ANALISI
Come battere la stagflazione

Intervista a Marcello Messori, professore di Economia al Dipartimento di Economia e Finanza della Luiss

Le differenze tra Usa ed Europa. Il contagio che ha già spinto i tassi e mette in difficoltà la Bce. Gli interventi necessari a disinnescare il mix di inflazione e stagnazione. E una proposta sfidante: mettere in campo nuova capacità fiscale europea. Perché: se non ora, quando?

 

Paola Pilati

La minaccia è diventata una insidia concreta: la stagflazione, quel male oscuro che negli anni Settanta paralizzò l’economia, bruciando ricchezza con un’inflazione galoppante in un corpo produttivo incapace di generare crescita, è tornata in Europa come il peggiore incubo per governi e banche centrali. Siamo ancora in tempo per evitarla? E come si può schivare? «Secondo me sì», risponde alla prima domanda Marcello Messori, professore di Economia al Dipartimento di Economia e Finanza della Luiss. Quanto alla seconda domanda, Messori prospetta una soluzione, sebbene tutt’altro che facile: «La via maestra che la Ue ha per uscire dal rischio stagflazione, rischio che ora mi sembra elevatissimo, è mettere in campo una capacità fiscale centrale orientata alla produzione di beni pubblici», afferma.

Cominciamo dall’inizio: perché ci troviamo in questa situazione?

«Intanto distinguiamo il caso degli Stati Uniti dal caso dell’area dell’euro, anche se le due realtà hanno legami molto stretti. Negli Usa c’è stato un surriscaldamento dell’economia già prima della pandemia, ma che la pandemia ha accentuato. Dopo nove anni (fine 2009-2017) di crescita ininterrotta e con una politica monetaria molto accomodante, l’amministrazione Trump introdusse una riforma fiscale distorsiva ma espansiva. Poi, come in tutte le aree economiche rilevanti, la reazione statunitense alla pandemia fu un forte sostegno alla domanda mediante una generosa politica di bilancio. Quando – in anticipo rispetto all’Unione europea – l’economia Usa si stava già riprendendo, la nuova amministrazione Biden ha varato iniziative molto espansive di politica fiscale. Sommandosi a un’offerta ridotta dalle strozzature derivanti dalla stessa pandemia e – più di recente – dallo shock bellico, tutto ciò ha prodotto un eccesso di domanda. Ne è conseguita una spirale costi-prezzi: siamo quindi di fronte a un’inflazione con radici abbastanza tradizionali. Per fronteggiare situazioni del genere, la politica monetaria è efficace e non può che stringere. Ed è quello che sta facendo la Fed. Forse un po’ in ritardo».

E in Europa? La Bce sembra ancora molto cauta di fronte al rischio stagflazione.

«Il fatto è che l’area euro presenta una situazione diversa. Qui, la componente preponderante dell’inflazione risiede nelle strozzature dal lato dell’offerta e dallo shock sulle quantità e i prezzi sia dei prodotti energetici che di quelli di altre materie prime e alimentari. Tali problemi hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina ma si sono accentuati con la guerra. Di recente, vi sono anche pressioni di domanda e primi aumenti salariali; ma si tratta di aggiustamenti fisiologici e anche opportuni. Le cause dell’inflazione europea sono, quindi, diverse da quelle statunitensi. E la politica monetaria non è molto efficace nel contrastare questo tipo di inflazione europea».

Eppure tutti danno per scontato che alla fine la Bce non potrà non alzare i tassi.

«Sono d’accordo anch’io ma per una ragione un po’ diversa. La stretta creditizia dei tassi di policy della Fed negli Usa ha fatto alzare i tassi di interesse di mercato lungo tutte le scadenze temporali; e questi aumenti stanno contagiando la struttura dei tassi di mercato in Europa e – soprattutto – nell’euro area. Prima ancora che la Bce abbia davvero realizzato una stretta nella sua politica e abbia aumentato il suo tasso di policy, i tassi di interesse di mercato sono già aumentati anche nei nostri paesi. E’ questo effetto contagio, innescato dalla politica restrittiva della Fed, a rendere inevitabili le scelte della Bce ».

Ha ragione chi sostiene che i banchieri centrali hanno aspettato troppo ad agire?

