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Capitale e rendita: flessibilità all’inglese

Il governo britannico aggiorna le regole sulla previdenza complementare: niente più conversione obbligatoria in rendita del montante, spazio alla possibilità di ottenere un capitale. In Italia intanto...

Andrea Battista
Battista

La previdenza complementare procede “a ondate” e queste ondate corrispondono in genere ai cambiamenti normativi. Tra una riforma e l’altra, le evoluzioni del sistema sono in genere graduali.

Dopo la riforma Fornero, ci si poteva attendere un intervento in tema di pensioni complementari, tanto più che l’esigenza di un forte pilastro privato non viene ormai messa in discussione da alcuno.

Non siamo affatto tra coloro che giudicano a priori la bontà del policy making sulla base del numero e dell’invasività dei provvedimenti. Pochi interventi mirati possono fare molto di più nel nostro contesto. Nulla è però sinora successo.

Forse per questo motivo ha fatto scalpore la recente decisione del governo inglese, in particolare del cancelliere dello scacchiere George Osborne, di consentire ai futuri pensionati di percepire anche totalmente la prestazione pensionistica in forma di capitale, come già avviene in altri sistemi previdenziali (tipicamente il caso statunitense).

Detto in altro modo, é la liberalizzazione del processo di conversione in rendita. Fa specie che avvenga in un sistema previdenziale relativamente maturo, dotato di un mercato delle rendite più spesso e articolato di quello italiano.

A quanto letto sulla stampa britannica, pare che sia stata la classica decisione “out of the blue sky”. L’Economist gli ha dedicato due pezzi, poca o nessuna elaborazione è avvenuta ancora in Italia.

Nel sistema italiano di previdenza, è previsto che ogni forma previdenziale complementare “incorpori” in qualche modo una convenzione che determina i coefficienti di conversione, in base alla quale il cliente al momento del pensionamento converte in rendita il montante maturato almeno nella misura del 50% del capitale medesimo. Dal canto suo, il sistema pubblico di primo pilastro non offre nessuna flessibilità e converte in pensione il 100% del montante contributivo, che é nozionale e non finanziario.

Oggi quasi nessuno opta per la rendita, laddove tale scelta è opzionale (è il caso delle polizze vita).

La differenza tra le due percentuali – il 50% minimo delle forme complementari e l’1/2% effettivo dei prodotti vita – è una misura della “forzosità” del meccanismo di conversione.

Due sono gli argomenti di fondo che si potrebbero opporre alla recente decisione britannica:

  • un argomento paternalista del tipo “le persone sottovalutano i loro bisogni di lungo periodo ed il rischio di longevità cui sottostanno; tenderebbero a spendere subito tutto, lasciando scoperta la sempre maggiore “coda” della durata di vita”;
  • un secondo argomento è di tipo fiscale: il risparmio previdenziale è stato incentivato a spese della collettività, non possiamo pensare che venga subito speso tutto in una bella Maserati (l’esempio è dell’Economist!).

Entrambi gli argomenti sono parziali e non risolutivi, a mio avviso.

Il primo, aldilà del possibile rifiuto ideologico di tutti gli approcci paternalisti, è tutto da provare anche dal punto di vista empirico. L’importanza che riveste la destinazione ereditaria e la storica propensione al risparmio, specie in un paese come l’Italia, proverebbe piuttosto il contrario, almeno nei casi normali.

Il secondo argomento confonde l’oggetto dell’incentivazione. La normativa fiscale premia o dovrebbe premiare il risparmio di lungo periodo, non la copertura del rischio di longevità. Sarebbe come incentivare solo i prodotti che coprono il rischio finanziario per il cliente. Se è giusto non discriminarli, è altrettanto giusto non imporli come forma di risparmio previdenziale – è questo l’equilibrio cui con qualche fatica si è giunti nel nostro sistema di previdenza complementare.

Ci pare però che i punti deboli della posizione dei contrarians alla liberalizzazione del tasso di conversione in rendita siano altri.

Dal punto di vista dell’offerta, è evidente che lo stimolo cui soggiace chi deve conquistare i clienti è ben diverso se la conversione non è obbligatoria e diversi sono i risultati che dovremmo attenderci in tema – ad esempio – di innovazione di prodotto.

Ma il punto veramente chiave è dal lato della domanda e questo punto non riguarda il momento dell’erogazione della prestazione pensionistica ma piuttosto il momento dell’adesione.

La limitazione delle facoltà di scelta su lunghi orizzonti temporali, così come avviene per la non reversibilità dell’adesione alla forma pensionistica, crea forti disincentivi a prendere decisioni “intertemporalmente” coraggiose in un contesto di incertezza. Minimizzare il rischio “di rimpianto” della conversione in rendita implica non aderire alla forma pensionistica, se la conversione è obbligatoria.

Paradossalmente, dunque, la piena libertà di scelta è molto adatta laddove il sistema complementare è meno maturo e la decisione di prendervi parte più sofferta e meno diffusa.

In sintesi, pare ragionevole che maggiore “flessibilità in uscita” possa comportare maggiore facilità di accesso alla transazione. Un po’ come capita notoriamente sul mercato del lavoro.

Può valere la pena provare ad aumentare la flessibilità delle decisioni sin dall’avvio della fase di accumulo, per stimolare più risparmio previdenziale. Magari conducendo qualche test empirico (stile ricerca di mercato) oppure lasciando un maggior favor fiscale per le rendite. Ovviamente sempre condizionando l’incentivo fiscale pieno di carattere previdenziale a mantenere il risparmio molto a lungo, sino all’età di pensionamento.

L’esempio inglese merita di essere valutato seriamente per l’inserimento nel novero dei ritocchi del sistema italiano. Una maggiore flessibilità, assieme alla necessaria maggior consapevolezza del gap previdenziale, potrebbe indurre il tanto auspicato decollo del secondo pilastro.