approfondimenti/politica economica
Alternative all'austerity / La proposta
Basta Fiscal Compact, usiamo la golden rule

Intervista con Gustavo Piga

di Paola Pilati

«Sono terrorizzato dall’improvvisazione italiana, ma anche dai penosi equilibrismi a livello europeo. Spero solo che si definisca a Bruxelles una maggioranza meno austera, grazie all’apporto dei verdi».

Se di questi tempi tra gli economisti sta crescendo il numero di quanti – a partire dall’ex capo economista del Fmi Olivier Blachard – ammettono che l’austerità degli anni passati è stata una cura troppo severa e che è tempo di cambiare ricetta, Gustavo Piga, docente di economia politica a Tor Vergata, è uno di quelli che su questo tasto insiste da tempo. «Peccato che questi signori arrivino con otto anni di ritardo. Avremmo potuto evitare che il governo Monti facesse degli errori capitali, forse anche evitare la Brexit. Ma ci hanno bloccato quando tra il 2013-14 raccoglievamo le firme contro il Fiscal compact. Perché il problema non è l’euro, ma sono le regole fiscali».

Eppure le critiche alle regole sembrano saldare sullo stesso fronte anche chi vuole l’uscita dall’euro. Non si sente a disagio?

«Io sono contro chi mette in dubbio l’idea di restare all’interno aerea dell’euro. Ma c’è una terza via tra quelli che dicono: usciamo, e quelli che dicono: restiamo con queste regole. Ed è quella di fermare il meccanismo del Fiscal compact. Ma non si è ancora trovato chi la voglia percorrere. Certo non i signori che stanno ora al governo, che utilizzano le ampie risorse liberate con la legge di bilancio per la spesa corrente e non per gli investimenti».

Gli economisti Alesina e Giavazzi, sul “Corriere della sera”, sostengono che sulla crescita l’effetto positivo di un taglio imposte è molto maggiore dell’effetto negativo di un taglio di spesa. Anche secondo lei bisogna agire sul lato tasse?

«Io la vedo in modo opposto a loro: l’espansione si fa con aumenti di spesa e non con tagli delle tasse; eventuali restrizioni – che sono poco raccomandabili – sono già difficili da digerire via aumento delle tasse, ma sarebbero un disastro totale via riduzione della spesa».

Ma la spending review è lo strumento che il governo vuole usare per evitare l’aumento dell’Iva da 23 miliardi…

«Non capisco perché il governo accetti di seguire un Fiscal compact “scaduto”. Quest’anno il Fiscal compact doveva essere valutato dal Parlamento europeo per confermarlo o modificarlo dopo i cinque anni previsti. Invece oggi una Commissione non più al potere ci chiede di rispettarlo, con l’idea che le vecchie maggioranze possano dettare regole in nome di politiche che sappiamo essere state dannosissime. E noi non pretendiamo che prima vengano ridisegnate».

Non crede alla regola del bilancio in pareggio?

«È miope andare verso un bilancio in pareggio. E anche che ridurre il deficit lo si voglia fare non con un aumento della tassazione ma con un taglio delle spese: sappiamo bene che una spending review fatta d’urgenza si tradurrà inevitabilmente in una serie di tagli lineari come quelli di Monti, fatti a casaccio e con effetti negativissimi sull’economia, e non una spending ragionata come ci aspettavamo da questo governo».

Come mai il Fiscal compact ha fatto male solo a noi, mentre gli altri paesi hanno superato la crisi?

«Il Fiscal compact è da buttare proprio perché fa male ai paesi con debito più elevato. Sui tedeschi non ha nessun effetto, ma su di noi, che avremmo bisogno di politiche fiscali attive, chiede di fare politiche restrittive. La nuova politica fiscale, il nuovo Fiscal compact, deve essere disegnato per prevenire le crisi, non per causarle. Questa è una costituzione fiscale che non solo ha causato una crisi economica, ma anche una crisi politica: i mercati valutano la probabilità che tutto salti al 10 per cento, che è altissima. Non esiste un’unione monetaria in cui un paese abbia il 10 per cento di probabilità di saltare. E questo perché non abbiamo dato, alla Grecia prima e oggi all’Italia, le politiche di cui c’è bisogno per uscire da crisi. Abbiamo bisogno di regole che aiutino i paesi quando il debito sul pil è alto. Per quanto tempo ancora ci vogliamo impiccare su questo circolo vizioso?».

