Gli effetti della Brexit si stanno rivelando negativi per la Gran Bretagna, dicono molti opinionisti e alcuni studi autorevoli. Troppo presto per valutare, dice il governo, che intanto perde il suo primo ministro nonché brexiter in capo. Storia del divorzio più clamoroso vissuto in Europa. E primi segnali per una nuova integrazione. La storia non è affatto finita...
1. La vicenda della Brexit si va sviluppando da quasi un decennio, e sotto alcuni aspetti da ancor prima. Infatti, dopo un’adesione respinta da De Gaulle e malgrado un’adesione decisa nel 1973 senza un referendum – 16 anni dopo l’istituzione della Comunità europea -, e la decisione di continuare a farvi parte assunta invece con un referendum del 1975 (con la maggioranza straordinaria del 67%), la Gran Bretagna ha sempre visto le Comunità, e successivamente l’Unione, sostanzialmente come un mercato unico dal quale eliminare qualsiasi aspirazione politica.
Ne ha più o meno sabotato ogni passo verso una integrazione che non fosse puramente economica, e ha sempre respinto il concetto di «ever closer Union» («un’Unione sempre più stretta», iscritto nei Preamboli di tutti i Trattati), che caratterizzava l’Unione europea, ma, con John Major, già nel 1992 ottenne l’opt-out dalla moneta unica – conservando la sterlina -; nel 1997, scelse di non partecipare alla Convenzione di Schengen, e, nel 2000, rifiutò la politica sociale comune, svuotando in larga misura, per se stessa, il senso dell’intero progetto così come era visto dagli altri Stati membri.
Un’Unione «à la carte», nella (dalla) quale il Regno Unito traeva i massimi vantaggi possibili, mentre contribuiva alla sua governance, arrogandosi però il diritto di respingere numerose iniziative, e di attribuire alla istituzioni comunitarie e dell’Unione – nella retorica politica ad uso interno – tutti i mali possibili. E ciò malgrado avesse ottenuto sconti sulle spese comuni. Si astenne anche dal contribuire alla stabilizzazione dell’euro e della sua crisi, e rifiutò di firmare, nel 2012, il Fiscal Compact (il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell’Unione economica e monetaria), che infatti non è una istituzione dell’Unione europea, ma dei 25 paesi che vi hanno aderito.
Nl 2011 il governo Cameron prese l’impegno di indire un referendum affinché qualsiasi incremento dei poteri dell’Unione non potesse avere luogo, per il Regno Unito, senza il suo consenso. Anche se autorità britanniche accertarono che il rapporto che si era instaurato tra poteri del Regno Unito e poteri dell’Unione europea era corretto, Cameron si impegnò, nel 2014, a rinegoziare la partecipazione britannica nell’Unione, e, nel 2015, a indire un referendum sulla stessa.
Il 23 giugno 2016, il referendum ebbe luogo, e il «leave» inaspettatamente prevalse sul «remain», e quindi le norme approvate dal Parlamento per rinegoziare la presenza britannica nell’Unione ne furono vanificate. Cameron, che si era speso a favore del «remain», terminò così la propria carriera politica. Gli successe Theresa May, che, pur favorevole a restare nell’Unione, si impegnò a perseguire la decisione popolare.[1]
2. La decisione spaccò il paese, non solo perché fu presa con una maggioranza risicata, ma perché fu basata su informazioni volutamente errate, specialmente in termini di risparmi e di sovranità. E sul mantra di “riprendere il controllo”, lo divise sia geograficamente sia demograficamente, mettendo a repentaglio la stessa unità del Regno (dis)-Unito. Votarono infatti per restare, con maggioranze in alcuni casi schiaccianti, Londra (59,93%), Liverpool, Manchester, Leeds e York – i maggiori centri dell’economia inglese – ma anche l’intera Scozia (62,00%) e l’Irlanda del Nord (55,78%), con implicazioni politiche durature.
