La decisione della Federal Reserve americana di rivedere al rialzo i tassi di riferimento lascia intravedere una nuova fase nella congiuntura economico-finanziaria internazionale. L’impatto della decisione della Fed è in ampia misura legato alle scelte delle altre banche centrali e in particolare della Bce, i cui passi devono considerare uno scenario interno molto complesso e differenziato.
La recente decisione della Federal Reserve americana di rivedere al rialzo i tassi di riferimento lascia intravedere una nuova fase nella congiuntura economico-finanziaria internazionale. Nella riunione del FOMC (Federal Open Market Committee) del 15 marzo scorso è stato deciso di aumentare all’1% il rendimento riconosciuto sulle riserve bancarie (regolamentari e in eccesso) e di intervenire in modo da mantenere nell’intervallo 0,75-1% il tasso richiesto sui Fed funds. Rispetto alla situazione precedente in entrambi i casi l’incremento è pari ad un quarto di punto.
Nel motivare la sua decisione la Fed ha fatto riferimento alla situazione del mercato del lavoro e all’inflazione. La più recente rilevazione (febbraio 2017) posiziona il tasso di disoccupazione al 4,7%, un dato sostanzialmente in linea con il quadro prevalente alla vigilia della crisi del 2008-09. Le discrete prospettive di crescita sia per quest’anno sia per il 2018 autorizzano a ritenere acquisito questo quadro di bassa disoccupazione, difficilmente ancora molto comprimibile.
Da parte sua la dinamica dei prezzi fa ritenere allontanato il rischio deflazione. L’indicatore dei prezzi che la Fed mostra di tenere in particolare considerazione (Personal Consumption Expenditure price index) ha quasi raggiunto quota 2%: a gennaio, +1,9% nella versione completa e +1,7% nella versione core, cioè escludendo prodotti energetici e alimentari.
L’aumento deciso a metà marzo dalla Fed è il terzo realizzato dallo scoppio della crisi del 2008-09. Il primo ritocco (sempre di un quarto di punto) era avvenuto nel dicembre 2015, una mossa che si fece allora intendere sarebbe stata seguita in tempi relativamente ravvicinati da altri interventi dello stesso segno. La crescente incertezza diffusasi nei mesi successivi a livello internazionale indusse a rimandare il secondo rialzo dei tassi che fu poi effettuato alla fine del 2016. Anche questa volta si è lasciato intendere che nel corso dell’anno verranno attuati altri rialzi (forse due).
Il progressivo rafforzamento di questa prospettiva indebolisce le quotazioni dei titoli di debito con conseguente risalita dei rendimenti. La contrazione del mercato delle obbligazioni con rendimenti impliciti negativi mette in evidenza le dimensioni dell’attuale processo di evoluzione: a metà 2016 i titoli governativi con rendimenti negativi ammontavano a $11,7 trilioni; poche settimane fa (inizio marzo 2017) questa particolare sezione del mercato finanziario risultava ridotta a $8,6 trilioni. La contrazione è stata particolarmente intensa per i titoli a più lunga scadenza (sette anni o più) il cui ammontare all’inizio del mese scorso ammontava a circa $ 500 mld, meno di un quinto di quanto rilevato a fine giugno 2016 ($ 2.600 mld).
L’impatto che le decisioni della Fed avranno sulla congiuntura finanziaria internazionale è in ampia misura legato alle scelte delle altre banche centrali e in particolare della Bce.
Grazie ad un secondo semestre relativamente favorevole, l’Europa ha chiuso il 2016 con un risultato economico moderatamente positivo (crescita annua +1,9% per l’intero continente, +1,7% per la sola area euro), meglio anche degli Stati Uniti. Nel biennio appena iniziato l’area dovrebbe confermare questo moderato ritmo di crescita in combinazione con una riduzione solo modesta dell’ancora elevato tasso di disoccupazione (solo a inizio 2016 scesa sotto il 10%). Dopo circa quattro anni, nel febbraio scorso il tasso d’inflazione dell’area euro ha riguadagnato quota 2% (negativo 12 mesi prima); nel mese successivo, però, la dinamica dei prezzi è ridiscesa a 1,5%, fermandosi allo 0,7% se considerata escludendo le componenti più volatili (prodotti energetici e alimentari).
