D. Archibugi, "Maestro delle mie brame. Alla ricerca di Federico Caffè", Fazi Editore, 2022, pagg.240, 18 euro
La rievocazione di una figura guida per una generazione di economisti. Ma anche una storia di formazione, quasi un romanzo, che tratteggia un uomo che "Non criticava per distruggere ma per correggere, costruire e migliorare, illuminato sempre da un alto senso del dovere e del bene comune”
La misteriosa scomparsa di Federico Caffè, 35 anni fa, è rimasta un mistero irrisolto. Molto è stato scritto sul caso, ma l’approccio del volume di Daniele Archibugi è diverso. Sì, c’è la cronistoria delle ricerche affannose degli allievi; il racconto della gestione del caso da parte dei docenti più importanti a lui vicini, decisi a tenere nascosta il più possibile la gravissima depressione di cui egli soffriva; c’è tutto il dolore che la scomparsa del Maestro Caffè generò in tanti, ma c’è molto altro.
Il volume è un romanzo di formazione, riguardante l’evoluzione del protagonista verso la maturazione e l’età adulta tramite prove, errori ed esperienze. Queste note autobiografiche, unite a un tributo di grandissimo affetto, non fanno velo a una scrittura rapida e avvincente, rendono la lettura del libro interessante e piacevole. Ma, si dirà. Perché questa sito di Economia e Finanza si occupa di un romanzo di formazione?
La spiegazione – come sarà più chiaro alla fine di queste brevi note – sta tutta nella personalità di Federico Caffè e nella misura in cui, conoscendo il suo modo di porsi, questa figura può essere ancora di guida alle nuove schiere di studiosi dell’economia.
Federico Caffè è stato maestro di intere generazioni di illustri studiosi, basti citare, come fa l’autore, Mario Draghi, Ignazio Visco, Ezio Tarantelli, Fausto Vicarelli, Franco Archibugi; Giorgio Ruffolo, Marcello De Cecco, Bruno Amoroso ed Enrico Giovannini. Ma non si tratta solo dei suoi più illustri allievi; Caffè era di una disponibilità inesauribile verso tutti gli studenti. Aveva laureato oltre 1.200 persone (chi scrive è una di queste). “Quando andò fuori ruolo nel 1985 era stato insegnante per più di trent’anni senza mai sottrarsi dal fare una lezione o dall’interloquire con gli studenti agli esami… «Non ho mai spostato la data… per non creare disagi agli studenti che si sono prenotati». Tanta disponibilità scaturiva da una caratteristica particolare; la grande curiosità che aveva per il prossimo e in particolare per i giovani”.
Archibugi si interroga poi sul perché dopo la sua scomparsa ci siano state così tante testimonianze di affetto, non si tratta del desiderio di associarsi a un caso famoso: “Queste testimonianze mostrano che in ogni rapporto umano che instaurava, col suo garbo e la sua riservatezza, Caffè lasciava un seme destinato a fiorire. Chi è entrato in contatto con lui si sente in debito per quello che ha ricevuto e allo stesso tempo colpevole perché non ha avuto l’occasione di ricambiare. E tenta di saldare quel debito con gli strumenti vigorosi del ricordo e della narrazione”.
Il libro ripercorre passo passo tutti gli eventi dolorosi che avevano portato Federico Caffè ad una grave depressione: la sua malattia e quella del fratello, i lutti familiari, la perdita dei suoi amatissimi allievi, con l’assassinio di Ezio Tarantelli, la scomparsa prematura per malattia di Franco Franciosi e per incidente di Fausto Vicarelli, ma, soprattutto, la fine dell’insegnamento attivo. L’istituto di Politica Economica era la sua casa e la sua famiglia dove trascorreva 12 ore al giorno e dove faceva da direttore, ma all’occorrenza anche da bibliotecario e bidello. Una lettera di Caffè all’autore, nel suo stile immediato e conciso, è davvero illuminante “ “L’interruzione del filo diretto con gli studenti si è dimostrata molto più dura del previsto. A questo si aggiunge la buona volontà delle persone che mi propongono i lavori più impegnativi, come se dovessi iniziare una carriera e non concluderla… Quello che è incomprensibile è che non si rendano conto che anche il cervello invecchia, che non sono assolutamente in grado di fare qualcosa di creativo (ammesso che ne abbia fatto) e che posso andare avanti con lavori in certo senso artigianali” .
