Astensione, speranza in un "Salvatore", ricerca della stabilità. Ecco come hanno giocato questi tre fattori nell'urna
Dopo la sbornia di trasmissioni di radio e televisione, tutti gli articoli pubblicati e le migliaia di twits e messaggi vari su Facebook e Instagram, sembra di saperne meno di prima su queste elezioni, a parte la vittoria risonante di Giorgia Meloni. Forse ci troviamo di fronte al classico paradosso della troppa informazione che si traduce in confusione e alla fine nessuna informazione rimane nella mente del cittadino frastornato. Per capire più a fondo queste elezioni in prospettiva, che cosa dobbiamo tenere a mente? Credo tre elementi connessi: astensione, ricerca del Salvatore (ora dovremmo dire: Salvatrice) e conseguente volatilità elettorale, stabilità governativa.
Quanto all’astensione, è sicuramente corretto notare che questa volta la partecipazione al voto è diminuita di quasi 10 punti, un calo senza precedenti nella democrazia italiana. Aggiungiamo che non valgono le considerazioni sul cattivo tempo e il conseguente scoraggiamento degli elettori: se mettiamo insieme tutte le elezioni dal 1946 (referendum compresi), ci sono stati altri eventi elettorali che hanno coinciso con la pioggia e il risultato non è mai stato quello di questa volta.
Vale assai poco anche la considerazione che la vittoria dell’alleanza di centro-destra fosse nettamente annunciata da tutti i sondaggi, che – è noto – indovinano sempre quando le tendenze sono nette e non indovinano mai quando i partiti o le coalizioni sono elettoralmente più vicine in termini di percentuali e, quindi, sarebbe più necessario anticipare il risultato. Si dice: poiché il risultato era scontato la gente non è andata a votare. Ma il cittadino non è uno studioso di elezioni: vota o non vota per altri motivi. E indubbiamente già dagli anni Novanta la quasi scomparsa delle grandi ideologie e poi del radicamento territoriale dei partiti spiega bene il continuo declino elettorale. Ma dopo la Grande Recessione (2008-14) a questo elettore che non vota per distacco dalla politica, per indifferenza, si è aggiunto quello che non vota per disaffezione, insoddisfazione, alienazione. Ovviamente non tutta la protesta si traduce in non voto. Negli anni si è tradotta anche nel votare per nuovi attori.
E qui si passa al secondo e connesso fenomeno. Dopo la crisi e il terremoto partitico dei primi anni Novanta vi è stata nei decenni successivi un’accentuata volatilità elettorale ovvero un cambiamento di comportamento politico. Una volta negli studi elettorali il mantra era che la spiegazione prevalente del voto era data da come il cittadino aveva votato nelle elezioni precedenti. Questa spiegazione è da quasi tre decenni destituita di senso nel caso italiano – ma solo in parte nelle altre democrazie europee. Una parte consistente dell’elettorato italiano insoddisfatto ha cercato e inseguito il leader politico che gli dava speranze, anche notevolmente illusorie, in quel momento e che sapeva al tempo stesso fare campagne elettorali tali da riuscire a manipolare l‘opinione pubblica influenzando il voto. Ci è riuscito Berlusconi a metà degli anni Novanta e, per venire più vicino a noi nel tempo, ancora Berlusconi nel 2008, Renzi nel 2014, Salvini nel 2019, Grillo e Casaleggio nel 2018 e ora Meloni. Dunque, un elettore insoddisfatto alla ricerca del Salvatore/Salvatrice, e di conseguenza pronto ad illudersi ed accettare di farsi manipolare, ma poi ogni volta deluso.
Affinché ci sia una Salvatrice occorre che passato il momento (elettorale) delle promesse impossibili il governo abbia tempo di realizzare quelle più modeste ma possibili, che accontenterebbero almeno qualcuna/o. Ma se si cambia governo quasi ogni anno, neanche questa soluzione minimale è possibile. Di qui, tutto il dibattito pluridecennale sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale e, dopo diversi esperimenti, la legge elettorale vigente. Approvato nel 2017, il nuovo sistema elettorale, semi-proporzionale, riesce comunque ad assicurare una maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione che raggiunga una maggioranza anche solo relativa. In queste elezioni la coalizione di centro destra con quasi il 45% dei voti (considerando tutte le liste) ha preso circa il 60% dei seggi (dati relativi alla Camera). Come, però, si è visto dopo le elezioni del 2018 anche questo non basta per assicurare la stabilità del governo, che alla fine dipende dalle volontà dei leader.
Insomma, ci sono tre elementi di fondo da tenere a mente ma da oggi quello che conterà di più sarà la capacità della Meloni di assicurare stabilità al governo. Dovremmo dire: ‘fusse che fusse la vorta bbona”?