Il perno della moderna regolamentazione finanziaria sulle banche è il concetto di capital ratio: il rapporto tra una misura del capitale regolamentare e il volume delle attività ponderate per il rischio (Risk Weighted Assets - RWA). Esso non è l’unica misura possibile per valutare lo stato di salute di una banca. E, infatti, su questo punto si sta allargando il divario tra USA ed Europa nell’applicazione delle regole, in quanto, a differenza dei sistemi europei, i primi tendono a concentrarsi principalmente su una misura non RWA-based, quale, per esempio, un indice di leva finanziaria.
La regolamentazione internazionale sulle banche ha raggiunto un livello di complessità tale che anche gli addetti ai lavori faticano a comprenderne le implicazioni e a conoscerne i dettagli. L’elevato livello d’incertezza e d’instabilità del contesto normativo ha conseguenze sulle scelte gestionali delle singole imprese bancarie e può avere implicazioni sull’efficacia dell’attività di vigilanza prudenziale. Come spesso accade quando le regole sono troppe ed eccessivamente complesse, diventa da un lato complicato e costoso rispettarle, dall’altro difficile e oneroso controllare che siano rispettate. Ciò è vero nella vita di tutti i giorni ma lo è ancora di più quando si parla di banche e intermediari finanziari in un ambiente globale. Le Autorità finanziarie internazionali negli anni della crisi si erano impegnate per una maggiore semplificazione, ma la realtà non sembra per nulla confermare questo indirizzo.
Il numero crescente di regole e di soggetti deputati a disegnarle, le continue modifiche di tali regole e la crescita esponenziale della complessità del quadro giuridico e regolamentare, rendono sempre più oneroso per le banche assicurare la conformità alle regole, in particolare per le banche europee e ancora di più per quelle più piccole. Per queste ultime c’è il rischio di creare uno svantaggio competitivo artificiale che non sembra si possa giustificare con il solo perseguimento della stabilità finanziaria.
Le Autorità di Vigilanza sono per parte loro impegnate in sforzi enormi e molto costosi, volti a trovare il corretto bilanciamento tra attento controllo sull’applicazione delle regole ed esigenza di limitare le esternalità negative che eventuali arbitraggi regolamentari possono creare.
La normativa sulle banche e sugli intermediari finanziari si articola in base alle sue fonti che possono essere: internazionali, comunitarie, nazionali primarie e secondarie. Esiste poi una serie di raccomandazioni, linee guida, best practices, che pur se prive di un vero e proprio potere normativo, risultano vincolanti per gli operatori del sistema finanziario.
Quando si parla di regolamentazione finanziaria gli attori in campo sono dunque molteplici ma il principale è senza dubbio il Comitato di Basilea. Il testo del primo Accordo di Basilea sul Capitale delle Banche risale al 1988 ed era costituito da 37 pagine. In seguito, il documento noto come Basilea 2 è diventato lungo ben 347 pagine mentre Basilea 3 le ha quasi raddoppiate, raggiungendo e superando quota 600 pagine. Basilea 4 è ancora in fase di gestazione ma considerando le discussioni ancora in atto tra i rappresentanti dei principali paesinon appare esserci la concreta possibilità’ di una inversione di tendenza; è invece lecito attendersi un testo di oltre 1000 pagine.
Complicare è facile, semplificare è difficile, soprattutto se attorno al tavolo ci sono paesi molto diversi, portatori di esigenze talvolta contrapposte. E se utilizziamo il numero di pagine per approssimare il livello di complessità, ci rendiamo conto di quanto sia diventata complicata la regolamentazione finanziaria. Si tratta ovviamente di un esempio ma in finanza, come del resto nella vita di tutti i giorni, più le cose si fanno complesse, più costoso diventa gestirle.
Il perno della moderna regolamentazione finanziaria sulle banche è il concetto di capital ratio: il rapporto tra una misura del capitale regolamentare detenuto da un intermediario (per esempio il Common Equity Tier 1 – CET1 nel contesto di Basilea 3) rapportato al volume delle attività ponderate per il rischio (Risk Weighted Assets – RWA). I Supervisori, gli analisti, i banchieri, le società di rating, il mercato e i cittadini stessi utilizzano principalmente un capital ratio per misurare la solvibilità di un intermediario e per analizzare la sua capacità di fronteggiare eventi avversi o perdite.
