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Banche: da too big to fail a too big to fly

Malgrado gli straordinari interventi di politica monetaria, la dinamica economica si conferma insoddisfacente, a livello mondiale ma ancor più nell’area europea Le possibili cause di questo andamento sono molteplici. Tra esse, molta attenzione viene dedicata a quella che fa riferimento al funzionamento del circuito finanziario, e in particolare alle difficoltà delle banche di significativa dimensione. Esiste certamente una interazione tra insoddisfacente condizione delle banche e debole congiuntura economica, un circuito causa-effetto che sembrerebbe agire in entrambe le direzioni. Inoltre, sia nell’ambito macroeconomico che in quello bancario esistono nodi strutturali il cui superamento si sta dimostrando più difficile di quanto inizialmente pronosticato. Due altri importanti punti fermi possono considerarsi acquisiti. In primo luogo, le difficoltà tanto di carattere economico quanto di natura bancaria sono di respiro globale ma la loro intensità risulta ampiamente maggiore nel caso europeo. In secondo luogo, nell’ambito bancario, esiste una specificità problematica che riguarda le banche di maggiori dimensione, un aspetto cui non è evidentemente estranea l’ampia riscrittura della regolamentazione internazionale avvenuta dopo lo scoppio della crisi del 2008-09.

Silvano Carletti
Carletti

La tempesta innescata dal Brexit sta provocando intensi sommovimenti nelle Borse di tutto il mondo, investendo con particolare violenza le banche. Una volta di più le istituzioni del credito vengono percepite come un settore le cui debolezze ipotecano le possibilità di crescita dell’economia globale, e ancor più dell’area europea.

Da parte loro, le banche evidenziano sempre più un problema di redditività. Una recente elaborazione dell’EBA (European Banking Authority) ha messo in evidenza che in media le maggiori 154 banche europee hanno ottenuto nel 2015 un rendimento medio del capitale del 4,7%, rendimento che sale a poco meno del 6% per le banche di maggiore dimensione e scende intorno al 2% per quelle di minore dimensione. Pur in una fase segnata da rendimenti finanziari particolarmente modesti, si tratta di un consuntivo decisamente poco brillante. Indicazioni non troppo diverse si ritrovano anche al di fuori dell’ambito europeo.

Esiste certamente una interazione tra insoddisfacente condizione delle banche e debole congiuntura economica, un circuito causa-effetto che sembra agire in entrambe le direzioni. Oltre a ciò due altri importanti punti fermi possono considerarsi acquisiti.

In primo luogo, le difficoltà tanto di carattere economico quanto di natura bancaria sono di respiro globale ma la loro intensità risulta ampiamente maggiore nel caso europeo. In secondo luogo, nell’ambito bancario, esiste una specificità problematica che riguarda le banche di maggiori dimensione, un aspetto cui non è evidentemente estranea l’ampia riscrittura della regolamentazione internazionale avvenuta dopo lo scoppio della crisi del 2008-09.

I problemi di oggi sono il riflesso di quanto avvenuto negli ultimi 15 anni. Tra il 2000 e inizio 2008 il sistema bancario dell’eurozona ha quasi raddoppiato la sua dimensione, portando il totale delle attività da €15,6 a €29,5 trilioni. Negli anni successivi allo scoppio crisi internazionale la crescita è proseguita ulteriormente fino a toccare il massimo a metà 2012 quando si è arrivati a sfiorare i €35 trilioni. Da allora si è registrata una contenuta contrazione (€31 trilioni a marzo 2016) che ha riportato la dimensione del circuito bancario europeo in prossimità dei livelli rilevabili alla vigilia della crisi finanziaria, quindi senza un riassorbimento dell’intensa crescita verificatasi nella fase iniziale della moneta unica.

Gli anni dell’avvio dell’euro sono anche quelli dell’euforia finanziaria a livello globale. Se si guarda al sistema statunitense si ritrova un’evoluzione in parte simile a quella dell’eurozona. Negli anni prima dello scoppio della crisi (2000-07) il totale attivo delle banche statunitensi registra una crescita di intensità considerevole (+90% circa), sostanzialmente analoga a quanto prima evidenziato per banche dell’eurozona. Anche nel caso statunitense lo scoppio della crisi finanziaria non ha provocato alcun fenomeno di ridimensionamento; anzi, il processo di crescita è proseguito ulteriormente, seppure ad un ritmo contenuto (+22% nell’insieme degli ultimi 8 anni).

In questo processo di crescita del circuito finanziario le grandi banche hanno giocato un ruolo decisivo, in Europa in misura più importante che non negli Stati Uniti. É stato calcolato che se nel periodo 1996-2012 la crescita dei primi 20 gruppi bancari europei fosse stata analoga a quella del Pil nominale, il rapporto attività bancarie/Pil risulterebbe diminuito di quasi 140 punti percentuali. Nel caso degli Stati Uniti un esercizio analogo produce una correzione altrettanto importante, ma decisamente inferiore (poco più di 60 punti percentuali).