Come valuta quello che ha fatto finora il governo?

«L’Italia ha adottato politiche che, come autocertifica il governo, fanno lo 0,8 di crescita. Reddito di cittadinanza e quota 100 hanno usato lo spazio fiscale che avevano, che era ampio, ma non hanno creato crescita. Invece c’è bisogno di regole che consentano spazio fiscale per investimenti pubblici».

E cioè?

«Spingere per ottenere la golden rule: con un avanzo del bilancio corrente pari a zero, puoi usare il 3 per cento del pil in deficit per gli investimenti pubblici. Io dico che questo deficit del 3 per cento non deve derivare da una solidarietà europea con investimenti a livello centrale: non siamo ancora allo stadio in cui l’Europa dà solidarietà al suo interno, forse ci arriveremo tra 50 anni. Negli Usa ci hanno messo 120 anni a fare una politica fiscale centralizzata. Oggi c’è bisogno che l’Italia si faccia le politiche che le servono e se ne assuma onori e oneri. Se poi quelle politiche vengono usate male, l’Italia salta».

Un gioco rischioso. Che cosa intende?

«Che se riesce a convincere i mercati che deficit e debito sono sostenibili, ce la farà. D’altra parte l’Europa è nata proprio sul principio del “non bail in no bail out”, principio saltato con la Grecia, ma solo per salvare le banche tedesche e francesi. Ma è un precedente che ha creato un vulnus pazzesco: nessuno è più responsabile delle sue politiche. A questo punto l’Italia dovrà, con questa chiarezza di regole, cercare di convincere i mercati che farà investimenti publici e non reddito di cittadinanza o pensioni, e che saranno investimenti pubblici fatti bene, che generano sviluppo. Il ministro Tria l’aveva annunciato a maggio 2018. Stiamo aspettando».

Nell’immediato c’è lo spettro dell’aumento dell’Iva, che il governo vuole scongiurare. Meglio una patrimoniale?

«Un governo che fa una patrimoniale è un goveno che muore. Invece l’aumento dell’Iva può avere un impatto minimale rispetto a tagli di spesa di 23 miliardi. Aumentata l’Iva di quanto dovuto, hai il margine di manovra per arrivare al 3 per cento con maggiori investimenti pubblici, che smussano l’impatto negativo dell’Iva. Poi rimani al 3 per cento di deficit, dando spazio alla spending review fino a quanto puoi».

Il mainstream degli economisti, però, insiste che la regola del debito vada rispettata.

«È vero: sono circondato da economisti che dicono che l’obiettivo è ridurre il debito pubblico sul pil. Ma l’obiettivo che andrebbe perseguito non è contabile: è politico. Cioè mantenere l’Italia in Europa e viceversa. Giustamente questo governo se ne frega di questi economisti, e le persone votano altrimenti. È un peccato, però, perché se molti di quegli economisti avessero dato ascolto al dolore della gente, si sarebbero potute creare soluzioni diverse da quella populista».

Una sua previsione su cosa ci aspetta.

«Siamo in un momento delicatissimo. Se non trovano la quadra, qualcosa salterà. Se formalmente vince l’Europa, l’Italia entro novembre esce. Se vince questa Italia, i mercati si ritirano dal paese e salta comunque tutto. Devono trovare un compromesso e rassicurare i cittadini italiani ed europei. Chi dirà no all’Italia si prende una grande responsabilità, le va lasciato spazio per uscire dalle secche e non costrigerla in una prigione. Sennò vedo in autunno un momento drammmatico».