Quindi, nell’esistente quadro regolamentare, la prima valutazione sul grado di solidità di un intermediario dipende criticamente da questa formula e in particolare dalla stima degli RWA. Tale misura (il capital ratio), cui soprattutto in Europa si tende a riconoscere molta importanza, non è tuttavia l’unica possibile per valutare lo stato di salute di una banca. E, infatti, su questo punto si sta ampliando sempre di più il divario tra Usa ed Europa nell’applicazione delle regole, dove i primi tendono a concentrarsi principalmente su una misura non RWA-based quale per esempio un indice di leva finanziaria, mentre in Europa l’orientamento è diametralmente opposto.
Gran parte delle oltre 600 pagine dell’accordo conosciuto con il nome di Basilea 3 è dedicato al denominatore del citato rapporto, vale a dire alle regole per la stima delle attività ponderate per il rischio. Perché di stima si tratta. E questo è il punto centrale.
Le attività ponderate per il rischio sono il ricavato di una complicatissima formula che ha diversi input: il principale è senz’altro la probabilità di default (PD) del prenditore di fondi, dunque della azienda, del cittadino o dello stato a cui la banca ha deciso di prestare. E la probabilità è una cosa soggettiva, dipende dalle scelte di modello, dal corredo informativo a disposizione.
Com’è noto, già da Basilea 2, le banche possono utilizzare un approccio base o avanzato; in quest’ultimo caso, largamente utilizzato dalle principali banche e per le principali classi di esposizioni, la PD è calcolata facendo leva sui modelli interni sviluppati dalla banca stessa, previa validazione del relativo modello da parte dell’Autorità di Vigilanza. Fatto 100 il requisito di capitale richiesto alle prime 15 banche europee a fronte dei rischi di credito, circa il 70% è attualmente imputabile ai modelli interni e dunque all’approccio avanzato. In alcuni paesi, in particolare nell’Europa settentrionale, tale percentuale supera ampiamente l’85%; le principali banche hanno cioè sviluppato dei modelli che le rispettive Autorità di Vigilanza hanno validato nel corso degli anni, sottoponendo le banche ai controlli previsti dalla normativa applicabile.
Oggi le Autorità di Vigilanza sono impegnate in attività costose e complesse di monitoraggio di tali modelli, cercando di assicurare da un lato l’effettiva coerenza dei loro risultati con il profilo di rischio delle banche e da un altro cercando di limitare le enormi possibilità di arbitraggio insite nelle pieghe dell’attuale regolamentazione.
La letteratura economica si è a lungo interrogata sulle principali conseguenze di tale scelta da parte del regolatore finanziario, e in particolare sul “rischio modello” insito nella stima degli RWA. Esiste un’evidenza abbastanza robusta che conferma un concetto generale: più complessa è una banca, più è difficile utilizzare una misura basata sugli RWA per confrontarla con altre banche, in particolare in una prospettiva internazionale. Esiste un trade-off tra l’utilizzo di una misura costosa e potenzialmente ad alto contenuto informativo, sensibile al profilo di rischio (RWA-based) e semplicità di una misura non risk-based come potrebbe essere un indice di leva finanziaria.
Banalizzando un po’, la letteratura economica è divisa in due grandi filoni di pensiero: c’è chi ritiene che gli RWA siano un buon amico (non certo il migliore amico, ma forse l’unico amico!) e coloro che vedono negli RWA una misura potenzialmente distorta dell’effettivo profilo di rischio di una banca (e pertanto propongono l’utilizzo di una misura più semplice, facilmente confrontabile, difficilmente soggetta ad arbitraggi).
I primi, sostenitori di un approccio “RWA based”, ritengono che una misura più semplice quale il leverage ratio determini un’allocazione inefficiente del capitale nello spazio e nel tempo, obbligando alcune banche (ad esempio quelle più abili a gestire i rischi o quelle che operano in aree meno rischiose) a detenere più capitale di quello che sarebbe necessario e altre banche a fare il contrario, alterando il corretto meccanismo allocativo delle risorse.
Al contrario, i sostenitori di un approccio più semplice, criticano l’incoerenza nella misura degli RWA tra diverse banche: uno stesso prestito, verso lo stesso prenditore, da parte di due diverse banche genera diversi assorbimenti di capitale. E per quanto strano possa sembrare, si tratta di un fenomeno assolutamente normale, perché ogni banca calcola gli RWA con il proprio modello (stimando dunque autonomamente valori chiave come la PD o la LGD).