Un fattore di fragilità dell’area europea è il fatto che le medie appena citate sintetizzano un campo di variazione relativamente ampio, circostanza che rende più difficile la costruzione di un ampio consenso sull’orientamento di politica monetaria e fiscale da seguire. Per quanto riguarda, ad esempio, la dinamica dei prezzi (HICP, Harmonized Index of Consumer Prices) a febbraio ben cinque paesi su 19 avevano raggiunto o superato quota 3%. Sotto il profilo della disoccupazione le differenze sono ancora più pesanti: a fronte di una media del 9,5% per l’intera area (febbraio), sei paesi sono in doppia cifra (con Grecia e Spagna intorno al 20%) mentre altri 5 paesi non superano il 6%, con la Germania al di sotto del 4%.
Nell’insieme la distanza tra la realtà statunitense e lo scenario europeo si presenta decisamente ampia. Per adesso la Bce non ha quindi operato rilevanti correzioni di rotta. Nell’ultima riunione ha mantenuto invariati i suoi tassi di riferimento: 0% sulle operazioni di rifinanziamento principale, 0,25% su quelle di rifinanziamento marginale, corrispettivo dello 0,40% per accettare i depositi delle banche. L’annuncio di una riduzione degli acquisti mensili di titoli (da 80 a 60 mld a partire da questo mese) risulta controbilanciato dall’esito della quarta e ultima asta TLTRO II (Targeted Long Term Refinancing Operations, seconda edizione) che si è conclusa con l’assegnazione a 474 banche dell’eurozona di 233 mld, quasi il doppio delle tre precedenti aste. Si tratta di liquidità a quattro anni e a tasso zero, per finanziamenti a imprese e famiglie (prestiti per l’acquisto di abitazioni esclusi); è prevista la corresponsione di un premio (tasso attivo pari a -0,4%) se l’ammontare di questi prestiti superasse un prefissato target di crescita. Nell’insieme, quindi, la liquidità monetaria a disposizione del sistema finanziario europeo si mantiene molto abbondante.
Quanto a lungo potrà prevalere in Europa questo scenario ovvero quando la Bce assumerà un orientamento simile a quello della Fed è domanda alla cui risposta concorrono molte considerazioni di segno diverso.
La circostanza di maggiore importanza è la relazione tra livello di indebitamento prevalente e solidità del processo di crescita. In gran parte dei paesi l’indebitamento non riguarda solo le amministrazioni pubbliche ma anche le imprese non finanziarie. A livello di area in rapporto al Pil il debito pubblico è al 92%, quello delle imprese al 105% (stima 2016). La differenziazione tra i diversi paesi è decisamente ampia con solo Germania e (in minor misura) Austria significatamene al di sotto di entrambe le medie. Un rialzo dei tassi renderebbe ovviamente più onerosa la gestione di questi debiti, e quindi più difficile il consolidamento della ripresa economica in atto.
Importanti componenti del sistema finanziario esprimono una richiesta di segno opposto, e cioè un rientro graduale della attuale politica monetaria molto accomodante. In molti paesi dell’eurozona la risalita in atto dell’inflazione si combina con rendimenti finanziari modesti, determinando per i risparmiatori un “double whammy effect” (una doppia sfortuna), con ricadute sia politiche sia economico-finanziarie non trascurabili.
