Recentemente le banche svedesi hanno costituito oggetto di studio approfondito da parte del FMI e sono state considerate come benchmark da seguire per l’aggiustamento dei modelli di business delle banche europee. Mentre le banche europee registravano in media ROE inferiori al 6%, ben al di sotto del costo del capitale stimato in media intorno al 9%, le banche svedesi registravano livelli di ROE sopra al 12%, nonostante i tassi di policy fossero addirittura diventati negativi in Svezia. Come è possibile un tale gap di redditività? Il modello di business delle banche svedesi è esportabile nell’Area Euro e in Italia? Quali potrebbero essere le implicazioni del modello di business delle banche svedesi per l’efficienza e la stabilità del sistema bancario europeo qualora tale modello risultasse quello prevalente nel “new normal”?
Tra gli esperti e le autorità di supervisione si è affermata la visione che l’aggiustamento dei modelli di business delle banche europee sia ancora incompleto rispetto al nuovo ambiente operativo caratterizzato da una prolungata crescita debole, un regime di tassi bassi, requisiti di capitale e costi della regolamentazione per le banche più stringenti. Si ritiene in particolare che le banche europee debbano aggiustare il loro business mix al fine di ritornare ad una redditività sostenibile. In tale ottica, le banche svedesi sono state recentemente oggetto di studio approfondito da parte del FMI (FMI (2016) e Turk (2016)) e sono state citate come benchmark da seguire in Europa ad esempio dall’Economist (Economist (2016)) e addirittura dai vertici della BCE(Constâncio (2016b)):
“The ECB is aware that some of the positive effects of our policy on banks’ profitability will wane with time. However, low or negative interest rates cannot be blamed for low profitability per se. With lower interest rates, (-0.50% and -1.25% for the repo rate and deposit rate, respectively) which have been in negative territory almost for two years now, Swedish banks, for example, have been able to sustain ROE levels of close to 12%. There are several explanations for this difference but a sizeable contribution comes from cost control stemming from adjusted business models. In fact, cost per banks total asset is at 0.92 for Swedish banks against 1.42 for the euro area, on average. This clearly shows that European banks have to adjust their business models to improve their profitability prospects.”
La ragione di tale curiosa attenzione nei confronti delle banche svedesi risiede nel fatto che mentre le banche europee registravano in media ROE inferiori al 6% (e al 4% per le banche italiane), ben al di sotto del costo del capitale stimato in media intorno al 9%, le banche svedesi registravano livelli di ROE sopra al 12%, nonostante i tassi di policy fossero addirittura diventati negativi in Svezia. Vediamo di capire come sia possibile un tale gap di redditività e soprattutto se il modello di business delle banche svedesi sia esportabile nell’Area Euro e in Italia. Naturalmente nel confronto con le banche italiane giocano a favore delle banche svedesi anche alcuni fattori di contesto positivi (efficienza della giustizia civile, tempi brevi e certi delle procedure di insolvenza, tassazione più favorevole, etc.). Ma nella presente discussione mi concentrerò esclusivamente sull’analisi del modello di business delle banche svedesi, per esplorarne le implicazioni per l’efficienza e stabilità del sistema bancario europeo qualora effettivamente tale modello risultasse quello prevalente nel “new normal”.
