Campagna elettorale.
Per muovere l’elettore non basta che sia “retrospettiva"
Leonardo Morlino
MORLINO

La campagna elettorale, già iniziata, presenta alcuni elementi di incertezza sia per i fattori contestuali che per le scelte che i leader politici dovranno fare per cogliere al meglio le opportunità offerte dalla situazione. Lasciando da parte le incertezze dovute alla nuova legge elettorale e al parziale cambiamento dell’offerta partitica rispetto al 2013, il terzo e importante fattore di incertezza viene dal fatto che le elezioni si terranno in un periodo che porta ancora i segni della crisi economica più lunga dal secondo dopoguerra ad oggi.
La conseguenza della crisi è stata la forte crescita dello scontento e l’emergere di una radicalizzazione e connessa protesta: sia attiva, specie votando 5 Stelle e Salvini, sia passiva, rimanendo a casa e soprattutto non votando per la sinistra, sia infine alienata, che ha abbandonato completamente ogni contatto con la politica. È emerso un sistema partitico radicalizzato non solo rispetto al conflitto tra destra e sinistra, ma anche a quello pro/anti sistema vigente, caratterizzato da critica radicale ai politici eletti e in carica, o da una proposta di democrazia diretta che superi i limiti di una democrazia rappresentativa ormai considerata delegittimata, o anche da proposte radicali di politiche nei settori più sensibili (immigrazione, occupazione, tasse, e altri).
Nella prospettiva della campagna elettorale il punto è, da un lato, quanto di questa radicalizzazione resterà e, dall’altro, quali sono le strategie da perseguire per limitarla o mantenerla, a seconda dei partiti che si considerano. Così, ad esempio, per Liberi e Uguali l’unica possibilità di superare il passato sarebbe di riuscire a riportare a votare i ‘protestatari passivi’. Per i 5 Stelle si tratta di alimentare e dare le ragioni della protesta già attiva, magari allargandone la portata con proposte, non necessariamente credibili, ma che diano speranze e attese. Almeno dalla crisi del 1992 l’elettorato italiano ha risposto sempre positivamente a campagne elettorali che riuscivano a creare attese, o almeno speranze in futuri migliori. Così è avvenuto per Berlusconi nel 1994 e per Renzi nel 2014.
Dal punto di vista del PD, si dovrebbe rovesciare prospettiva e, costruendo sul buon governo del 2017, chiedersi se il PD potrà e saprà approfittare dell’essere stato al governo per volgere a proprio favore le regole elettorali e l’uscita dalla crisi. A questo proposito un risultato empirico più volte riconfermato nel passato e fissato nel famoso detto di Andreotti (chi non lo ricorda? “il potere logora chi non ce l’ha”) è stato in questi anni più volte falsificato. Infatti, stare al governo durante una crisi economica o anche immediatamente dopo ha svantaggiato i leader e i partiti in quella posizione.
Più precisamente, le ricerche sul tema in questi anni hanno mostrato che gli elettori puniscono i leader non quando arriva la crisi economica (2008), ma quando i politici prendono le decisioni difficili (2010-12), ma necessarie per fare fronte alla crisi, tagliando le spese e nei fatti contenendo anche il complesso degli aiuti sociali che attenuano le disuguaglianze. Ma il PD non potrà solo concentrarsi sui risultati dell’anno passato riuscendo a presentarli come i primi successi a cui altri seguiranno se potrà governare dopo le elezioni. Ovviamente, mettendo in primo piano nella campagna elettorale i ministri che hanno fatto meglio.
Ormai nessuna campagna elettorale nelle democrazie contemporanee è solo ‘retrospettiva’, cioè gioca sui successi del passato. Occorrerà immaginare e promettere un futuro. Ma qui si apre quasi necessariamente la competizione che porta ad assumere impegni non realistici con tutti la potenziale, successiva disillusione.