La depressione in cui era caduto era veramente acuta, né valse ad aiutarlo uno psichiatra da cui lo condussero in gruppo i professori a lui più vicini. Non voleva farsi curare. Racconta Archibugi che i professori avevano deciso di tenere nascosta la cosa, sia perché all’epoca c’era ancora uno stigma per questo tipo di malattia, sia perché temevano – come lo stesso Caffè – che la diffusione della notizia avrebbe potuto danneggiare la carriera delle nuove leve dei suoi allievi e imposero questo comportamento anche ai ricercatori più giovani. Illuminante è, purtroppo, quanto lo stesso Caffè scrive all’amico Carlo Ruini solo pochi giorni prima della sua scomparsa. “A me è accaduta la cosa più ingiusta e impensata: una subdola depressione mi ha privato di un qualsiasi ragionamento; le abituali amnesie del periodo senile sono diventate totali. Tieni la cosa riservata perché le persone più vicine a me pensano che possa recuperare. Io ne dispero… ma vie d’uscita non ne vedo:”
Capire la figura umana di Caffè, oltre che quella del Maestro e dell’economista, come si è detto in premessa, è un esercizio utile a chi vuole studiare economia. Nei convegni di presentazione di questo volume, molti si sono interrogati sul perché Caffè fosse così famoso in mancanza di una precisa teoria a lui imputabile.
La risposta, duplice e “antica”, la si trovava già molti anni fa su Rivista Bancaria – Minerva Bancaria, di cui Federico Caffè fu per lunghi anni membro autorevole del Comitato Scientifico fino alla sua scomparsa. La rivista pubblicò gli interventi del convegno del 1991 per la presentazione del volume degli scritti di Caffè, curato da Nicola Acocella e Maurizio Franzini, La solitudine del riformista. In tali interventi, la prima risposta la fornisce il direttore dell’epoca, il suo collega e amico Francesco Parrillo. Il Maestro Caffè aveva salda la convinzione che l’economia fosse una scienza sociale, da mettere al servizio dei più deboli e per riparare ai guasti che un mercato senza controlli poteva creare e che in effetti ha creato. E questo è forse il suo più grande insegnamento. “Non criticava per distruggere, per iconoclastia, ma per correggere, costruire migliorare, illuminato sempre da un alto senso del dovere e del bene comune” … Non viviamo in un mondo di angeli – secondo la concezione di Caffè – in un mondo fatto di pace di armonia, ma in un mondo di urti, di contrapposizioni, di lotte, di disuguaglianze, di disparità profonde; il posto di Caffè è accanto ai poveri, agli emarginati ai perseguitati”.
L’altra risposta si trova nell’intervento di Pierluigi Ciocca che scriveva: “Non c’è in letteratura un ‘teorema Caffè’, in nessuna delle 100 branche specialistiche in cui l’ ‘economica’ è frammentata. Se si pensa in termini di ‘economia politica’ sono pochissimi gli economisti che hanno davvero segnato la disciplina… Rispetto a questo eletto manipolo, sono una sterminata moltitudine coloro i quali hanno tentato di dar nome a un ‘teorema’ non solo senza riuscirvi, ma nella ignoranza dei precedenti e dei predecessori… a questa moltitudine di ‘inconsapevoli’ Caffè non volle appartenere”.
Ciocca continua il suo intervento elencando almeno tre fra i molti contributi importanti dati da Caffè: sul concetto di politica economica, “Caffè moveva da una concezione alta dell’intervento nell’economia, dei suoi fini in primo luogo”; sui limiti dei mercati finanziari, e di questo la Grande Crisi ha confermato oltre misura lo scetticismo del Maestro; su l’allarmismo in politica economica che può creare indebiti condizionamenti sul corpo sociale. In definitiva, conclude Ciocca, “Caratteristica, punto di forza del lavoro analitico di Caffè è la padronanza della teoria”. Una padronanza che lo porta a introdurre Keynes in Italia contro una scuola italiana valorosa e che egli amava (Ricci, Del Vecchio, Bresciani, Einaudi), ma che rifiutava il nuovo corso, cioè Keynes.
Archibugi nel suo libro racconta da vicino la vita di Federico Caffè, da un punto di vista certamente privilegiato, quello “del figlio mancato”, e – oltre a un patrimonio di ricordi, caro a chi ha conosciuto questo maestro, e alle cause della sua scomparsa – mette in luce la grande missione culturale ed educativa di Caffè. In definitiva, come scrive Archibugi, “Se ho mai conosciuto un santo in vita mia, questo era Federico Caffè per il calore umano che sapeva trasmettere a tutti coloro che gli si avvicinavano, per la passione con cui sosteneva il bene comune, per come usava la propria intelligenza e risolutezza nel proteggere i deboli”.