Votò per restare anche una importante maggioranza dei giovani: tra i 18 e i 24 anni votarono per rimanere il 75% dei votanti; tra i 25 e i 49, oltre il 55%. Per andarsene, votò la parte più povera e nostalgica del paese, concentrata in Inghilterra, “l’Inghilterra profonda”, anziana (tra i 50 e i 64 anni, il 55%; oltre i 65, il 61%)[2] e memore di sovranità e imperi ormai svaniti, di concetti superati in un mondo sempre più integrato (se non a livello globale, quanto meno a livello Europeo, come ben aveva visto Keynes già nel 1919).[3] Separando immediatamente il paese da una tradizione che ne aveva fatto un luogo vivo, aperto e capace di contribuire al progresso europeo e mondiale, e creando seri problemi per i cittadini europei che lo avevano prescelto per vivere e lavorare. E creando anche problemi di equilibri interni alla stessa Unione: nel 2016 il Regno Unito aveva un peso grosso modo uguale, in termini di Pil, a quello dei venti stati membri più piccoli. [4] Saggia la norma della Costituzione italiana (art.75) che non ammette il referendum abrogativo in relazione ai trattati internazionali e alla loro ratifica. E va ricordato che, benché l’impatto politico del referendum sia stato tale da portare alla Brexit, giuridicamente il voto popolare era consultivo e non vincolante.
3. Poiché, in un mondo integrato e retto da norme e Trattati, non è affatto chiaro se si sia più “sovrani” e “in controllo” dei propri destini condividendo norme comuni che si contribuisce a definire, o essendo invece condizionati da norme altrui sulle quali non si ha alcuna voce, è paradossale che un Governo e un Parlamento si astengano dal prendere decisioni ed emanare norme, e si rimettano alla volontà popolare. Trasferendo infatti competenze dal proprio paese a livello dell’Unione, non è affatto vero che si perdano poteri; li si condivide e li si governa a un diverso livello. Ma su questo sono stati chiamati a decidere i cittadini britannici.
I tentativi di azionare la decisione da parte del Governo, autonomamente e immediatamente – facendo uscire il Regno Unito non solo dall’Unione ma anche dal mercato unico – vennero frustrati da sentenze della Suprema Corte che ritennero invece necessaria un’approvazione del Parlamento, per un processo che avrebbe dovuto concludersi in due anni, e che fu avviato dal Regno Unito il 29 marzo 2017 (con la notifica della decisione, ritardata a seguito di questi conflitti di ordine costituzionale, di quasi un anno), e il 31 marzo dall’Unione, che decise che si sarebbero preliminarmente definiti i termini del divorzio e, solo successivamente, i rapporti da instaurare per il futuro.
4. Tale processo ha avuto luogo invece in quattro anni, e si è concluso con un Accordo sugli scambi e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito, firmato il 3° dicembre 2020, applicato in via provvisoria dal 1° gennaio 2021 ed entrato in vigore il 1°maggio 2021.[5]Esso stabilisce regimi preferenziali in settori quali gli scambi di merci e di servizi, il commercio digitale, la proprietà intellettuale, gli appalti pubblici, l’aviazione e i trasporti su strada, l’energia, la pesca, il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, la cooperazione delle autorità di contrasto e giudiziarie in materia penale, la cooperazione tematica e la partecipazione ai programmi dell’Unione. Si fonda su disposizioni che garantiscono condizioni di parità e il rispetto dei diritti fondamentali. La Commissione dichiara che «[anche se] non riuscirà a raggiungere il livello di integrazione economica esistente quando il Regno Unito era uno Stato membro dell’UE, l’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione va al di là dei tradizionali accordi di libero scambio e costituisce una solida base per preservare la nostra amicizia e collaborazione di lunga data».
Tuttavia, mentre l’accordo comporta un accordo di libero scambio, che prevede una «ambiziosa collaborazione» in materia economica, sociale, ambientale e nel settore della pesca, una stretta collaborazione in materia di sicurezza dei cittadini, e un assetto generale di governance, la politica estera, la sicurezza esterna e la cooperazione in materia di difesa non vi sono contemplate perché il Regno Unito non ha voluto negoziare su tali materie. Per cui non vi è alcun quadro concordato per coordinare le risposte comuni alle sfide di politica estera, e il Regno Unito ha dovuto pentirsene a seguito dell’intervento russo in Ucraina.