Anche gli equilibri di importanti segmenti del comparto assicurativo sono messi sotto pressione dal persistere di rendimenti finanziari modesti o addirittura negativi. Ė il caso delle assicurazioni-vita tedesche i cui contratti (per circa la metà firmati almeno 15 anni fa) prevedono con elevata frequenza un rendimento nominale fisso. A questi impegni di lungo e lunghissimo termine si contrappongono politiche d’investimento di ben minore durata che risentono ampiamente degli attuali rendimenti finanziari particolarmente contenuti.
Per il sistema bancario la conclusione di un analogo ragionamento è decisamente più intricata: in questi anni lo spread tra tassi d’interesse attivi e passivi si è significativamente ristretto con ricadute negative sul margine d’interesse, ma un aumento dei tassi di riferimento che compromettesse la ripresa in atto avrebbe un impatto fortemente negativo sull’intensità dell’attività di finanziamento e costo del rischio.
Per affrontare questo punto è sicuramente opportuno evidenziare la significativa differenza che si è determinata tra la realtà statunitense e quella europea. Negli Stati Uniti il sistema bancario si dimostra da tempo in salute, avendo raddoppiato negli ultimi sei anni gli utili prodotti. I fattori ai quali può essere attribuito il “merito” di questo risultato sono ovviamente molteplici ma dalla lettura del conto economico del settore due appaiono particolarmente evidenti. In primo luogo, il deterioramento del portafoglio prestiti risulta da tempo ricondotto nei limiti della fisiologia: la gestione dei prestiti non performing ha assorbito nel 2016 appena il 6,7% dei ricavi, a fronte del 31% del triennio 2008-10. In secondo luogo, la tenuta del margine d’interesse è stata più che soddisfacente: posto uguale a 100 il dato del 2010, nell’arco degli ultimi sei anni non si è scesi mai al di sotto di 97 (2013) con il 2016 a quota 107. La contrazione dello spread tra tassi attivi e passivi è risultata complessivamente contenuta considerata la gravità della congiuntura e ha trovato ampia compensazione nella crescita del volume dei prestiti (+23% nel periodo 2010-16).
Ben diversa la situazione delle banche europee. Da un lato, la più debole congiuntura economica e l’approfondirsi di fenomeni di disintermediazione hanno determinato una crescita sostanzialmente nulla dei prestiti concessi a famiglie e imprese (-2% nell’insieme degli ultimi sei anni). Dall’altro lato, il forte connotato bancocentrico ha determinato un più ampio coinvolgimento delle banche nella lunga recessione economica. Da qui l’accumularsi di uno stock decisamente elevato di prestiti non performing: afine 2016, la loro incidenza nel portafoglio è risultata in media pari al 5,1% nell’area Ue, con 10 paesi in doppia cifra, a fronte dell’1,8% negli Stati Uniti. Nel periodo 2010-16 gli indispensabili accantonamenti hanno così assorbito negli Stati Uniti meno di un quinto del risultato operativo mentre per l’insieme delle maggiori banche Ue si sale in media fino a quasi il 60%.
Sull’andamento del margine d’interesse ha anche influito il diverso profilo della politica monetaria: la Fed, infatti, ha limitato il suo orientamento accomodante entro il confine dei low interest rates, mentre la Bce si è spinta (da giugno 2014) fino ai tassi negativi. Più in dettaglio, la Fed ha sempre remunerato la liquidità in eccesso depositata dalle banche: lo IOER (Interest Rate on Excess Reserves), mantenuto a lungo appena positivo (0,25% da dicembre 2008 a dicembre 2015), è stato successivamente aumentato in sintonia con il rialzo del tasso richiesto sui Federal Funds (ora è quindi pari all’1%). La Bce, da parte sua, ha prima (luglio 2012) azzerato questo tasso e poi (giugno 2014) trasformato questo rendimento in un onere in modo da disincentivare la costituzione di queste riserve di liquidità e contestualmente stimolare le banche ad intensificare l’attività di prestito (il tasso sul deposito overnight è ora a -0,40%).