La specificità europea

Perché il circuito bancario europeo è così ampio, perché è cresciuto in misura tanto intensa negli ultimi 15-20 anni, perché è cosi elevato il peso delle banche al vertice del sistema? Queste domande in parte si sovrappongono e la risposta è composta di più segmenti.

Il primo fattore da considerare è il carattere fortemente bancocentrico della realtà europea. Negli ultimi anni questo dato ha cominciato a subire qualche prima correzione: il contributo dei corporate bond al finanziamento esterno delle imprese dell’eurozona pari all’11,2% a inizio 2008 risulta salito al 17,5% a dicembre 2015.

Una seconda argomentazione fa riferimento alla più ampia diffusione in Europa del modello di banca universale, quello che all’interno dello stesso perimetro di gruppo affianca all’attività creditizia tradizionale altre attività (dall’investment banking, all’attività assicurativa, etc). Il processo di liberalizzazione che ha favorito la diffusione della banca universale si è dispiegato in parallelo (anni ’90) in Europa e negli Stati Uniti ma le ricadute sono state più ampie nel Vecchio Continente.

Un ulteriore elemento utile a comprendere il fenomeno fa riferimento alla maggior timidezza del processo di selezione. Nel corso della sua lunga storia la statunitense FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation) ha cancellato alcune migliaia di banche (491 dal 2009 ad oggi), quasi sempre istituti minori ma non raramente anche di rilevante dimensione. Orientativamente negli Stati Uniti solo una chiusura su sette si risolve nell’incorporazione in un’altra banca; in Europa questa opzione risulta preferita nella quasi totalità dei casi. Questo orientamento europeo ha subito una (limitata) correzione dopo lo scoppio della crisi finanziaria: dal 2008 in poi sono state inoltrate a Bruxelles oltre 400 richieste di autorizzazione per sostenere banche in difficoltà con fondi pubblici, richieste il cui accoglimento è stato condizionato all’approvazione di severi piani di ristrutturazione/ridimensionamento.

Ogni considerazione sull’evoluzione del circuito europeo negli ultimi due decenni non può comunque prescindere dai mutamenti di scenario imposti dall’avvio della moneta unica che ha tendenzialmente orientato i governi verso un nazionalismo bancario espressosi con frequenza nell’incoraggiamento alla costruzione dei cosiddetti “campioni nazionali”, vale a dire gruppi da un lato in grado di muoversi con autorità in un mercato divenuto di dimensioni continentali, dall’altro lato sufficientemente grandi da rendere improbabili operazioni ostili da parte di altri operatori.

G-SIBs e D-SIBs

Per un gruppo bancario la grande dimensione non è (di per sé) ostacolo al conseguimento di una soddisfacente condizione complessiva e/o possibile causa di instabilità. Sotto il profilo del rischio sistemico si è visto che problemi possono venire certo da una dimensione particolarmente elevata ma anche dalla densità della rete di relazioni con il resto del circuito finanziario; preoccupante è la combinazione di queste due caratteristiche. Per un grande gruppo i problemi di governance sono inevitabilmente di notevole spessore, una situazione cui non sempre fanno riscontro risposte di adeguata qualità.

Due notazioni per evidenziare l’ordine di grandezza del problema. Alla fine del 2015 i gruppi bancari con un attivo prossimo o superiore a $1.800 mld, l’ammontare del Pil dell’Italia, erano 16 (5 europei, 5 cinesi, 4 statunitensi, 2 giapponesi).

Molti di questi gruppi hanno strutture decisamente complesse. A metà 2013 nel perimetro di 10 tra i maggiori gruppi mondiali risultavano (in media) presenti circa 1750 società, 200 in più di quelle rilevate dai bilanci 2007. Tra questi 10 gruppi, 5 consolidavano nel loro bilancio più di 1000 società e appena 2 risultavano averle ridotte di numero rispetto alla situazione pre-crisi finanziaria.

Di fronte a questa realtà i regolatori europei e statunitensi hanno imposto ai gruppi di rilevante importanza la predisposizione delle living wills, ovvero un’articolata descrizione degli interventi da adottare in caso di grave crisi di gruppo, per non pesare sulle finanze pubbliche e limitare le tensioni nel circuito finanziario.

Per ridimensionare il rischio sistemico che in questo scenario si può produrre i regolatori internazionali hanno messo a punto molti interventi.

Dal 2011, ogni novembre, il FSB (Financial Stability Board) e il Comitato di Basilea aggiornano l’elenco delle cosiddette G-SIBs (Globally Systemically Important Banks), vale a dire le banche che per dimensione e profilo possono dare origine in caso di difficoltà a fenomeni di instabilità economico-finanziaria a livello mondiale. Alle G-SIBs si affiancano le D-SIBs (Domestically Systemically Important Banks), cioè istituzioni bancarie sottoposte a particolare attenzione dalle autorità regolamentari di ciascun paese per la loro influenza sulla dinamica economica nazionale. Ai gruppi bancari inseriti in queste due liste si affiancano altre istituzioni di natura non bancaria di analogo rilievo sotto il profilo sistemico. Delle SIFIs (Systemically Important Financial Institutions) fanno parte (oltre alle G-SIBs e D-SIBs) le assicurazioni (9 in tutto, individuate dall’Association of Insurance Supervisors); nel futuro è possibile che il confine delle SIFIs possa essere allargato per comprendere anche altre tipologie di operatori finanziari (ad esempio, gli asset manager).

