrà in caso di volatilità elevata. Un’assuefazione che prima o poi si pagherà cara. Senza contare che è un gioco che allarga le differenze di classe: le banche centrali, con il loro intervento, sostengono gli asset finanziari, ma non tutti hanno patrimoni finanziari. Così si aumenta la disuguaglianza sociale».
Crede che le valutazioni espresse dalle borse non siano giustificate?
«Oggi le quotazioni sono molto alte. Ma le quotazioni vanno rapportate agli utili futuri. E se l’economia crolla e non si riprende, gli utili saranno più bassi. Non si scappa: tutta questa euforia la pagheremo nel 2021 e 2022».
Per difendersi, oggi si può puntare su qualche safe heaven?
«L’oro, la liquidità. L’oro sotto forma di Etf e Etc. Ma non è sufficiente dare spazio all’oro per l’1 per cento del portafoglio: serve almeno il 5 per cento. Per fare hedging le dosi omeopatiche non bastano».
Voi di Mercer avete suggerito a fine 2019 di considerare la liquidità come un asset. È ancora vero?
«Sì. La liquidità ha un costo, è vero, per via dei tassi negativi. Ma è un costo trascurabile. Penso che di qui a tre anni oro e liquidità avranno performato meglio di altri investimenti: alla liquidità destinerei anche il 10 per cento del portafoglio».
Con l’annuncio dell’arrivo sul mercato dei vaccini si comincia a guardare oltre il Covid. E a riconvertire i portafogli per il dopo. Quali saranno le “recovery stock” ?
«C’è un riposizionamento su azioni che hanno perso per la caduta dei consumi e hanno valutazioni basse. Ma la verità è che andranno bene solo se il ciclo economico si riprende davvero. Invece abbiamo davanti uno scenario molto pericoloso».
Quale?
«Il mercato è salito tantissimo perché ha scontato sia la politica fiscale che il sostegno della politica monetaria. Se la pandemia si risolve, queste due componenti non potranno continuare il loro sostegno. Insomma, se i vaccini funzionano, l’aiuto di quelle due componenti viene meno. E quando i mercati, che hanno dato per scontato quell’aiuto, annuseranno che verrà meno, entreremo in un mondo molto pericoloso».
In quel momento occorrerà allora avere il gestore più bravo sul mercato. Sarà la rivincita della gestione attiva sugli Etf tanto di moda?
«Gli Etf sono un’interessante opportunità: sono una componente di portafoglio a basso costo, e in questo periodo sono andati benissimo. Ma con un mercato difficile la gestione attiva avrà la sua rivincita. Dunque spezziamo una lancia per il gestore attivo, che come il panda è a rischio di estinzione!».
Perché rischia di estinguersi?
«Con le banche centrali che pompano liquidità e sostengono gli asset finanziari, sono i mediocri che vengono premiati. Il perché è presto detto: va bene il Beta, ma l’Alfa dov’è? Chi è attivo – e va in cerca dell’Alfa (cioè di un rendimento superiore a quello del mercato, nrd.) – fa una fatica terribile, trova inefficienze e titoli sottovalutati che però restano tali o addirittura vedono le inefficienze ulteriormente enfatizzate per via dei sostegni vari presenti sul mercato, mentre il mediocre – che spesso punta sul Beta (il rendimento che segue l’andamento del mercato, ndr.) – è favorito. E questo ci porta a un altro effetto negativo di questo periodo: che generazioni di gestori stiamo allenando? Gestori che hanno visto solo un ciclo distorto e che hanno vissuto in un ambiente dei mercati finanziari condizionato dall’enorme massa di liquidità, sempre pronti a fare scelte ordinarie o di beta perché sicuri che i policymakers interverranno alle prime avvisaglie di volatilità, quasi obbligati ad avere grande rischio nel portafoglio in modo strutturale. Continuando così tra tre anni resteranno in giro solo i gestori mediocri, mentre quelli attivi saranno costretti a uscire dal mercato. Tenderei a dire che questo potenziale fenomeno è un prodotto di questi strani tempi».
Sul fronte valute che cosa consiglia?
«Un portafoglio europeo deve avere un 15-20 per cento di dollari. Il dollaro è un porto naturale, un safe heaven, e serve anche perché aumenta la diversificazione. Lo vedo in crescita verso 1,15 con l’euro (ora è 1,19, ndr.)».
L’Asia: lì ci sono economie che hanno mostrato resistenza maggiore al virus e capacità di uscire prima dalla crisi dei paesi occidentali. Come vede l’investimento sui quei mercati?
«Negli ultimi anni l’Asia ha sottoperformato. È un mercato su cui puntare assolutamente, e ha titoli meno sopravvalutati di quelli Usa. Direi di allocare lì un 30 per cento del portafoglio azionario, ma con grande attenzione nella scelta dei titoli».