Un terreno da monitorare in questa fase di evoluzione della congiuntura finanziaria internazionale è quello dei movimenti di capitale dei paesi emergenti, Opportuno in proposito ricordare quanto avvenuto nel maggio 2013, quando un semplice accenno di Ben Bernanke, allora governatore della Fed, alla possibilità di un rallentamento (tapering) nel ritmo dell’acquisto di titoli (quindi minore immissione di liquidità monetaria) spinse larga parte degli operatori finanziari a riconsiderare rapidamente il proprio posizionamento, invertendo le massicce operazioni di carry trade in essere. Si registrò quindi un’intensa ondata di vendite che determinò forti deflussi finanziari da molti paesi emergenti. Nell’arco di poco più di un semestre (maggio-dicembre 2013) le valute di molti paesi subirono un forte deprezzamento (fino ad un max del 25% nel caso dell’Indonesia)
Il riposizionamento dei rendimenti finanziari non dovrebbe questa volta determinare per i paesi emergenti destabilizzanti movimenti di capitali. L’andamento recente del mercato dei titoli (pubblici e societari) dei paesi emergenti offre supporto a questa prospettiva.
Anche se non mancano aspetti di fragilità, la situazione dei paesi emergenti appare oggi complessivamente meno vulnerabile. Meno rilevante, inoltre, risulta il rilievo degli afflussi di capitale: nel 2005-07 il loro ammontare superava in media l’8% del Pil, percentuale ora scesa al 2,5%. Inoltre molti paesi emergenti stanno sperimentando un significativo processo di normalizzazione della dinamica dei prezzi, circostanza importante perché rende possibile un graduale allentamento della politica monetaria.
Ponendo a confronto la situazione economica attuale con quella di metà 2013 alcuni paesi emergenti appaiono in condizione decisamente più brillante. È il caso, ad esempio, di India e Indonesia che progrediscono a ritmi elevati (crescita annua del 7% e 5%, rispettivamente) e sono accreditati di prospettive anche migliori per il prossimo futuro. All’estremo opposto si trovano paesi come Turchia e Sud Africa, alcuni anni fa considerati in sicura ascesa, e ora invece in evidente difficoltà (crescita negativa o comunque modesta, elevati tassi di disoccupazione, rilevante disavanzo nei conti con l’estero, scenario politico carico di incertezza).
Russia e Brasile, infine, sono stati entrambi penalizzati dallo sfavorevole andamento del mercato delle materie prime di cui sono importanti esportatori. Pur ancora lontani da una soddisfacente condizione mostrano, tuttavia, un avviato processo di recupero.
Una considerazione a parte merita la Cina da tempo impegnata in un complesso processo di riequilibrio strutturale del suo modello di sviluppo (meno investimenti, più consumi), cui si somma la necessità di fronteggiare due emergenze congiunturali: ridimensionare la bolla finanziaria e immobiliare interna; contenere il deflusso di capitali all’estero senza interrompere il graduale processo di liberalizzazione in atto. Per quanto riguarda il contesto finanziario interno la situazione si presenta delicata non solo per l’intensità del processo di crescita del credito (+13% a/a a febbraio) ma anche per lo sviluppo dello shadow banking e per lo stretto legame che quest’ultimo ha stabilito con la parte più vulnerabile del circuito bancario, cioè le banche di minore dimensione. La stabilizzazione delle riserve valutarie (a circa $3mila mld) sembra al contempo indicare un’attenuazione del deflusso di capitali verso l’estero, deflusso risultato particolarmente intenso a cavallo tra il 2015 e il 2016. Attente a non indebolire la dinamica economica interna, anche le autorità cinesi sembrano orientate ad adottare una politica monetaria gradualmente meno accomodante. In risposta probabilmente anche ai movimenti della Fed, a metà marzo, per la seconda volta nell’arco di poco più di un mese, è stato deciso un contenuto rialzo dei tassi a breve termine.