Inoltre l’accordo non contempla decisioni relative all’equivalenza per i servizi finanziari (Londra aveva visto giusto nel votare «remain»); all’adeguatezza del regime britannico di protezione dei dati; né alla valutazione del protocollo sanitario e fitosanitario ai fini dell’inserimento nell’elenco dei paesi terzi autorizzati a esportare prodotti alimentari nell’UE: ciò che danneggerà notevolmente le esportazioni verso gli stati membri dell’Unione dell’intera filiera agroalimentare. L’Unione, infatti, non può rinunciare ai propri standard qualitativi.
L’accordo comprende, tra l’altro, una complessa soluzione doganale per gli spostamenti di merci tra l’Irlanda del Nord, che fa parte de Regno Unito e quindi non più dell’Unione europea, e l’Irlanda. Mentre per l’Ue l’accordo è definitivo, Boris Johnson era intenzionato a denunciarlo unilateralmente, violando accordi sottoscritti poco prima. Il problema è spinoso.
5. Nel marasma nel quale si è agitato nei giorni scorsi il Governo guidato da Boris Johnson, marasma che il 7 luglio si è concluso con le sue dimissioni, sia pure a termine, e a seguito dei problemi indotti dal Covid 19 e successivamente dall’invasione dell’Ucraina e dai suoi effetti, individuare quanto degli attuali sviluppi sia dovuto alla Brexit e quanto ad altri fattori è estremamente difficile. Riportiamo sinteticamente i risultati delle più recenti analisi della situazione e del sentiment prevalente nel Regno Unito.
Secondo il Financial Times, la «clearer picture» sugli effetti della Brexit che si sta finalmente raggiungendo non è affatto «pretty»: l’Office for Budget Responsibility ritiene che la Brexit stia tagliando del 4% la produttività e il Prodotto interno lordo, effetti che per circa la metà si debbono ancora verificare. Il Regno Unito è rimasto indietro rispetto al resto del G7 nel recupero del commercio dopo la pandemia, e, secondo l’OCSE, sperimenterà la crescita più contenuta tra i paesi del G20, con l’eccezione della Russia assoggettata alle sanzioni.
Secondo Downing Street, sarebbe «troppo presto» per esprimere un giudizio, e secondo un portavoce «le opportunità offerte dalla Brexit nel lungo periodo saranno una manna per l’economia britannica». Gli economisti, tuttavia, non riescono ad individuare alcun vantaggio che ne discenda, e la credibilità del Governo nei mesi scorsi era ai minimi. Secondo uno studio approfondito, svolto nel quadro di un esame delle prospettive sino al 2030 dal Centre for Economic Performance alla London School of Economics,[6] (che esamineremo oltre), la burocrazia e i penetranti controlli alle frontiere introdotti nel gennaio 2021 (in base all’accordo) hanno causato un «rapido declino» nel numero di rapporti commerciali del Regno Unito, il numero di rapporti tra acquirente e compratore sarebbe diminuito di quasi un terzo, mentre tra il 2020 e il 2021 i prezzi medi degli alimentari sono aumentati del 6% circa. Secondo il Financial Times, le prove dei danni economici che il Regno Unito si è auto-inflitto con la Brexit iniziano ad accumularsi.
6. Secondo The Economist (24 giugno 2022), l’economia della Gran Bretagna è sostenuta dalla disponibilità dei consumatori a spendere, e la crisi del costo della vita degli ultimi mesi ha bloccato gli acquisti. Secondo il GfK Consumer Confidence Barometer, in maggio la fiducia è scesa al livello più basso da quando la si è iniziata a misurare nel 1974, diminuendo da +8% nel 2015 a -40% a maggio 2022 (Fonte: Refinitiv Datastream). E questo fatto potrebbe indurre una recessione.
7. Nel luglio 2022, la Bank of England dichiara che le prospettive economiche del Regno Unito e globali sono peggiorate in misura significativa. A seguito dell’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia, le pressioni inflazionistiche si sono nettamente intensificate, principalmente nel settore dell’energia e delle altre materie prime, che hanno esacerbato quelle dovute alla pandemia, e causato ulteriori sconvolgimenti delle catene dell’offerta. Il reddito reale delle famiglie e i margini di alcune imprese ne sono stati intaccati. Le condizioni finanziarie globali hanno subito restrizioni significative, in parte a seguito delle decisioni di politica monetaria delle banche centrali. I tassi d’interesse e gli spread delle obbligazioni delle imprese sono aumentati fortemente, riflettendo le aspettative di ulteriori restrizioni, introdotte o attese, volte a contrastare l’inflazione, e rischi creditizi crescenti. Le prospettive sono soggette a un grado considerevole di incertezza e ci sono numerosi rischi di peggioramento che potrebbero influenzare negativamente la stabilità finanziaria del Regno Unito.