Alle SIFIs è richiesta una maggiore capacità di assorbimento delle perdite (più alti requisiti patrimoniali) e un sistema di risoluzione che dia alle autorità strumenti per scongiurare/limitare effetti destabilizzanti sull’intero circuito finanziario.

Le G-SIBs sono attualmente 30 (15 europee, 8 statunitensi, 4 cinesi, 3 giapponesi). Il loro attivo congiunto sfiora i $ 60mila miliardi (80% del Pil mondiale), di cui oltre quattro quinti di competenza dei 20 gruppi maggiori. La composizione di questa lista viene rivista ogni anno (l’ultima revisione si è conclusa con l’aggiunta della China Construction Bank e l’uscita del BBVA). A determinare l’inclusione o l’esclusione in questo insieme è il punteggio (espresso in punti base) definito da 12 indicatori raggruppati in 5 classi, ad ognuna delle quali è attribuito un peso del 20%. Ciascuna classe si concentra su un particolare aspetto: dimensione; ampiezza delle interconnessioni; sostituibilità come operatore nel circuito dei pagamenti e delle transazioni finanziarie; complessità; operatività internazionale.

Tre dei 12 indicatori pesano in misura più ampia degli altri. Si tratta dei due che segnalano l’attività cross-border ma soprattutto di quello relativo alla dimensione (misurata considerando l’esposizione totale) che da solo contribuisce per un quinto al punteggio finale.

Il valore di ciascun indicatore viene “normalizzato” rapportando il dato del gruppo in esame alla corrispondente media dei 75 maggiori gruppi mondiali monitorati dal Comitato di Basilea. Tra queste 75 banche sono considerate G-SIB quelle i cui indicatori definiscono un punteggio superiore ad una certa soglia. Il punteggio finale stabilisce anche in quale contenitore (bucket) viene inserita la banca e quindi quanto ampio è l’aggravio del requisito patrimoniale (CET1) previsto (attualmente, da un minimo dell’1% ad un massimo del 2,5%).

L’aggravio patrimoniale previsto per le G-SIBs deve considerarsi un minimo nel senso che le singole giurisdizioni nazionali possono imporre requisiti anche più elevati. L’applicazione dell’intera procedura sarà graduale, a partire dal 2016. Come per Basilea 3, è stabilito che il periodo transitorio termini nel gennaio 2019.

I più onerosi requisiti patrimoniali richiesti alle G-SIBs sono disegnati per accrescere la capacità di assorbimento delle perdite “going-concern”, quelle cioè che si evidenziano in condizioni di continuità d’impresa. A questo requisito per le G-SIBs si aggiunge quello della TLAC (Total-Loss Absorbing Capacity), cioè il mantenimento di un ammontare minimo di passività che possano essere soggette a bail-in in caso di risoluzione della banca. Il focus del TLAC quindi sono le perdite “gone-concern”, quelle cioè cui bisogna far fronte quando l’istituzione è in una accertata condizione di insolvenza, per evitare ricadute sulla finanza pubblica e limitare gli impatti sul funzionamento del resto del circuito finanziario. Il requisito del TLAC entrerà in vigore da inizio gennaio 2019, un’adozione graduale da completare entro il 2022.

La procedura per identificare le D-SIBs è in gran parte simile a quella delle G-SIBs. L’EBA ha emanato le linee guida cui devono attenersi le autorità nazionali, responsabili dell’intera procedura. Le classi di indicatori previste sono le stesse delle G-SIBs con la ovvia esclusione di quella che raggruppa gli indicatori che si focalizzano sull’operatività internazionale. Dal comunicato EBA si ricava che in alcuni paesi si è rinunciato ad ogni aggravio patrimoniale (CET1); negli altri si va da un minimo dello 0,2% ad un massimo del 2%.

G-SIBs e D-SIBs in Italia

Tra le grandi banche italiane UniCredit è classificata come G-SIB e risulta inserita nel primo bucket (quello più basso) con un aggravio patrimoniale (a regime) dell’1%. Le D-SIBs, invece, sono tre: oltre a UniCredit, Intesa SanPaolo e Monte dei Paschi. L’Italia è tra i paesi che hanno optato per non imporre aggravi patrimoniali. Nel suo comunicato, la Banca d’Italia giustifica la decisione ricordando che in un caso (UniCredit) si tratta di una G-SIB e quindi già chiamata a costituire uno specifico capital buffer . Inoltre – rileva ancora la Banca d’Italia – come tutti i gruppi sottoposti alla vigilanza della Bce, le tre D-SIBs devono mantenere un capital buffer dell’1% per compensare il rischio sistemico di cui sono portatori.