Il Rapporto analisi sui settori industriali Intesa-Prometeia di ottobre prevede crescita debole. Ma, aldilà della media, molti settori industriali corrono più veloci. Grazie a bilanci record nel 2023 e alla capacità di usare alcune carte strategiche. Ecco quali
Dall’adagio all’andantino. Se fosse un tempo musicale, lo stato di salute del sistema produttivo italiano, secondo l’ultimo Rapporto analisi sui settori industriali Intesa-Prometeia, si potrebbe definire così. A un 2024 lento e con qualche frenata, per cui la previsione è che l’attività chiuda con un meno 1% e il fatturato a meno 1,7% seguirà viceversa un 2025 e 2026 in cui il fatturato del settore manifatturiero si darà un ritmo più spigliato, troverà l’energia per crescere e salire nel primo anno dello 0,9% e poi dell1,3% in media, con alcuni settori, come vedremo, che correranno molto di più.
Sarà bene non storcere il naso se questa prospettiva non sembra entusiasmante, considerando come pochi giorni fa il direttore generale del Fondo monetario Kristalina Georgieva ha dipinto il mondo: avviluppato in un destino comune di bassa crescita e con il Pil del continente europeo inchiodato all’1,45% fino al 2029. Scenario a cui ora si aggiunge anche il rischio dei dazi dell’era Trump.
In realtà, l’industria italiana è in forma migliore di quello che vuole dare a vedere. Vitale, capace di cercare di darsi più efficienza nei costi e nell’utilizzo del capitale e in grado di giocare con velocità la sua carta vincente, cioè l’export. Al quale il rafforzamento del dollaro, che accompagna la nuova presidenza americana, potrà dare un assist, osserva il Rapporto.
Ma il vero driver del nostro export, basato non sulla lunghezza della filiera ma proprio sul suo opposto, sarà l’attitudine delle imprese a cercare vie alternative al commercio, a riposizionarsi con prontezza e rafforzare i commerci con i paesi terzi, con quel “Sud Globale” anch’esso in cerca di una alternativa al mondo centrato sugli Usa.
In vent’anni, la propensione all’export del manifatturiero italiano è passata dal 32% al 50% del valore della produzione, e questo rapporto continuerà a salire (il paper Intesa-Prometeia stima un saldo di 124 miliardi di euro nel 2026).
L’inflazione in discesa verso il 2% ha già prodotto i primi tagli delle banche centrali. Il capo economista di IntesaSanpaolo, Gregorio De Felice, prevede un quarto taglio a dicembre di quest’anno e poi, nel 2025, tagli per 100/150 punti base che ci porteranno a tassi di interesse neutrali nel 2026, normalizzando il costo dei mutui e del finanziamento delle imprese.
Zoppicheranno ancora i consumi, invece. È vero che le famiglie hanno potuto ricostruire il tesoretto dei loro risparmi, ma sono aumentate quelle in difficoltà, anche tra i lavoratori dipendenti (con un indice di povertà famigliare assoluta al 9,1%), quindi la ripresa dei consumi sarà d’ora in poi più selettiva (elettronica e tlc, farmaceutica, largo consumo e servizi i settori maggiormente beneficiati).
I veri protagonisti dell’orizzonte di previsione del Rapporto sono invece gli investimenti. Le imprese del manifatturiero hanno registrato nel 2023 un record storico: il picco dei margini nei propri bilanci. Mai stati così abbondanti (l’ebitda è arrivato all’11,1% sul fatturato). Un fenomeno, oltretutto, che non ha escluso nessuno, ha coinvolto imprese gradi e piccole in tutti i settori, ma ha baciato soprattutto i materiali da costruzione (16,8% ebitda), seguiti a breve distanza da farmaceutica, largo consumo, elettronica, mentre indietro sono rimasti gli elettrodomestici (7,2% ebitda su fatturato).
Le leve strategiche usate dalle imprese per raggiungere questa performance storica si chiamano certificati di qualità, brevetti, marchi, certificazioni ambientali ed energie alternative. Molte imprese hanno infatti capito il valore dell’autoproduzione con fonti rinnovabili e se le sono costruite in casa, dandosi maggiore efficienza sul fronte di uno dei costi più pesanti per l’impresa e qualificandosi come top performer.
Un altro traino fondamentale per le imprese, quello che ha contribuito di più all’aumento dei margini insieme al fattore energie alternative appena detto, è stato il settore costruzioni: le imprese che hanno saputo inserirsi in questa filiera, che marciava a pieno ritmo grazie alla politica di bonus e superbonus, e diventarne fornitori, ha dato benzina ai risultati di bilancio.
Se l’orizzonte promette crescita, ma a un ritmo medio dell’1% annuo, c’è però un gruppo di lepri che corre a velocità ben superiore. Elettronica, largo consumo, farmaceutica, meccanica, sorpassano tutti il 2% di crescita del fatturato (deflazionato) nel 2025/26, l’elettronica fa ancora meglio, più del 5%. Nella media si terranno gli elettrodomestici, alimentare e bevande, metallurgia, sistema moda e mobili. I settori più deboli, quelli che soffriranno di più, sono i beni intermedi, l’auto, i prodotti in metallo e i materiali da costruzione.
Ma se l’obiettivo di tutti era tornare ai livelli pre-covid, cioè ai risultati del 2019, quasi un’età dell’oro, ebbene l’orizzonte del 2026 non andrà poi tanto male: su 15 settori del manifatturiero, solo 4 si troveranno ancora sotto il livello benchmark (materiali da costruzione, altri intermedi, sistema moda, intermedi chimici). Gli altri, a cominciare dai tre campioni – farmaceutica, elettrotecnica, largo consumo – potranno contare su un fatturato ben più brillante di quello del 2019.
Complessivamente, il nostro tessuto manifatturiero si presenta insomma solido, dice il Rapporto. La quota di imprese con un Roi superiore al 10% è in crescita (supera o si avvicina al 50% in 9 settori su 15); le imprese continueranno a investire (soprattutto il largo consumo, la farmaceutica, l’elettrotecnica e il sistema moda). E riusciranno a farlo senza indebitarsi, potendo attingere alle riserve di liquidità accumulate negli ultimi anni. Proprio il contrario della situazione in cui ci troviamo tutti come paese.