«C’è una regola aurea per un banchiere centrale: non trovarsi mai “behind the curve”, ossia in ritardo (‘dietro’) rispetto alla curva dei tassi di mercato, perché questo toglie efficacia agli strumenti in dotazione. La Bce è consapevole che la politica monetaria non è tanto efficace nel domare il tasso europeo di inflazione; tuttavia, deve comunque stringere perché, altrimenti, perderebbe il controllo della situazione. Ne concluderei che la Fed ha agito in ritardo rispetto alla situazione statunitense, mentre la Bce è stretta in un dilemma di difficilissima soluzione: l’esigenza di contrastare l’inflazione con armi spuntate, accentuando così un ristagno della produzione già in atto; oppure, il concreto rischio di perdere il controllo della situazione, accentuando così i fattori di instabilità economica. Tale dilemma rappresenta una fotografia di cosa implichi la stagflazione: produzione ed economia che non crescono e tassi di inflazione difficili da controllare».

Che cosa potrebbe evitare il materializzarsi di questo scenario?

«Potrebbero aiutarci tre fattori. Primo, se il tasso di inflazione negli Usa avesse raggiunto un picco; non voglio essere troppo ottimista, ma ci sono segnali che negli Usa siamo abbastanza vicini al picco. Ciò vorrebbe dire che, se non ci saranno altri shock, l’inflazione statunitense non finirà domani ma non sarà un fenomeno di lungo periodo. Il “se” va preso molto seriamente: se non si ripresenteranno ondate di pandemia, se la guerra non degenererà, se si attenueranno le strozzature nel commercio internazionale come sembrava prima di guerra. Soddisfatti tutti questi se, l’attuale politica di intensa stretta della Fed, anche se partita in ritardo, potrebbe essere efficace nel breve-medio termine».

Il secondo fattore?

«Un accordo rispetto alla situazione bellica. Certo, non dobbiamo illuderci: anche se ci fosse una tregua, si concluderebbe la guerra “calda” ma non quella fredda. Servirebbe comunque per attenuare la crescita dei prezzi di energia e delle materie prime e per evitare tensioni nei beni alimentari (con carestie nei paesi africani più poveri), oltre che per superare il picco di un dramma umanitario che noi europei non possiamo tollerare».

Terzo?

«Il terzo elemento spetta all’Europa: tocca alle istituzioni dell’Unione europea capire che la via d’uscita sta nel rendere ricorrente quella politica fiscale centralizzata che ha attuato in via d’emergenza con il Next Generation – EU. Per varare tale programma, sono state decisive le condizioni eccezionali della pandemia. Ma non è una condizione eccezionale anche la guerra, o il problema degli approvvigionamenti energetici e di quelli alimentari? Purtroppo, da quindici anni, siamo immersi in una sequenza di shock eccezionali che giustificano una capacità fiscale centralizzata eccezionale. Nella difficile situazione in cui si trova la Bce, una politica fiscale di questo tipo sarebbe di grande aiuto».

Che cosa succederebbe?

«Si sosterrebbe l’economia dell’Unione con nuovo debito (pur se temporaneo) centralizzato a livello europeo. Non si aumenterebbero gli squilibri dei paesi con alto debito pubblico, si contrasterebbe il ristagno delle economie nazionali e la Bce avrebbe più libertà di manovra per attuare strette monetarie, senza doversi preoccupare troppo delle tensioni di bilancio negli stati membri ad alto debito pubblico».

Uno scenario da ultima spiaggia?

«Non ci sono molte alternative. Il vero salto di qualità per contrastare il doppio shock (pandemico e bellico) ed evitare una severa stagflazione dell’economia europea, è riprodurre una capacità fiscale centrale. Va aggiunto che, per ottenere lo scopo, non basta oggi usare questa nuova capacità fiscale centrale per stabilizzare o per attuare riforme e investimenti nazionali. Si tratta soprattutto di produrre beni pubblici europei. Un primo ovvio bene pubblico è la sicurezza europea, per organizzare una difesa non subordinata ad altri. Un altro bene pubblico potrebbe essere l’approvvigionamento centralizzato dell’energia, invece di lasciar competere tra di loro i paesi europei per accaparrarsi contratti con paesi (peraltro molto instabili). Ma l’elenco dei beni pubblici è corposo: per esempio, approvvigionamenti comuni indurrebbero la costruzione di gasdotti diversi da quelli che abbiamo. Tutto ciò, inevitabilmente, creerà tensioni rispetto alla transizione ‘verde’. La scommessa è di gestire l’esistente senza rinunciare al futuro. L’Unione europea è chiamata a fare un salto di qualità, che ci avvicinerebbe al sogno federale. Se non si fa in un momento così drammatico, non si farà mai più».