8. Lo studio più dettagliato sugli effetti della Brexit, citato innanzi,[7] effettuato nell’ambito di uno studio economico sul futuro del Regno Unito (Economy 2030 Inquiry) svolto e finanziato dalle istituzioni citate a nota 6, esamina la Brexit, definendola il mutamento maggiore in quasi mezzo secolo nei rapporti tra il Regno Unito e il resto del mondo. Ne abbiamo visto la genesi e lo svolgimento. Ma, se ci si attendeva che avesse effetti rapidi e immediati, in realtà esso si svilupperà nel tempo e determinerà notevoli aggiustamenti.
Come primo impatto, ha influenzato, al ribasso, il reddito delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Successivamente, con l’entrata in vigore dell’accordo sul commercio e la cooperazione, e le barriere introdotte, si sono modificati i rapporti commerciali. E infine, si dovranno verificare aggiustamenti strutturali, quando capitale e lavoro risponderanno ai nuovi rapporti. L’inchiesta prevede che l’effetto complessivo sarà di ridurre il reddito delle famiglie a seguito della debolezza della sterlina, minori investimenti e rapporti commerciali meno intensi, anche se la struttura complessiva dell’economia non ne sarà fondamentalmente modificata.
9. Immediatamente dopo il Referendum, si è avuto un impatto immediato sul reddito e gli investimenti, e la sterlina si è deprezzata. Un anno dopo, si è stabilizzata a circa il 12% in meno rispetto al livello precedente, e l’inflazione è aumentata, con un aumento medio del costo della vita di £870 all’anno. Le incognite sui futuri rapporti con l’Ue – il maggior mercato integrato al mondo – hanno determinato una diminuzione degli investimenti (nei tre anni successivi al referendum la diminuzione è stata dello 0,1% a trimestre, rispetto a una crescita dell’1,7% a trimestre dei tre anni precedenti). A ciò si sono aggiunti gli effetti della pandemia, e successivamente della guerra. Tale peggiore performance non è stata però dovuta a minori investimenti esteri, rimasti in linea con quelli in Germania, e superiori a quelli in Francia. In parte gli effetti si sono avuti già prima dell’introduzione delle nuove barriere al commercio e ai movimenti delle persone: l’Office for Budget Responsibility stima che due quinti dell’impatto che si è avuto sulla produttività si sia verificato prima dell’entrata in vigore dell’Accordo sul commercio e la cooperazione.
Nell’immediato, non si è invece verificato il declino delle esportazioni verso l’Unione europea rispetto a quelle verso il resto del mondo, forse anche a seguito della svalutazione. Modificazioni significative si sono invece avute dopo l’entrata in vigore dell’Accordo, anche se è difficile separare gli effetti della nuova situazione dei rapporti da quelli della pandemia. Nel 2020, il commercio mondiale è diminuito dell’8,9% e quello dei servizi globali ne è stato influenzato ancor più, diminuendo di oltre il 20%. Come criterio metodologico principale, lo studio si concentra sull’andamento relativo del commercio britannico con l’Ue rispetto a quello con il resto del mondo. Mentre le importazioni del Regno Unito dall’Ue sono diminuite rispetto al resto del mondo, non è chiaro se lo stesso sia avvenuto – in termini relativi – per le esportazioni. Comunque, tra il 2020 e il 2021, esse sono diminuite di oltre un quarto, o del 13% con criteri di misurazione differenti.