Inoltre, è piuttosto evidente che più aumenta la complessità delle regole, più cresce il rischio di arbitraggi regolamentari e di azzardo morale (si ha l’incentivo a prendere più rischi di quelli effettivamente catturati dalla formula che genera gli RWA o a “ottimizzare” gli RWA in modo da ridurre al minimo l’assorbimento di capitale di una data esposizione), mettendo a rischio il cosiddetto level playing field.
Prima dell’avvio del Meccanismo Unico di Vigilanza, a fine del 2013, le prime 14 banche europee avevano un rapporto tra RWA e totale attivo di bilancio (cd. RWA density) pari al 38.9% mentre le altre grandi banche europee (circa 100) avevano un rapporto pari al 49,1%, significativamente più alto. Tale valore è ancora superiore per le piccole banche, definite less significant nel contesto europeo. Cosa significa? Che le prime 14 banche hanno un portafoglio meno rischioso delle altre 100? Probabilmente no. Sviluppare un modello interno, richiedere e ottenere la sua validazione è uno sforzo rilevante ma genera vantaggi. Inoltre, la stessa esposizione creditizia genera diversi assorbimenti di capitale se valutata da due diverse banche e nella maggior parte dei casi, l’assorbimento è di molto inferiore se valutato con un modello interno.
A tale proposito, un interessante articolo, pubblicato dalla Banca Centrale Europea, evidenzia con riferimento ad un campione di banche tedesche alcune delle conseguenze dell’adozione dei modelli interni per il calcolo degli RWA. Gli autori rilevano che: 1) con riferimento ad uno stesso debitore, le banche che utilizzano modelli interni stimano PD e RWA sensibilmente inferiori rispetto a banche che seguono l’approccio standard; 2) esiste una sistematica sottostima dei default attesi impliciti nelle PD, stimate con i modelli interni, rispetto a quelli effettivamente registrati ex-post (default rate); 3) esiste incoerenza tra il pricing del credito (piuttosto elevato, quasi a confermare una certa consapevolezza da parte delle banche dell’effettivo profilo di rischio dei propri clienti) e le relative PD e RWA stimate con i modelli interni. Gli autori spiegano le evidenze raccolte con l’incentivo da parte delle banche a sottostimare le PD, riducendo gli RWA e risparmiando dunque capitale regolamentare.
L’avvio del Meccanismo Unico di Vigilanza in ambito europeo sta contribuendo senz’altro a uniformare la vigilanza sui principali gruppi bancari europei ma resta il problema della complessità delle regole e della difficile applicazione delle stesse.
Due regole diverse, entrambe dotate di dignità economica ed entrambe supportate dalle evidenze raccolte dalla letteratura possono fornire risposte veramente molto diverse. A tal proposito un esempio non trascurabile è l’esercizio di valutazione approfondita (Comprehensive Assessment 2014, di seguito CA 2014) condotto dalla Banca Centrale Europea nel corso del 2014, al momento della creazione del Meccanismo Unico di Vigilanza. Si è trattato di un poderoso e congiunto sforzo di diverse Autorità, volto a valutare lo stato di salute delle principali banche europee. L’esercizio si qualificava come un esercizio pass or fail: al termine dello stress test le banche che registravano un surplus di CET1 ratio rispetto al target fissato dalla BCE potevano considerare l’esercizio superato. Viceversa, le banche che al termine dello stress test registravano un CET1 ratio inferiore al target hanno dovuto predisporre ingenti aumenti di capitale o avviare progetti di ristrutturazione tali da colmare le criticità riscontrate. Alcune di queste banche hanno cessato di esistere, altre sono state liquidate o sono state incorporate da altri intermediari.
Al termine del CA del 2014 è stata identificata una carenza di capitale pari a totali 25 mld. Il 75% si riferiva alle banche di soli due soli paesi: la Grecia e l’Italia.