Vediamo innanzitutto il ruolo della qualità del credito. Il costo del rischio è un driver importante della redditività delle banche europee, come documentano ad esempio le stime econometriche della BCE (BCE (2015)). Per un lungo periodo durante la crisi le banche svedesi hanno avuto basse perdite su crediti, nonostante una percentuale di prestiti a famiglie e imprese elevata, pari al 69% dell’attivo. La risk density (ovvero il rapporto degli RWA sulle attività totali) delle banche svedesi è tra le più basse in Europa. Tale risultato è connesso sia all’uso intensivo dei modelli IRB (Internal Rating Based), applicato in media al 96% delle attività delle banche, sia ai tassi di default relativamente bassi della clientela negli anni recenti. Ma a tale risultato contribuisce soprattutto il modello di business prevalente: prendiamo il caso di Swedbank, la più grande banca retail della Svezia. Con 8 milioni di clienti, di cui 7 sono famiglie, i mutui rappresentano il 60% del suo portafoglio crediti. Il business mix è simile a quello delle banche italiane, con la quota dei ricavi non provenienti dal margine di interesse sui ricavi totali poco sopra il 50%. Non ambisce a espandersi verso nuovi mercati (oltre ai paesi baltici dove è già presente) e evita attività rischiose, preferendo quelle con solide garanzie, come la proprietà immobiliare. In Svezia la banca evita le imprese dei settori troppo esposti alla variabilità della domanda interna. Gran parte dei prestiti alle imprese va a quelle dell’agricoltura e silvicoltura e alle imprese cooperative delle costruzioni. Si tratta evidentemente di un modello di business che penalizzerebbe notevolmente l’economia italiana caratterizzata da un elevato peso del settore manifatturiero e dove i prestiti alle PMI italiane hanno un assorbimento di capitale regolamentare per le banche più elevato nel confronto europeo, come evidenziato da un recente mio lavoro con Giovanni Ferri (Ferri e Rotondi (2016)). Va comunque evidenziato che Swedbank ha un leverage ratio (capitale regolamentare in percentuale delle attività totali escludendo i derivati) vicino al 4% con una leva più elevata delle banche italiane e nel complesso il sistema bancario svedese ha un rapporto tra attività bancarie totali e PIL tra i più elevati di Europa (vicino al 350%).
Veniamo adesso al margine di interesse. Come accennavo avanti le banche svedesi hanno dovuto affrontare tassi di policy negativi per almeno due anni. La struttura del funding delle banche svedesi è rimasta stabile negli ultimi anni con depositi pari al 48%, quindi con un ricorso al funding all’ingrosso e un funding gap (rapporto tra prestiti e depositi, che sono la componente più stabile del funding di una banca) più elevati delle banche italiane. La contrazione dei costi del funding all’ingrosso in particolare sui covered bond in linea con i tassi di policy ha protetto i margini di interesse delle banche svedesi, mentre il costo dei depositi presentava una vischiosità verso il basso mantenendosi sopra lo zero per cento. Questo è stato possibile perché i costi del funding all’ingrosso sono notevolmente più bassi per le banche svedesi rispetto a quelle europee e soprattutto rispetto a quelle italiane a causa del più elevato rischio sovrano che impatta negativamente sul costo del funding all’ingrosso. Tuttavia l’intenso affidamento da parte delle banche svedesi al funding all’ingrosso le espone alla volatilità del mercato finanziarie.
Dal punto di vista dei processi gestionali va evidenziato come nel corso del 2016 Swedbank ha nominato una donna, Birgitte Bonnesen, come Presidente e CEO della banca. Mentre il precedente CEO, Michael Wolf, era stato inaspettatamente licenziato tra le critiche per transazioni private in presenza di sospetti conflitti di interesse1, nonostante i brillanti risultati in termini di redditività della banca e il posizionamento al nono posto della classifica degli executive manager migliori del mondo, stilata dalla prestigiosa Harvard Business Review.
Tra le diverse spiegazioni del gap di redditività tra banche svedesi e europee un contributo importante proviene dal controllo dei costi. In Europa, nonostante la riduzione degli sportelli bancari registrata durante la crisi, secondo la BCE in alcuni paesi vi è ancora un eccesso di capacità nel sistema bancario. Infatti, seppure la concentrazione del mercato bancario europeo sia aumentata durante la crisi, esiste ancora una notevole eterogeneità dell’indice di concentrazione Herfindahl-Hirschman (HHI) tra paesi. Analisi recenti della BCE mostrano che per il periodo 2009-2014 la concentrazione ha una relazione inversa con il cost/income ratio nei dati aggregati per paesi dell’Area euro, ovvero una concentrazione più elevata si associa a una maggiore efficienza media delle banche del paese di riferimento. Inoltre, stime microeconometriche della BCE per lo stesso periodo evidenziano l’esistenza di un significativo impatto positivo della concentrazione sulla redditività delle banche europee. In effetti i risultati ottenuti dalla BCE sono confermati anche per il caso delle banche svedesi. Per le banche svedesi il cost/income ratio è al 47% mentre per l’area euro è sceso dal 67% nel 2008 al 58% nel 2015. In Italia il cost/income ratio è al 64%, sotto la Francia e Germania ma al di sopra dell’area euro. In Svezia la concentrazione del mercato bancario è elevata: le quattro principali banche svedesi rappresentano il 75% del mercato bancario svedese, con un HHI sopra 1000. In Italia c’è un HHI di 445 e le prime quattro banche hanno una quota di mercato del 41%, mentre nell’area euro rispettivamente si ha 722 e 48%.