Se questi dati sono ritenuti positivi, risulta invece che il Regno Unito ha sperimentato una diffusa perdita di competitività e del grado di apertura commerciale (la percentuale del commercio internazionale sul Pil), maggiore di quella dei principali concorrenti. Quest’ultimo, tra il 2019 e il 2021, è diminuito per il Regno Unito di oltre 8 punti percentuali (rispetto ai 2 della Francia). Inoltre, il Regno Unito è l’unico grande paese europeo ad aver sperimentato una diminuzione del grado di apertura commerciale a partire dal 2020; in particolare per le merci. Le esportazioni di merci in dicembre del 2021 sono state del 15,7% inferiori a quelle che si sarebbero avute senza la Brexit. Lo stesso è avvenuto per i servizi; ma dato l’impatto della pandemia sui viaggi internazionali, anche l’Olanda, il Belgio e il Canada hanno sofferto andamenti analoghi.
I dati sul commercio internazionale delle merci mettono in luce una grave perdita di competitività sui mercati più importanti per il Regno Unito: Stati Uniti, Canada e Giappone. In parte dovuta a mutamenti della domanda (che ne spiegherebbero circa un terzo), ma per due terzi al declino della quota britannica sul totale. Anche se non è chiaro quanto la diminuzione sarà persistente, ci sono segnali preoccupanti che la Brexit abbia avuto un impatto sul grado di apertura e sulla competitività del Regno Unito maggiore del previsto.
11. Benché i rapporti commerciali siano spesso permanenti e di lungo periodo, il numero di rapporti degli esportatori britannici verso l’Ue sarebbe diminuito, dall’entrata in vigore dell’Accordo, del 30% rispetto a quelli con il resto del mondo. In parte in quanto, per evitare gli aumentati oneri burocratici, essi avrebbero preferito esportare verso un’unica controparte europea e utilizzarla come distributore all’interno del mercato unico, prediligendo controparti dislocate nei maggiori porti francesi, olandesi, e belgi. I settori maggiormente penalizzati sono stati quello agricolo e forestale, per i quali il numero di rapporti rispetto al resto del mondo è quasi dimezzato, mentre nei maggiori porti di ingresso dei tre paesi citati il traffico commerciale è aumentato tra il 6 e il 7,5%.
12. Ci vorranno molti anni prima che gli aggiustamenti si stabilizzino, e i nuovi accordi commerciali con l’Ue comporteranno, per alcuni settori, aggiustamenti sostanziali. Le barriere commerciali avranno gli effetti maggiori nel settore agricolo e dei servizi, e in particolare di quelli professionali regolati in misura massiccia. Si tratta di pessime notizie per le esportazioni britanniche, che riguardano per il 20% dei servizi la finanza e le assicurazioni, e per un ulteriore 18% i servizi giuridici, contabili, in architettura e ingegneria, e i trasporti aerei. Rispetto alla precedente appartenenza al mercato unico, che ne assicurava l’equivalenza, le nuove barriere comporteranno modifiche sostanziali nell’output per i servizi professionali più regolamentati, e ci si aspetta che essi diminuiscano del 13% rispetto a quanto si verificava prima del divorzio.
13. Nelle manifatture, ne trarrà vantaggio la filiera alimentare, mentre ne sarà colpito il settore della metallurgia. Un altro settore che verrà fortemente colpito è quello della pesca, malgrado le dichiarazioni contenute nell’accordo, il cui output diminuirà del 30% a causa delle barriere all’esportazione. Gli agricoltori britannici dovrebbero invece avvantaggiarsi della minore concorrenza degli altri paesi europei. Le variazioni comporteranno aggiustamenti notevoli per i lavoratori dei settori più colpiti, numericamente pochi. La Brexit, tuttavia, non trasformerà la struttura dell’economia nel suo complesso. I servizi professionali potranno vedere una modesta diminuzione dell’output, e un suo riorientamento. Non ci dovrebbe essere l’attesa reviviscenza della manifattura, ma un suo modesto declino percentuale. Il declino si avrà invece nel grado di apertura, del 3,6% a seguito delle nuove barriere e di un ulteriore 3% rispetto alle ulteriori integrazioni che si avranno all’interno dell’Unione europea. Gli aggiustamenti si verificheranno in linea con i vantaggi comparati esistenti.