Tuttavia, consapevoli dei limiti fino ad ora evidenziati con riferimento alle misure RWA-based, è lecito domandarsi cosa sarebbe successo applicando agli stessi risultati di stress una diversa metrica: non più il CET1 ratio, ma ad esempio il Leverage Ratio (come probabilmente avrebbero fatto negli USA in un caso analogo al CA). Ebbene, una simulazione dei risultati del CA 2014 utilizzando come soglia regolamentare il leverage ratio avrebbe portato a uno shortfall di capitale molte banche europee (soprattutto tedesche e francesi) e non solo quelle italiane e greche. In particolare applicando una soglia del 3%, sarebbe emersa una carenza di capitale di 6.5 mld in Germania e di 4 mld in Francia, mentre applicando una soglia del 4% (coerente con l’approccio conservativo utilizzato nel CA) la carenza aggregata di capitale di questi due paesi sarebbe arrivata ad oltre 60 mld.
In generale, cambiando metrica si modificano sensibilmente i risultati. E se questo può apparire normale e intuitivo, bisogna considerare che le implicazioni e le conseguenze dell’una o dell’altra scelta sono profonde, con impatti sui sistemi bancari e sulle economie reali dei diversi paesi.
Come detto la letteratura economica e l’evidenza empirica sono tutt’altro che concordi nel fornire una gerarchia tra indicatori RWA-based e indicatori di leva finanziaria. In materia di regolamentazione sugli intermediari questo resta uno dei temi più dibattuti negli ultimi decenni. E com’è facile immaginare, decine di studi non hanno portato a una chiara gerarchia tra le diverse misure, con particolare riferimento alla capacità di anticipare la crisi di un intermediario.
Come evidenziato più volte dallo stesso Governatore della Banca d’Italia, una delle principali sfide per il futuro della Vigilanza prudenziale ha a che fare con la valutazione e l’analisi dei criteri e dei modelli utilizzati dalle banche per calcolare gli RWA. Non a caso questo è uno dei punti più controversi e dibattuti sul tavolo di Basilea, nelle discussioni ad oggi in corso per l’approvazione del nuovo accordo sul capitale delle banche (cd. Basilea 4).
1. Riflessioni a cura di Giuseppe Zito (gzito@luiss.it), liberamente ispirate al saggio dal titolo “The other side of the rules: an alternative way to look at the 2014 Comprehensive Assessment ”, scritto con i colleghi Jacopo Orlandi e Jacopo Raponi, recentemente pubblicato da Rivista Bancaria – Minerva Bancaria nel volume n. 4-5 del 2017. La responsabilità di quanto scritto resta unicamente dell’autore e non coinvolge in alcun modo l’Istituzione di appartenenza o gli altri autori del citato saggio.
2. Tra gli organismi che a diverso titolo e con diverse competenze possono influenzare l’ordinamento finanziario vale la pena considerare principalmente: Financial Stability Board, Comitato di Basilea, Sistema Europeo di vigilanza finanziaria, International Organization of Securities Commissions (IOSCO), Autorità Bancaria Europea (EBA), Parlamento Europeo, Parlamento Italiano, Banca Centrale Europea (BCE), Single Resolution Board (SRB), Banca d’Italia, Consob.
3. A tal proposito sono state a più riprese formulate critiche all’approccio di Basilea in merito alle regole per la stima degli RWA a fronte rischio di mercato che penalizzerebbero le banche tradizionali, orientate all’attività creditizia a vantaggio delle banche d’investimento. Tuttavia, questo specifico ambito, pur di estrema attualità non può rientrare nel perimetro dell’analisi condotta in questo breve articolo.
4. Questo implica che per avere un certo valore X del capital ratio, le grandi banche devono detenere proporzionalmente meno capitale rispetto alle banche di minori dimensioni, a fronte di dato ammontare di esposizioni.
5. Behn, M., Haselmann, R., Vikrant, Vig., (2016). The limits of model-based regulation. European Central Bank Working Papers
6. Nel presente articolo per Leverage Ratio s’intende l’indicatore di leva finanziaria così come definito in Basilea 3 (capitale/totale attivo al netto di attività immateriali e derivati passivi) e non come comunemente definito in Finanza Aziendale (posizione finanziaria netta/capitale). Ne consegue che ai fini di Basilea e ai fini del presente articolo, un incremento del leverage ratio a parità altri indicatori implica una riduzione del profilo di rischio (ovvero maggiore capitale in rapporto al volume di debiti). Il significato di tale termine può dunque apparire contro intuitivo.
7. Frutto dell’elevata leva finanziaria che caratterizza i sistemi bancari dell’Europa centrale. Tutti i dettagli riguardanti la simulazione sono riportati nel saggio citato in nota 1.