In conclusione, dall’analisi delle banche svedesi emergono dei fattori di instabilità finanziaria che vista l’elevata incidenza degli attivi bancari sul Pil del paese destano preoccupazione. In particolare nel caso di Swedbank appare evidente come il modello di business prevalente esponga la banca a fattori di rischio elevati: elevata leva finanziaria, business concentrato nell’immobiliare per i vantaggi comparati in termini di assorbimento di capitale, funding gap elevato esposto alla volatilità del mercati all’ingrosso della liquidità. Desta qualche perplessità anche la funzionalità del modello di business della banca nel supportare l’economia reale: prestiti preferibilmente alle imprese dei settori meno influenzati dal ciclo economico e/o con collateral, margine d’interesse invariato nella congiuntura debole grazie anche alla presenza di un elevato potere di mercato.
Inoltre, a mio avviso, quanto discusso sopra ha delle implicazioni importanti per la domanda su quale sarà il “new normal” per le banche. Nel presente nuovo contesto operativo per le banche appare chiaramente emergere un trade-off tra concorrenza e stabilità. In mercati bancari più concentrati il cost/income ratio è più basso non necessariamente perché le banche efficienti guadagnano quote di mercato a scapito di quelle meno efficienti e aumentano la redditività. Infatti, potrebbe essere anche il risultato di un posizionamento migliore delle banche per sfruttare il loro potere di mercato per operare con margini di intermediazione più elevati e quindi ottenere ricavi maggiori. Esiste quindi il rischio che nel “new normal” i modelli di business siano sostenibili – in termini di redditività e controllo dei rischi – solo perché associati a una minore concorrenza nel settore bancario del paese di riferimento, come appunto nel caso del modello di business della Swedbank. Si tratta di un rischio concreto visto il consenso sul fatto che nel periodo post-crisi la concorrenza in Europa sia diminuita a causa della segmentazione dei mercati bancari dei paesi dell’Area euro e del parallelo aumento della concentrazione (si veda ad esempio Angeloni (2016)). La regolamentazione post-crisi con la sua preferenza lessicografica per la stabilità, che si riflette nell’attuale situazione di iper-regolamentazione, rischia di introdurre una distorsione nel mercato bancario ancor più grande di quella introdotta durante la crisi con gli ingenti aiuti di Stato alle banche. La sfida futura per i regolatori e supervisori dovrà essere quella di spostare verso l’alto il trade-off, con maggiore stabilità e al contempo maggiore concorrenza. Ma questo, a mio parere, è possibile solo se il “pendolo” della regolamentazione ritorna indietro verso un processo di graduale de-regolamentazione, controbilanciato sia da un adeguamento della supervisione microprudenziale nell’Unione bancaria europea alle migliori prassi – come ad esempio è riconosciuta essere quella della Banca d’Italia – sia da politiche macroprudenziali adeguate.
1 Il CEO era stato licenziato a febbraio 2016 perché aveva fatto investimenti privati in imprese appartenenti alla lista (stop-list) di imprese vietate per investimenti da parte dei senior executive di Swedbank per ragioni di compliance con le regole sull’insider trading. Successivamente in aprile era stato scagionato dalle accuse di insider trading (evidentemente nessuna parentela con il famoso “Wolf” di Scorsese…).
*La nota si basa su intervento fatto alla presentazione del Rapporto sul sistema finanziario italiano di Edibank, curato da Giampio Bracchi, Umberto Filotto e Donato Masciandaro, e presentato a Roma il 14/12/16 presso la Banca d‘Italia. La nota ha beneficiato dei commenti dei membri del comitato scientifico del Rapporto.