14. Lo studio raggiunge la conclusione che dal punto di vista geografico il Nord Est, una delle regioni più povere del Regno Unito, non riuscirà a convergere, ma sarà invece tra le regioni più duramente colpite, mentre le prospettive sono incerte per Londra, la quale, benché sia esposta in larga misura ai settori più penalizzati dalla Brexit, è in grado di spostarsi da un mercato all’altro, e di adattarsi con maggiore facilità. Insomma, le regioni più penalizzate appaiono, a chi scrive, quelle che più hanno votato a favore della Brexit. E i più penalizzati, quelli sui quali la Brexit avrà il maggior impatto, saranno i lavoratori, la cui produttività, e i cui redditi reali, diminuiranno.
Lo studio conclude dichiarando che valutare l’impatto delle variazioni nei rapporti commerciali UK-Eu è importante, non tanto per rimettere in discussione i meriti della decisione di abbandonare l’Unione assunta sei anni fa, ma per assicurare che i policy makers capiscano cosa è successo e prendano decisioni corrette per il futuro. Dichiarazione assolutamente corretta. Chi scrive, tuttavia, ritiene che la decisione sia stata controproducente, in particolare per quanti hanno contribuito a prenderla e la hanno imposta alle generazioni più giovani e a quanti non la volevano.
15. Per tornare, concludendo, ai sentiment prevalenti, l’8 luglio 2022 The Economist, ha dichiarato che la Gran Bretagna è in uno stato pericoloso. Il Paese è più povero di quanto non immagini. Il suo disavanzo è aumentato, la sterlina è crollata e il costo degli interessi sul debito è in aumento. Se il prossimo governo insisterà per aumentare la spesa e ridurre allo stesso tempo le tasse, potrebbe precipitare in una crisi. Il tempo in cui tutto era possibile è finito. Con la partenza di Johnson, la politica deve ancora una volta ancorarsi alla realtà. Uno dei contendenti tra quanti vogliono occuparne il posto, Rishi Sunak, già cancelliere dello scacchiere in disaccordo sulla politica fiscale con Johnson, favorevole invece a politiche accomodanti, ha dichiarato di non voler raccontare al paese «favole confortanti».
16. Difficile tornare indietro. Almeno per ora, il maggior fautore della Brexit, probabilmente piuttosto per motivi di potere personale che non per convinzione profonda, Boris Johnson, dovrà abbandonare la guida del Partito Conservatore, e del Paese. La Brexit, comunque, resta un vulnus per il Regno Unito, e anche se ha permesso, nell’Ue, decisioni che con il Regno Unito al suo interno non si sarebbero potute prendere, resta un vulnus anche per quest’ultima. Timothy Garton Ash (FT, 9-10 luglio 2022) propugna nuovi accordi che consentano una maggiore integrazione, nel reciproco interesse: nel settore accademico e della ricerca scientifica; con un rientro del Regno Unito nel programma Erasmus; con una cooperazione sistematica nella politica estera e di sicurezza, nella difesa, nell’intelligence, nell’ecologia, l’energia, la politica digitale, l’intelligenza artificiale, l’innovazione tecnologica nella finanza e la biotecnologia. Ci si può rispettare, e collaborare, anche se divorziati.
La storia, comunque, continua. The end of history appare sempre più lontana.
[1]La vicenda, e le sue implicazioni giuridiche e politiche, sia per la gran Bretagna che per l’UE, sono illustrate in Fabbrini, Federico (ed.), The Law and Politics of Brexit, Oxford University Press, 2017.
[2]Fonte: YouGov <https://d22560afb94s.cloudfront.net/cumulus_uploads/document/oxmidrr5wh/EUFinalCall_Reweighted.pdf> © YouGov. plc, citato in, Marlene Wind, Brexit and Euroskepticism, in Fabbrini, F., The law and Politics of Brexit, cit., p.229.
[3] Keynes, J.M., The Economic Consequences of the Peace, 1919. Varie edizioni.
[4] Kalypso Nicolaïdis, The Political Mantra. Brexit, Control and the Transformation of the European Order, in Fabbrini, F., cit., p.32.
[5] Commissione Europea: Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito. Accordo riportato integralmente nel sito della Commissione.
[6] Swati Dhingra, Emily Fry, Sophie Hale & Ningyuan Jia, The Big Brexit: An assessment of the scale of change to come from Brexit, Centre for Economic Performance, The Resolution Foundation, Nuffield Foundation, 22 June 2022.
[7] Dhingra, Fry, Hale e Jia, The Big Brexit, cit.